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La Stampa Rassegna Stampa
08.09.2003 Abu Mazen, allarme rosso e terrorismo
tre articoli di Fiamma Nirenstein

Testata: La Stampa
Data: 08 settembre 2003
Pagina: 3
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «tre articoli fra domenica e lunedì»
Fiamma Nirenstein pubblica tre articoli sulla Stampa fra domenica 7 e lunedì 8 settembre 2003. Il primo è dedicato ai retroscena sulle dimissioni di Abu Mazen dal governo, dal titolo: "Sconfitto dal Raiss e da se stesso", pubblicato a pagina 3 di domenica 7 settembre.
Arretra dalla scena l'uomo della speranza, Abu Mazen, e mentre lui si allontana la guerra avanza, la scena si surriscalda con il tentativo fallito di uccidere il mandante di centinaia di terroristi suicidi, lo sceicco e capo di Hamas Ahmed Yassin. Abu Mazen ne va, sempre che Arafat glielo permetta (perché anche di questa scelta il diabolico Raíss resta padrone) in maniera caotica e distruttiva, con un «j'accuse» diretto a Arafat, dopo quello di due giorni fa contro Sharon; e soprattutto sull'onda delle immagini di una folla violenta che venerdì, sulla strada verso il Parlamento, gli si buttava addosso con intenzioni minacciose, e che l'ha sollevato su una nuvola d'odio in parte spontaneo e in parte orchestrato da Arafat fino a farlo quasi volare, in fuga, dentro l'aula.
Per capire a fondo i motivi della scelta di Abu Mazen, oltre ad ascoltare le sue parole, che accusano Israele come Arafat, è bene ricordare come poco dopo, durante la stessa seduta, un gruppo di uomini mascherati nello stile terrorista abbia cercato di irrompere armi in pugno dentro la sede del potere centrale dei palestinesi. Le dimissioni sono l'apoteosi di un dramma che insieme con mesi di sofferenze e anche di errori hanno portato Abu Mazen alle dimissioni nelle mani di Arafat. Il Raíss le ha perseguite senza tregua, con astuta, elementare cecità, e con quel masochismo del potere che lo ha guidato anche a Camp David; ora può mostrare a un mondo perplesso e spaventato dal futuro la testa del suo nemico, come mostrò facendo il segno della V la morte dell'accordo di Oslo.
E' riuscito a fare dell'uomo che per vent'anni era rimasto fedelmente al suo fianco un servo degli americani e degli israeliani agli occhi della sua opinione pubblica, solo perché, sia pure in maniera molto esitante, Abu Mazen cercava di tornare al tavolo di pace. E adesso ha fatto fuori l'uomo che Bush aveva definito «un leader coraggioso e desideroso di pace» e che ad Aqaba, dopo la guerra in Iraq, aveva insieme con Sharon aperto la strada all'idea che il medio Oriente potesse avviarsi comunque su un stretto sentiero di democratizzazione e quindi di lotta al terrorismo con la Road Map.
Arafat ora probabilmente pondera sul che fare di una vittoria che brucia come una palla di fuoco. Se accetta le dimissioni, resta nudo con il suo obsoleto anche se robusto potere che ormai tutto il mondo considera «non parte della soluzione ma parte del problema», come ha detto il ministro degli Esteri israeliano Silvan Shalom, e come echeggiano le parole di preoccupazione dell’Unione europea; e dichiara di fatto aperta una nuova fase di acuto conflitto con Israele, che rifiuta di avere a che fare con lui. Di fatto, rischia l'esilio, di cui Gerusalemme parla da tempo; inoltre mette l'Autonomia in contrasto non solo con Bush ma anche con l’Ue.
Se Arafat incarica di nuovo Abu Mazen di formare il governo si contraddice presso i suoi, specie dopo che Yassin è stato attaccato e la folla di Gaza reagisce accumunando nell'odio Israele e Abu Mazen; perde parte del credito che la sua forza schiacciante gli ha procurato presso la sua gente dopo tre anni di violenza disastrosa di cui Arafat seguita a fornire un'interpretazione trionfalista, consolatoria, che la folla ama ascoltare specie se messa di fronte all'alternativa di combattere le organizzazioni terroristiche; se incarica un nuovo premier, deve tener conto della richiesta internazionale di non usare un burattino, e quindi il problema del suo potere personale torna in primo piano, dato che comunque il governo israeliano non tratterà né con lui né con una sua controfigura. Ognuna di queste opzioni è piena di spine, e si ha l'impressione che Arafat non abbia saputo frenare in tempo, catturato da una serie di false impressioni, come quella che con un rinnovato segnale di forza potrà di nuovo conquistare la fiducia internazionale e causarne l'intervento a suo fianco.
