Aharon Appelfeld
L’immortale Bartfuss
Guanda
L’immortale Bartfuss è uno dei primi romanzi di Aharon Appelfeld, nato nel 1932 in Bucovina e mancato tre anni fa a Gerusalemme. Uscì nel 1983 in ebraico e da allora è rimasto uno dei capisaldi della sua opera, pur essendo in un certo senso radicalmente diverso da tutti gli altri suoi libri. Non era mai stato tradotto in italiano: per chi ancora non conoscesse questo grande autore, sarà il modo migliore per scoprirlo. La narrativa di Appelfeld si dipana tutta intorno alla tragedia dello sterminio filtrata dalla sua esperienza personale di ragazzino in fuga dai nazisti, alla macchia nelle foreste del centro Europa, in balla degli eventi. Nato in una famiglia della buona borghesia colta e poliglotta, sopravvisse grazie a una serie di rocambolesche avventure al confine del surreale, eppure verissime. Tutta la sua opera parla di Shoah, ma l'autore non entra quasi mai dentro i campi della morte, nei vagoni merci, nelle camere a gas. Se dunque tutta la sua opera si situa al crocevia tra invenzione, autobiografia e memoria collettiva guidate da uno stile asciutto, come spinto dall'aspirazione ad arrivare alla radice di quella lingua ebraica appresa solo da adolescente, una volta approdato in Israele, L'immortale Bartfuss, invece, nel narrare quel buco nero si situa in una dimensione diversa. È come se Appelfeld stesso si affacciasse al di là dei cancelli diAuschwitz attraverso il suo protagonista. C'è in queste pagine, certamente, la consueta e indecifrabile misura di mitezza e crudeltà che sta in filigrana dentro la scrittura di Appelfel, sia quando inventa storie sia quando rielabora il proprio dato autobiografico trasfigurandosi in bambine coraggiose, ragazzini perduti nei boschi, adolescenti in fuga verso la Terra Promessa, ma anche quando dipinge una variegata e ignara umanità in villeggiatura - come in Badenheim, il suo primo romanzo: tutti questi protagonisti abitano in un mondo devastato dallo sterminio. L'immortale Bartfuss è sì, un sopravvissuto, ma è anche l'antieroe per eccellenza, e forse il più emblematico dei suoi personaggi. È un reduce dai campi della morte, vive in Israele. Ha un'apparenza di normalità, una famiglia, una vita abbastanza monotona. Pere', nei suoi silenzi ostinati così come nelle sue rade parole, negli incontri che fa camminando di giorno e sognando di notte, nei paesaggi che invece di essere invasi da uno spietato sole mediorientale sono sempre cupi, dai contorni sfumati, c'è sempre l'ombra di un passato di cui quest'uomo non racconta se non a sé stesso. A sprazzi, frammenti sconclusionati. Con un costante senso di resa, rinuncia, sconforto. Arrivato in Israele passando per l'Italia, come molti profughi, ancora molti anni dopo si trova a condurre un'esistenza bizzarra, trascinandosi da un caffè all'altro pur di non stare rinchiuso tra le mura di casa. Lì c'è un covo di serpi, tra moglie, figlie e genero. Ma forse c'è soltanto una normalità che la sua esistenza ferita non è capace di accettare. È un uomo terribilmente scorbutico, che non accetta il presente - proprio e altrui. E così, a dispetto di quello che è stato, Bartfuss trova nel passato una sorta di rifugio. Quel passato è terribilmente incubotico, spaventoso, buio, eppure suo. E una prigione di silenzio e solitudine. Del presente, c'è solo una immagine che lo lenisce, che è come una nostalgia incongrua: quel mare a cui è approdato in fuga dall'Europa, e che ora non si stanca di contemplare, forse in cerca di una impossibile consolazione.
Elena Loewenthal - La Stampa