Un liberal di sinistra contro il pacifismo amico dei fascismi e qualche notizia inaspettata su Michael Moore
Testata: Il Foglio Data: 23 luglio 2004 Pagina: 3 Autore: Paul Berman - Christian Rocca Titolo: «In Iraq una guerra antifascista - Quando michael Moore censurò Paul Berman»
Su Il Foglio a pagina 3 un articolo di Paul Berman, "In Iraq una guerra antifascista, Salih ne è la prova vivente". Berman, intellettuale di sinistra americano favorevole alla guerra al terrorismo, presenta la figura di Barham Salih, leader curdo e ministro del nuovo Iraq democratico.E mette in luce contraddizioni e ipocrisie della sinistra pacifista. La guerra in Iraq è stata sempre una guerra contro il fascismo, una guerra di liberazione in nome della libertà democratica, addirittura una guerra di sinistra. O almeno io ho sempre pensato così. In tutto il mondo ci sono persone, le quali si dichiarano liberal o di sinistra, che pensano esattamente la stessa cosa e che hanno, in un modo o nell’altro, appoggiato la guerra persino quando criticavano Bush per il modo in cui la conduceva. Devo ammettere che un buon numero di altre persone la pensa in modo diverso e considera questa guerra come un’impresa esclusivamente di destra: una guerra per il petrolio, per l’imperialismo o per gli interessi repubblicani. Noi liberal e sostenitori di sinistra della guerra abbiamo avuto da superare giorni duri e difficili per colpa di questa convinzione. Ma, in Iraq, qualche settimana fa, i falchi della sinistra hanno ottenuto un successo davvero esaltante. A Baghdad si è insediato un nuovo governo, guidato dal primo ministro Iyyad Allawi. Tuttavia, subito alle sue spalle, c’è un vice primo ministro che è stato scelto con l’approvazione non soltanto degli Stati Uniti, come ci si poteva facilmente aspettare, ma anche di un molteplice numero di fazioni politiche. Il nuovo vice primo ministro è Barham Salih, un curdo. Salih è, a detta di tutti, estremamente popolare nelle province curde: proprio il genere di persona che, in un Iraq autenticamente democratico, arriverebbe senza dubbio a posizioni di grande autorità. Ma c’è dell’altro: è uno dei più grandi eroi della sinistra in medio oriente. Salih è un membro dell’Unione patriottica del Kurdistan; vi è entrato nel 1979, quando l’organizzazione era clandestina. E’ stato tenuto a lungo sotto controllo dalla polizia segreta di Saddam Hussein, che lo ha arrestato ben due volte. E’ stato nel mirino di Ansar al Islam, gruppo affiliato ad al Qaida, che ha cercato di assassinarlo (e ha ucciso le sue guardie del corpo). Ma questo non lo ha fermato, ed è diventato primo ministro del governo regionale autonomo curdo nell’Iraq settentrionale, guidando la creazione e la crescita di quella che si può definire, sotto ogni aspetto, un’autentica cultura democratica, o almeno la sua forma incipiente. Un uomo di sinistra che chiede solidarietà A Roma, nel gennaio del 2003, prima che cominciasse la guerra, davanti al consiglio dell’Internazionale socialista, Salih ha pronunciato un discorso che può essere considerato l’espressione più chiara e autorevole della posizione mantenuta dai falchi della sinistra. Ha fatto appello alla sinistra democratica di tutto il mondo affinché sostenesse l’imminente invasione, paragonandola alla liberazione dell’Italia da parte degli Alleati nel 1944. Gli italiani avevano subito vent’anni di fascismo, ha detto Salih, e l’invasione del 1944 è stata la loro liberazione. Gli iracheni, ha aggiunto, hanno dovuto sopportare per 35 anni "l’ideologia violenta e razzista" del partito Baath, e hanno bisogno dello stesso genere di aiuto. Cinque mesi fa, a Madrid, Salih ha parlato nuovamente ad un incontro dell’Internazionale socialista. Ecco un passaggio del suo discorso: "La maggior parte degli iracheni considera assolutamente prioritario il dovere morale e politico di una guerra di liberazione. Per molti di noi in Iraq, che hanno fatto esperienza diretta delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, la polemica sulla mancanza di prove sull’esistenza di queste armi è del tutto incomprensibile. Per noi in Iraq, la minaccia delle armi di distruzione di massa non si riduce a una sterile questione di cifre. Sono state usate regolarmente da Saddam come strumento di repressione. La pulizia etnica è cominciata in Iraq nel 1963, quando il partito Baath ha preso il potere. Circa un milione di persone è stato deportato, per la maggior parte curdi, ma anche turkmeni e cristiani assiri. Il regime fascista di Saddam Hussein è costato la vita ad almeno due milioni di iracheni. Le fosse comuni sono una ragione sufficiente per giustificare la moralità di questa guerra di liberazione. Io, come curdo e come iracheno, so, forse meglio di altri, che la guerra è una cosa devastante, alla quale bisognerebbe sempre opporsi. Eppure, per noi, questa guerra ha segnato la fine di una guerra ben più brutale che era stata scatenata contro lo stesso popolo iracheno… Nonostante le immagini che, sugli schermi delle televisioni occidentali, presentano l’Iraq come una spaventosa tragedia, per la maggior parte degli iracheni, i quali non hanno conosciuto altro che gli assassini e le violenze del regime di