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Olivier Guez - Il secolo dei dittatori - 26/12/2020 -

Il secolo dei dittatori
AA.VV., a cura di Olivier Guez
Neri Pozza 2020, pp. 513, 23,00 euro

Sulla tomba di Leonardo Sciascia, a Recalmuto, c’è una lapide, e sulla lapide c’è una scritta tra virgolette che dice: «Ce ne ricorderemo, di questo pianeta». È una citazione di Rouget de l’Isle Adam, musicista e poeta, autore nel 1792 della Marsigliese, testo e musica. Be’, ci ricorderemo anche della rivoluzione francese, di Robespierre e di Saint-Just, della ghigliottina sempre sotto pressione, dei giacobini, del comitato di salute pubblica, del caporale corso, della Dea Ragione. Ci ricorderemo della Grande rivoluzione, e di ciò che alla fine ne è seguito: il Novecento, il secolo dei dittatori.

Giornalista e saggista, ma soprattutto sceneggiatore cinematografico, autore nel 2015 d’un film molto bello e importante, Lo stato contro Fritz Bauer, storia del magistrato tedesco che contro la volontà dei suoi superiori segnalò al Mossad la presenza di Adolf Eichmann in Argentina, Olivier Guez cura quest’antologia di miniature biografiche dei principali tiranni del XX secolo. È un libro non meno bello e importante del suo film. Ciò per due motivi. Uno perché chiarisce e illustra che il fenomeno novecentesco delle dittature non è limitato solo alle tirannie kolossal, impossibili da ignorare, dalla Germania hitleriana alle satrapie bolsceviche, ma è una piaga ovunque estesa, anche in piccoli paesi fuori vista, ai quali non si bada mai granché e così, spesso per indifferenza, più spesso ancora per interesse, gli si perdonano le mattanze politiche, i campi di lavoro, gli orrori quotidiani. Due perché rende conto dell’inaudita e vertiginosa dimensione ideologica di questo fenomeno tipicamente (no, esclusivamente) novecentesco: l’horror utopico, che tiene sotto incantesimo l’umanità, che lo alimenta più di quanto lo respinga, da oltre un secolo. Prima di leggere Il secolo delle dittature (che le segnala, descrive, elenca e contestualizza minutamente tutte attraverso brevi e invariabilmente terrificanti profili dei dittatori che le hanno animate) si poteva ancora coltivare un’idea tutto sommato folkloristica del fenomeno.

Sì, ci sono ancora delle dittature qua e là, ma la più feroce tra loro, la Cina maoista, è scesa da tempo a miti consigli: è una potenza sempre minacciosa, d’accordo, ma capitalistica, aperta al mercato, a suo modo «cosa nostra». Quanto alla Corea del Nord, monarchia comunista governata da una dinastia di ridicoli brutti ceffi, ciccioni, cinefili, per di più vestiti come il Dottor no in Licenza d’uccidere, è in fondo una nazione minuscola, ancorché atomica. E chi ha paura, via, del comunismo carioca dell’Avana, o del fascismo rosso venezuelano, degli Assad in Siria, della Russia putiniana, delle autocrazie religiose in Medio oriente, dei regimi post coloniali in Africa, di Hezbollah in Libano e Palestina, delle «democrazie illiberali» (come allegramente si autodefiniscono) che sono parte integrante dell’Unione europea, della Turchia fascioislamista, dei movimenti populisti, del grillismo in Italia e delle derive autoritarie negli Stati Uniti, dove si mette fuori legge Mark Twain e s’abbattono o lordano le statue di Cristoforo Colombo (esattamente come in Afghanistan, nel 2001, i talebani fecero saltare con la dinamite i due enormi Buddha di Bamiyan, statue alte decine di metri e antiche di millenni). Grazie al Secolo dei dittatori, di cui è vivamente raccomandata la lettura a chiunque abbia a cuore le sorti dell’Occidente, cioè nostre e dei nostri figli e nipoti, mai così assediati da nemici spietati e spaventosi, il problema è messo a fuoco nella giusta prospettiva: la catastrofe, cominciata dopo la Grande guerra, quando i tiranni dilagarono in Europa, è ancora in corso.

Lenin e Mussolini, Mobutu e i fratelli Castro, Tito, Francisco Franco e Philippe Pétain, il Presidente Mao, Pol Pot e Pinochet, Enver Hoxha e l’haitiano Papa Doc, dittatore vudù (benché ogni dittatura moderna sia, a suo modo, una dittatura vudù): a scrivere, in forma di cammeo, le loro storie sono storici di fama del totalitarismo. A cominciare da Stéphane Courtois, curatore nel 1997 del Libro nero del comunismo, best seller planetario. Fu un best seller anche in Italia, dove però fu boicottato da vetero, post e neocomunisti (che tuttora boicottano l’anticomunismo, cioè la storia veridica dell’utopia marxleninista, di cui insistono a parlare con i lucciconi agli occhi, e guai a dare del tiranno ai loro idoli, da Che Guevara a Ho Chi Minh).

Non ci sono più, sempre che ci siano mai state, «vie nazionali» alla dittatura moderna: la dittatura è la stessa ovunque, a Teheran come a Pechino e Caracas o a Baghdad sotto Saddam Hussein: un franchising chiavi in mano, che ovunque funziona nello stesso modo, stessi arredi, stesse istruzioni al personale, un identico menù. «Ogni capitolo del libro» – scrive Guez nell’introduzione al Secolo dei dittatori, «disseziona un dittatore al potere. Sono cruciali le prime settimane: deve imporre la sua volontà di potenza, restaurare l’ordine, trasformare la società in uno Stato caserma nel quale lui è il solo a impartire istruzioni, come un domatore. L’opposizione viene immediatamente bandita, i media e gli intellettuali censurati, gli avversari esiliati, imprigionati, torturati, uccisi. Dissemina le sue spie per sorvegliare la società e spinge chiunque alla delazione. La guida suprema sorveglia anche i sorveglianti. E la popolazione capisce che ogni minima trasgressione sarebbe punita severamente. I seguaci del dittatore prendono in mano polizia, esercito, servizi segreti, e accedono alle più alte responsabilità. Gli creano intorno una cricca protettiva. Ma nessuno s’insidia in maniera durevole. Il dittatore è abile a manipolare le loro lotte di potere. Ma il Vojd, il padrone, non può limitarsi a spaventare e reprimere. Deve rimodellare la società, costruire città, ponti, autostrade. Deve offrire del pane alla plebe, suscitare gioia e speranza facendo balenare un futuro grandioso: il Reich millenario, l’alba comunista dopo la lunga notte della rivoluzione, l’Africa unificata, l’islam purificato dalla cancrena della modernità».

Diego Gabutti

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