Il ritorno Yigal Leykin
Besa Muci euro 17
A volte è un attentato terroristico oppure è la guerra a portarsi via giovani vite, private per sempre della possibilità di costruirsi un futuro. Arriva così la morte in quel piccolo paese, circondato da nemici che ne vorrebbero la distruzione, cancellando i sogni e le aspettative di una famiglia.
Se nel romanzo di Cinzia Leone “Vieni tu giorno nella notte” (Mondadori) è un kamikaze palestinese che si fa esplodere in un locale di Tel Aviv a portarsi via la vita di Ariel Anav, un soldato dell’esercito israeliano, nell’ultimo folgorante libro di Yigal Leikin, “Il ritorno” (Besa Muci) è la Seconda Guerra del Libano del 2006 a gettare nella disperazione un’intera famiglia con la morte di Giacomo, giovane comandante carrista, solo pochi giorni prima del cessate il fuoco. E qui è inevitabile il richiamo alla morte di Uri, il figlio dello scrittore David Grossman, in quel tragico conflitto e in circostanze analoghe.
Alla sua terza prova narrativa (nel 2015 ha esordito con “Una vita qualunque” edito da Giuntina e vincitore di vari premi letterari e nel 2022 ha pubblicato con Besa Muci “Il concerto”), Ygal Leykin laureato in Medicina e chirurgia all’Università degli Studi di Bologna, si conferma uno scrittore di talento capace di penetrare nelle dinamiche più complesse di quel laboratorio sociale che è Israele, il paese dove si è trasferito con la famiglia all’età di dodici anni. Autore anche di lavori scientifici, pubblicati in riviste internazionali ha insegnato e lavorato in corsia presso importanti istituti scientifici italiani e stranieri. Attualmente è libero professionista presso l’Ospedale di Venezia.
“Il ritorno” è un romanzo che racconta la sofferenza e la disperazione di una famiglia dinanzi a una perdita inspiegabile e ripercorre i ricordi dolorosi del passato dei protagonisti fra errori e incomprensioni, in una sorta di viaggio interiore che porterà tuttavia a una nuova consapevolezza. Nel “ritorno” del titolo si può intravvedere il desiderio di ritrovare un affetto abbandonato, la volontà di scoprire le proprie origini, l’anelito alla solitudine, oppure il “ritorno” è inteso come destino o redenzione.
Già dalle prime pagine l’autore ci porta nel cuore dello Stato ebraico dove dal 12 luglio 2006 imperversa la Seconda guerra del Libano, scoppiata a seguito del rapimento di due soldati israeliani e dell’uccisione di altri tre per mano del movimento radicale libanese Hezbollah. Una delle paure che attanaglia ogni famiglia con un familiare all’esercito è quella di ricevere la visita di ufficiali militari portatori di notizie funeste. Ed è proprio quello che accade all’alba di venerdì 4 agosto quando gli zii Aviva e Yaakov e il cugino Zeev ricevono la tragica notizia della morte di Giacomo, ucciso nei sobborghi di Bint Jbeil, nel sud del Libano a pochi chilometri dal confine con Israele.
Crogiolarsi nel dolore non è possibile, occorre partire subito per l’Italia perché bisogna informare i genitori di Giacomo: la madre Francesca che vive a Bologna con il nuovo compagno e un figlio di pochi anni e il padre Yair che risiede a Milano.
Tornati tutti insieme in Israele per il funerale e la shiv’à, la settimana di lutto per la tradizione ebraica, è nella casa dei nonni di Bat Yam che i personaggi di questa storia si trovano a confrontarsi, mettendo in scena i momenti più significativi del passato per trovare un modo per comunicare fra loro e dare un senso alla tragedia che li ha colpiti.
Al termine della shiv’à ogni certezza sarà scardinata e sulle ceneri di un dolore senza fine si dovrà ricostruire un’esistenza che non sarà mai più quella di prima.
Sono tanti i personaggi cui l’autore dà voce in una narrazione corale dove ogni capitolo vede al centro una figura diversa.
C’è però un personaggio che spicca, pur nella dolorosa assenza, e che pervade ogni pagina del libro per i sentimenti e le reazioni emotive che innesca negli altri: è Giacomo il cui nome in ebraico, Yaakov, significa seguace di Dio.
Giacomo è nato a Bologna ma quando aveva un anno i suoi genitori, Francesca e Yair, si sono separati e lui è cresciuto con il nuovo compagno della madre pur provando un’ammirazione sconfinata per il padre. In Israele è un hayal boded, un soldato solo, che ha lasciato la famiglia per svolgere il servizio militare volontario nel paese di origine del padre. Cosa l’ha portato ad arruolarsi in Tsahal? Forse Il desiderio di entrare in contatto con un genitore taciturno e riuscire a penetrare i suoi silenzi?
Perché Yair, che ha fatto la prima Guerra del Libano del 1982, è un’anima tormentata che ha lasciato all’improvviso Israele dopo gli studi di medicina per vivere con Francesca a Bologna dove entrambi avevano studiato e cercare un riscatto in quel legame sentimentale. Ma il peso che si porta nel cuore è troppo grande e ancora una volta fugge a Milano lasciando Francesca sola ad allevare il piccolo Giacomo mentre lui, non più in grado di esercitare la medicina dopo la guerra, trova uno spazio professionale nell’ambiente farmaceutico. Cosa è accaduto a Yair di così traumatico dall’avergli sconvolto la vita? Sarà un infermiere venuto alla shiv’à a svelare, senza troppi scrupoli, il male che gli rode l’anima e le persecuzioni psicologiche che ha subito in silenzio per anni.
Oltre al tema della guerra, che pervade la narrazione, Ygal Leykin torna ad affrontare quello della Shoah nei silenzi e nella difficoltà di comunicazione fra i sopravvissuti ai campi di sterminio e le nuove generazioni che devono vivere con i silenzi dei familiari, rendendoli prigionieri delle aspettative dei genitori che vedono in loro la speranza di una rinascita. “…non si parlava di quei numeri tatuati sul braccio. Era un dato di fatto”.
Ciascuno dei protagonisti di questa storia indimenticabile si troveranno al termine dei giorni di lutto, che in qualche modo avevano prolungato la vita di Giacomo, a riordinare i tasselli del passato, a prendere coscienza dei nuovi rapporti ridefiniti dal dolore, ad accettare gli altri per quello che sono e a perdonarsi gli errori della gioventù.
Sono molte le riflessioni che scaturiscono dalla lettura de “Il ritorno”, un romanzo luminoso che ci ricorda che ogni essere umano è una miniera in cui scavare, da cui estrarre parole per dare un senso alla vita; che ognuno di noi porta con sé storie minuscole e immense che meritano di essere raccontate e ascoltate.
Le voci di questo libro non cessano di risuonare nella mente del lettore ben oltre la fine del libro e ci rammentano il coraggio di tanti giovani soldati israeliani “carichi di un senso di responsabilità che non è richiesto a nessun altro a quell’età” che si muovono incontro al nemico per difendere il loro paese, consapevoli che accanto alla vita c’è il rischio di perderla ma cercano sempre il modo migliore possibile per viverla e anche conservarla.
Giorgia Greco |