Abu Mazen, paradossalmente, non ha perso la sua battaglia perché si è eccessivamente contrapposto al suo vecchio capo, ma perché ha scelto di giocare sul suo terreno. Decidendo di perseguire un accordo con Hamas e la Jihad islamica, ha seguitato a lasciare spazio all'opzione morale e organizzativa del terrorismo, fino all'attacco dell'autobus numero 2 a Gerusalemme. Sono trenta i morti per terrorismo negli ultimi due mesi: Israele ha risposto con la politica delle eliminazioni mirate a Gaza, fino alla cima della piramide, lo sceicco Yassin, e questo ha reso Abu Mazen un collaborazionista e Arafat un puro leader rivoluzionario. Anche il fatto di aver usato Muhammad Dahlan, il suo ministro della Difesa, con enorme cautela, di averlo frenato in operazioni di polizia interna, ha fornito spazio alla consueta proliferazione delle milizie, e alla nomina di Jibril Rajub in contrapposizione a Dahlan come capo delle operazioni di sicurezza per l'Olp.
Di fatto, Abu Mazen non ha usato la forza che gli era stata conferita dalla storia straordinaria di questi mesi in Medio Oriente; la debolezza culturale di fronte ad Arafat, la venerazione di cui il Raíss è oggetto gli ha impedito di perseguire l'idea che il terrorismo possa essere rifiutato dalla lotta nazionale dei palestinesi senza indebolirla. Sharon probabilmente avrebbe davvero potuto fare un'invenzione politica migliore di quella della liberazione (pure importante) di centinaia di prigionieri, e della distruzione di pochi avamposti nei Territori. Ma non si è fidato, ha visto il gioco di stritolamento di Arafat e l'inutile divincolarsi di Abu Mazen. Si può pensare come sarebbe stato forte un Abu Mazen davvero indignato dopo l'esplosione dell'autobus numero 2 che lancia un messaggio allo sceicco Yassin arrestandone qualche complice e che al contempo condanna le uccisioni mirate e chiede a Sharon di lasciar fare a lui. Probabilmente questo avrebbe evitato i due eventi di oggi, le dimissioni e il tentato assassinio.
Il secondo, sempre domenica, è stato pubblicato nella sezione culturale a pagina 22. Questo il titolo: "La forza del nemico senza volto".
E' più forte o più debole l'esercito terrorista rispetto al momento in cui mise in atto il suo piano più ambizioso, l'assalto alle Twin Towers e alla società americana in genere? La risposta è duplice: da una parte possiamo essere soddisfatti di alcuni risultati, dall'altra abbiamo ancora immense difficoltà. La guerra al terrorismo similmente alla guerra contro la droga è una guerra di lungo, anzi, lunghissimo respiro, in cui non si vince, ma si combatte e si combatte senza tregua, e affrontando un giuoco determinato da nuove regole: è una guerra in cui una battaglia non porta «la» vittoria, come nelle guerre tradizionali, perché il nemico, nascosto fra i civili, non può essere colpito al cuore come nella battaglia di Waterloo, o a Gettysburg. Ed è una guerra in cui una o più sconfitte, ovvero gli attentati riusciti ultimamente in Iraq e in Israele, non hanno un significato definitivo. Per esempio, il fatto che l'Iraq sia così bersagliato e che sia una calamita per gli jihadisti, non significa affatto che ne debba diventare il rifugio. Questo potè accadere in Afghanistan al tempo in cui gli USA sostennero i talibani contro l'URSS. Oggi il terrorismo ha molti aiuti, ma nessuno così determinante. E tuttavia ha molte teste, che non possono essere tutte tagliate in una sola volta.
Possiamo dire di avere tenuto il terrorismo in scacco sul terreno degli attentati catastrofici: di fatto, essi non si sono più presentati da due anni; decine di operazioni sono state sventate, dozzine di conti bancari e affari di supporto chiusi, una prima forma di collaborazione internazionale coinvolge quasi tutti gli stati del mondo mentre si perfezionano sempre nuovi metodi di indagine e di intelligence. Sono state svelate reti di vendite di armi : a Londra, per esempio, i servizi segreti britannici, americani e russi insieme hanno scoperto una compravendita di missili terra aria pronti per l'uso contro aerei civili americani.
