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La Stampa Rassegna Stampa
04.09.2003 Arafat in esilio?
se ne discute in Israele

Testata: La Stampa
Data: 04 settembre 2003
Pagina: 11
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Esiliare o confinare il Raìss?»
Riportiamo l'articolo di Fiamma Nirenstein pubblicato su La Stampa giovedì 4 settembre 2003.
Quanto è realistica l'uscita del ministro della Difesa israeliano Saul Mofaz sulla possibilità quasi immediata di espellere Arafat? Israele se lo domanda molto concretamente, cercando risposte che per ora appaiono quasi tutte indicare che le parole del ministro sono poco realistiche. Ricordiamo i fatti: lunedì, alla radio dei soldati, Galei Tzahal, Mofaz ha dichiarato senza perifrasi: «Arafat non vuole raggiungere un accordo di pace; Abu Mazen invece lo vuole, anche se ha gli stessi obiettivi di Arafat (lo Stato, il ritorno dei profughi...); ma mentre Abu Mazen non vuole arrivarci con la violenza e il terrorismo, Arafat offre solo un tunnel nero senza fondo. Penso che dovrebbe sparire dal palcoscenico della storia e non essere più enumerato fra i leader palestinesi. La mia opinione (a favore dell'espulsione, ndr) è nota da quando ero capo di Stato Maggiore. La via per farlo è complessa, il tempo prescelto deve essere quello giusto... Penso che dovremo trattare la questione in tempi brevi, forse entro l'anno».
«L’uscita di Arafat dalla scena della Muqata - dice l'esperto di strategia Ze'ev Schiff, uno dei più noti di 'Israele - non porterebbe necessariamente a una conclusione del conflitto, anche se l'analisi di Mofaz è giusta. Il Raíss si mette di traverso a tutte le scelte di Abu Mazen, e tuttavia il primo ministro, se Arafat fosse mandato in esilio, dovrebbe immediatamente dimettersi; e così perderemmo, in un mare di rabbia che pervaderebbe i Territori, il nostro interlocutore, insieme con Arafat». Dunque il presidente dell’Anp, qualsiasi cosa faccia, qualsiasi fallimento collezioni, non paga pegno? «Non esattamente - dice Schiff - tanto è vero che in queste ore sta riconsiderando, sotto pressioni di ogni genere, l'idea, che pure tanto gli piace, di costringere Abu Mazen alle dimissioni tramite un voto di sfiducia del Consiglio nazionale palestinese. Però, se per esempio Arafat insisterà nel cacciare il suo rivale e contemporaneamente qualche grosso attentato terroristico investirà Israele, allora le cautele lasceranno il posto all'istinto di sopravvivenza, e Arafat se la vedrà brutta».
Ehud Olmert, che è l’uomo che fa le veci di Sharon quando il premier è all'estero (ed è ministro dell'Industria, del Commercio e delle Telecomunicazion), sostiene senza ulteriori commenti che gli piacerebbe di più, piuttosto che vedere Arafat deportato fra lo scandalo del mondo intero, che se ne restasse alla Muqata in condizione di non nuocere, senza telefonate ai suoi amici anti-Abu Mazen nei Territori, con pochi soldi, poche visite dall'estero.
Matthew Gutman scrive sulla prima pagina del Jerusalem Post, di cui è uno dei principali commentatori, che «nel mondo arabo la mossa potrebbe essere vista come un casus belli. Sospinta dalla pressione del suo 60 per cento di popolazione palestinese, la monarchia hashemita potrebbe cancellare il trattato di pace del 1994; l'Egitto magari non rinnegherà l’accordo dell'81, ma potrebbe congelare tutti i rapporti diplomatici e spingere l'Europa a fare lo stesso». Nel frattempo un Arafat pieno di nuove energie correrebbe fra Beirut, Tunisi, Damasco e si darebbe al rafforzamento di Al Fatah come organizzazione terroristica, come un tempo.
Boaz Ganor, direttore dell'Istituto internazionale di politica antiterrorismo di Herzliya, non pensa che ci sarebbe un terremoto nelle reazioni con gli Stati arabi: «Re Abdallah farebbe staccare dai muri i ritratti di Arafat ancor prima che iniziassero le dimostrazioni di piazza, e questa sarebbe la sua preoccupazione principale. Teme le sue masse palestinesi e sarebbe occupato con loro. E nei territori poco cambierebbe, salvo che forse verrebbero fondate le Brigate Abu Ammar (nome di battaglia di Arafat, ndr)». Ma c'è chi dice, specie al ministero della Difesa, che un Abu Mazen finalmente liberato del fiato sul collo di Arafat si deciderebbe a sedere a un tavolo di pace e a combattere i gruppi terroristici, anche perché finalmente le milizie armate non sarebbero più in gran parte in mano del Raíss.
Nel campo palestinese, la maggioranza dei personaggi dell'establishment, per esempio Sa'eb Erakat, si dichiara orripilata e stupefatta dall'uscita di Mofaz: «Un'altra provocazione per distruggere la Road Map». Ma qualcuno che assolutamente rifiuta di essere citato ci sussurra che Arafat è ormai un incubo anche per la maggior parte dei palestinesi, anche se prenderne il posto sarebbe considerato un sacrilegio, e nessuno oserebbe farlo mettendo a rischio immediato la sua vita.
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