Saddam, questi ultimi dieci mesi sono stati un periodo di straordinari passi avanti per la creazione di una società libera. Questa è la prima volta nella storia dell’Iraq, e forse in tutta la storia del medio oriente islamico, in cui il popolo ha la possibilità di partecipare a un vasto e serio dibattito politico sul futuro del suo paese". Penso di sapere perché, in tutto il mondo, molte persone liberal e di sinistra non hanno risposto a questi appelli. Perché, quando aprono davvero le orecchie sul dibattito iracheno, sentono l’antipatica voce di George W. Bush e non quella della sinistra democratica in Iraq. Ma mettiamoci ad ascoltare. Questa è una guerra per la democrazia, non per il petrolio. E’ una guerra antifascista. E’ una guerra che, almeno per il momento, ha portato al potere, come vice primo ministro, un uomo di grandissima autorità nella lotta per la libertà in medio oriente. Ora quest’uomo chiede la nostra solidarietà. E si merita pienamente di averla. Riguarda anche Paul Berman la vicenda raccontata nell'articolo di Christian Rocca (sempre a pagina 3), "Quando Michael Moore censurò Berman, liberal troppo libero". Moore vuole dedicare il suo prossimo film al conflitto israelo-palestinese. E' utile sapere chi è... Ecco il pezzo: Michael Moore non odia soltanto George W. Bush e i suoi "stupidi uomini bianchi", farebbe a fettine anche Paul Berman, l’autore dell’articolo pubblicato qui sopra. Il regista Moore è stranoto e strapremiato, ma i lettori del Foglio ormai conoscono bene anche Berman, il saggista di sinistra che ha scritto "Terrore e Liberalismo", il libro sull’ideologia politica che sostiene sia i fondamentalisti islamici sia i regimi cosiddetti laici del Medio Oriente. Berman è uno col curriculum di sinistra senza pecche: esponente della New Left americana, studioso del Sessantotto, ha scritto per riviste antagoniste come Mother Jones e per giornali liberal come New Republic, Dissent, New York Times Magazine e Los Angeles Times. Berman non ha votato né voterà Bush ma, con altri intellettuali della sinistra americana spesso ignorati dalla stampa italiana, e con Tony Blair, crede che sia stato un bene, soprattutto per gli iracheni, l’intervento che ha cambiato il regime dittatoriale di Saddam. Fa parte, insomma, di quella sinistra liberale e non ideologica che sta agli antipodi rispetto al casarinismo disobbediente di Michael Moore. Moore, infatti, lo odia. La storia è questa. Alla fine del 1985 la più popolare tra le riviste della sinistra americana, "Mother Jones", inviò Paul Berman in Nicaragua per fare un lungo reportage sulla gloriosa (per la sinistra radicale) rivoluzione sandinista. Berman soggiornò a lungo a Managua e girò il paese. La lunga inchiesta fu pronta nel 1986 e fu uno shock per la sinistra americana che vedeva nei rivoluzionari di Daniel Ortega un’alternativa possibile al capitalismo reaganiano di quegli anni. "Avevo semplicemente scritto – dice oggi Berman al Foglio – che i sandinisti erano antidemocratici". Aggiunse che erano leninisti, che violavano i diritti umani e che non erano in grado di governare l’economia. Insomma, cose che nessun oggi contesta più, probabilmente neanche Ortega. Mentre Berman era in Nicaragua, però, successe una cosa. La proprietà di Mother Jones, giornale di San Francisco che deve il nome alla sindacalista socialista Mary Harris (Mother) Jones che morì nel 1930 all’età di 100 anni, assunse un nuovo direttore, un trentaduenne proveniente dal Michigan Voice, un mensile antagonista di Flint, cittadina, sandinista pentito appunto, del Michigan. Era Michael Moore. Quando il neodirettore Moore lesse l’articolo di Berman pronto per essere stampato decise di censurarlo, non lo pubblicò, perché sarebbe stato "un regalo a Reagan", presidente impegnato a contrastare l’Impero del Male ovunque, anche nel cortile di casa, non solo in Europa dell’est. Successe finimondo, dopo la censura dell’articolo. Scoppiò una lite furibonda tra Moore e l’editore e la vicenda divenne un caso nazionale. Finì che, nel settembre del 1986, quattro mesi dopo l’assunzione, Moore fu licenziato. Cinque giorni dopo essere stato cacciato, Moore fece una causa da 2 milioni di dollari al giornale. L’articolo di Berman uscì a novembre. Moore si vendicò scatenando una campagna di insulti e accusando Berman di non aver alcun titolo per valutare la situazione in Nicaragua anche perché, diceva Moore, Berman non parlava spagnolo. Ovviamente era falso, come false sono la gran parte delle cose che Moore dice di Bush, tanto che Berman gli rispose su un giornale direttamente in spagnolo. "Capii che era un bulletto, un demagogo, un ignorantone che usava metodi stalinisti, pur non essendo sofisticato come i peggiori vecchi stalinisti sapevano essere – dice Berman al Foglio – Ma aveva talento e riuscì a scatenare una crociata. Ho riso molto quando si è lamentato che qualcuno stava cercando di censurare suo film… detto da uno che aveva censurato il mio articolo…". Naturalmente non c’è mai stato pericolo che "Farheneit 9/11" venisse bloccato. Era solo uno dei tipici colpi di marketing di Michael Moore, l’alfiere della stupid white left.
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