Ma il terrorismo è ancora molto forte, e anche il rischio di un attentato gigante lo è: di fatto, tutto l'ambiente di intelligence lo prevede. I motivi per cui questo è possibile, nonostante la guerra, soprattutto americana, sia molto decisa e abbia investito Afghanistan e Iraq cambiando i connotati dell'aiuto al terrore sono tre: il fronte antiterrorista si allarga continuamente a causa di una fortissima base ideologica, quella dell'estremismo islamico, che possiede infrastrutture di consenso quasi indistruttibili: organizzazioni caritative, squadre di calcio, scuole, colonie, giornali, tv, moschee di mezzo mondo predicano dottrine belligeranti che prima ancora del denaro sono la benzina, fin dall'età più tenera, del terrorismo. In secondo luogo, problemi vari di equilibrio internazionale impediscono di distruggere davvero i finanziamenti del terrorismo e le sue basi. Fra gli altri, Iran, Siria, Arabia Saudita, sono Paesi che salvo piccoli cambiamenti che in genere sono fatti di parole, seguitano a aiutare organizzazioni come Al Qaeda (l'Arabia saudita la condanna e la finanzia), gli Hezbollah (l'Iran e la Siria li finanziano, li ospitano, in parte li manovrano) e Hamas (che riceve aiuti un po' da ogni parte). In generale, e questa è la terza ragione e forse la più importante, abbiamo ancora delle incertezze nel definire il fenomeno, come si vede dalla riunione dei ministri degli esteri della Comunità Europea che nei giorni scorsi ha discusso se Hamas possa essere o meno considerata in toto un'organizzazione terrorista. Chiarire chi è il nemico è un passo fondamentale per vincere una guerra. L'esercito terrorista è molto consapevole del fatto che finché l'indottrinamento è libero, le sue possibilità di reclutamento sono pressoché infinite, e la sua manodopera garantita.
Infine: il terrorismo palestinese spesso è stato riguardato come una zona grigia, e la condanna per le sue operazioni è stata più blanda di quella verso organizzazioni come Al Qaeda. Questo ha creato un danno morale molto serio, avallando l'idea che far strage di donne e bambini sugli autobus di Gerusalemme sostenendo di perseguire un obiettivo politico generalmente accettato, sia diverso dall'uccidere centinaia di civili in seguito a vaneggiamenti ideologici in una discoteca delle Filippine. Così si stabilisce una relazione accettabile fra il terrorismo e il suo fine, e l'assassinio premeditato di bambini e vecchi diventa legittimo; questo ha incitato la gran parte della popolazione palestinese, compresi i suoi leader, a ritenere difendibile il terrorismo. I risultati si vedono nella timidezza di Abu Mazen e nella cocciutaggine di Arafat nel negare la necessità di fermare Hamas e la Jihad. Questo avverrà ovunque, finché il fronte antiterrorista non si compatta negando legittimazione a quei gruppi che proprio le masse musulmane non islamiste hanno più interesse a battere. Questo è il vero fronte, quello interno, su cui il terrorismo può essere battuto.
Oggi, lunedì 8 settembre, a pagina 2, un'analisi sulla nuova violenza che incombe su Israele; intitolata: "Allarme rosso in Israele per la vendetta di Yassin".
Consueto, ma profondamente diverso, l'allarme rosso in cui vivono in queste ore i cittadini israeliani, e in particolare quelli di Gerusalemme, la città più soggetta agli attacchi terroristici. La polizia ha elevato al terzo e al quarto grado lo stato d'allerta: è il livello consueto dell'Intifada, ma era calato prima dell'attacco all'autobus numero 2. La musica non è diversa dal solito, ma i pensieri della gente lo sono. Sono i pensieri di chi vede la storia togliersi la maschera, e mostrare un volto impietoso che non si voleva vedere. Quello della guerra che continua e continuerà, dopo che Arafat ha mandato Abu Mazen fra l'incredulo sconcerto del mondo intero. Certo fa paura e impressione che lo sceicco Yassin, dopo che l'F-16 israeliano ha sparato il suo missile a lui e a tutto il gruppo operativo degli attacchi suicidi, abbia promesso di spalancare le porte dell'inferno, e abbia dato ordine ai suoi di compiere attentati terroristici ovunque possano. Ma la gente non pensa solo a Yassin e a Hamas, pensa soprattutto ad Arafat e al cupo evento delle dimissioni del primo ministro.
