Dettati dalla viva voce di Dio, incisi sulla pietra dalla mano di Mosè, riposti nell'Arca Santa, erranti nel deserto, deposti nel Tempio di Gerusalemme costruito da Salomone, nel luogo più santo e inaccessibile – il Sancta Sanctorum, qodesh qodashim –, i comandamenti non sono tutto. Non dicono tutto. C'è fra le righe del testo, negli spazi bianchi fra le parole e le lettere che compongono il testo, un silenzio non meno eloquente degli imperativi che contiene. Perché non c'è tutto, nei comandamenti.
Non c'è tutto in un senso letterale ed evidente: gli ultimi libri della Torah, cioè Levitico, Numeri e Deuteronomio contengono in larga maggioranza materiale normativo. In altre parole, i Dieci comandamenti non esauriscono affatto l'argomento. Non aprono e chiudono la Legge. Certo che no. In forma analitica, a volte ripetitiva e a volte incongrua quando non contraddittoria. In questo corpus di leggi e norme che il testo presenta senza alcun ordine apparente, la tradizione lavora da secoli per mettere ordine, cercare una qualche sistematicità. La «prevalenza» della Legge nell'universo culturale e religioso dell'ebraismo è attestata innanzitutto dalla ricchezza semantica dell'ebraico, in proposito. Halakhah, hoq, mishpat, mitzwah, tzedaqah sono tutte parole, e radici di significato, che in modi diversi, con diverse sfumature di senso e di uso, rimandano alla sfera del normativo. La Legge non è dunque «soltanto» le dibrot, i comandamenti. Cioè i «pronunciamenti», come vorrebbe una traduzione letterale del termine. E, come già detto, non esiste una graduatoria dei comandi così come non esiste un meccanismo diretto di trasgressione/castigo che regoli l'osservanza dei precetti fra cielo e terra. Non c'è conteggio, nella Legge. Osservandola si è se stessi, violandola ci si perde, ci si dimentica di quello che si è. Ma i silenzi del Decalogo non sono fatti soltanto di ciò che va sondato negli spazi bianchi e che in un modo o nell'altro attiene al testo scritto, anzi inciso sulle Tavole dell'Alleanza. Luchot ha-berit – il patto fra Dio e l'uomo, di cui è prefigurazione l'obbedienza muta di Abramo, ogni volta che Dio lo chiama. Hinneni, dice il patriarca, ma quell'«eccomi» non è una parola. È ciò che ferma ogni parola, è la parola che si fa muta nell'ascolto. I silenzi del Decalogo sono anche assenze. Non c'è tutto, in quei Dieci comandamenti che sono diventati la sigla della rivelazione. C'è qualcosa che manca, che forse dovrebbe esserci, di cui si sente il bisogno. È vero, il testo biblico impone la fatica di cercare, di non dare nulla per scontato, di sondare sempre la parola, con la consapevolezza che «non è compito tuo portare a termine l'opera, però non puoi esimerti dal tentare di farlo», come dice un adagio talmudico. Ma nel silenzio dei Dieci comandamenti c'è forse qualcosa di più, qualcosa di più profondo, che tocca cercare non solo dentro il testo, in qualche altrove della parola. «Non vendicarti, non portare rancore ai figli del tuo popolo. Ama il tuo prossimo come te stesso, io sono il Signore» (Levitico 19, 18). «Come un cittadino di voi sarà per voi lo straniero, lo straniero con voi. Amalo come te stesso perché stranieri siete stati in terra d'Egitto. Io sono il Signore vostro Dio» (Levitico 19, 34). Amare il prossimo come sé stessi. Questa sì che è una sfida. Il versetto viene normalmente attribuito ai Vangeli, dove compare più e più volte. È diventato quasi l'emblema della distanza che separa l'ebraismo dal cristianesimo, e tuttavia è ripetuto con insistenza perentoria anche qui, nel Levitico. Non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te. È il principio di responsabilità che qui viene svolto precisamente nella sua accezione ebraica di achraiut. Provare a mettersi nei panni degli altri, anche solo per un momento. Scavalcare il confine che separa il sé dall'altro da sé come esercizio di convivenza. Di coesistenza. Non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te è un ordine logico, comprensibile, praticabile. Ma non è necessario avere dell'amore, per praticare questo divieto. Basta il principio di responsabilità. Basta l'intelligenza, basta soprattutto quella lungimiranza che fa guardare giusto un poco più in là, oltre il confine di sé stessi – una lungimiranza fatta, certo, di intelligenza.
La Stampa
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