Tutto promette attentati. Le solite code infinite di auto a causa dei blocchi stradali e degli oggetti sospetti che la polizia fa esplodere; all'entrata di ciascuna scuola, di ogni negozio, di ogni ufficio si aprono le borse, ci si fa frugare, se si deve lasciare un bambino lo si fa molto malvolentieri. Chi può evita di prendere gli autobus, e chi prende la macchina evita di affiancarsi a un autobus, se può. Gli avvisi di sicurezza sono quasi quaranta, come prima dell'hudna, e l'intelligence avverte che gli attacchi possono essere di ogni tipo: autobomba, suicidi, missili terra-aria contro gli aerei civili che stanno in tutta fretta piazzando un nuovo sistema antimissile su ogni apparecchio dell'El Al.
Arafat tuttavia dopo quello che accaduto nei giorni scorsi è il centro di un'attenzione acuta e incredula: irrilevante per ogni soluzione pacifica, e rilevante per ogni futuro di guerra e di terrorismo, come lo ha definito il ministro Tomy Lapid, è come se d'un tratto, giusto con una mossa interna e non esterna, avesse rivelato un disegno a lungo perseguito, ma mai certificato come dalla cacciata di Abu Mazen. Il disegno di non perseguire affatto una soluzione di pace, ma invece una prosecuzione del conflitto fino alla vittoria finale dei palestinesi. Dopo la sistematica ostruzione del lavoro di Abu Mazen, specie nel controllo delle forze armate che avrebbero potuto fermare i terroristi, e successivamente alle sue disperate dimissioni, Arafat ha cercato, accompagnato dal coro dei politici palestinesi, come al tempo del suoi rifiuto a Camp David, di gettare addosso a Israele la colpa dell'evento che porta al fallimento della Road Map: ma stavolta non funziona.
Il rilascio da parte di Israele di centinaia di prigionieri e il ritiro da Gaza, Betlemme e Gerico, o l'apertura di svariati posti di blocco anche in punti delicati, o lo smantellamento di alcuni avamposti degli insediamenti forse non sono stati abbastanza per suscitare la fiducia palestinese in Abu Mazen: si sarebbe potuto fare di più, ma non è poco, anche secondo la Road Map, rispetto al rifiuto di perseguire i terroristi e le loro organizzazioni. La reciprocità è il terreno su cui i palestinesi hanno sempre avuto difficoltà a collocarsi, ma la Road Map aveva appunto stabilito un piano, che la comprendeva, e qui di nuovo Arafat, come al momento di ogni accordo, di ogni trattato, ha proibito di andare avanti.
Il fatto che Abu Mazen sia stato fatto fuori politicamente (e anche, quasi, fisicamente da una folla di ammiratori di Arafat) non è solo legato a un gioco di potere: «Adesso sappiamo senza nessuna possibilità di dubbio - dice Amos Gilad, il consigliere militare di Sharon - che Arafat è pronto a giocarsi qualsiasi cosa, la credibilità internazionale, e fin'anche la possibilità di essere mandato in esilio, sulla scelta di non andare a nessun accordo. Adesso sappiamo meglio ancora che al tempo di Camp David, dove fu già molto chiaro che il disegno strategico era quello di non fare alcun accordo di pace, che ad Arafat, premio Nobel per la Pace, non interessa altro che continuare un conflitto che egli prevede di vincere con altre armi menando tuttavia per il naso l'opinione pubblica internazionale con la favola di due Stati per due popoli, l'ultimo dei suoi desideri».
Varie volte Arafat ha indicato ai suoi, in arabo, quali sono le sue scelte: una è quella della lotta armata, che, perdurando, non consente di firmare alcun accordo. Il terrorismo, sia pure intermittente, ma costantemente in movimento, consente di evitare i pezzi di carta. Poi viene l'arma della delegittimanzione di Israele, del sionismo, finché - come è già successo in settori della politica europea - si accetti l'ipotesi del suo smantellamento. L'altra arma è quella strategica della demografia, per cui Arafat chiama le donne palestinesi «una bomba biologica». La prospettiva dei due Stati per due popoli, nelle ore in cui Abu Mazen torna a casa cacciato a furor di popolo e in cui il terrorismo si riaffaccia come prospettiva di lunga durata, come un fantasma alla luce del giorno, diventa sempre più evanescente.
Non c'è una virgola scritta o sottoscritta da Arafat che lasci pensare che una soluzione pacifica gli interessi veramente. La gente che va a prendere l'autobus a Gerusalemme in queste ore contempla sgomenta questa realtà così ostentata dalla cacciata del primo minstro della Road Map. E' lo stesso sentimento che accompagnò il ritorno di Arafat da Camp David, quando, dopo aver detto il suo inaspettao «no», alzò il segno della vittoria di fronte alla sua gente che lo acclamava.
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