18/2/02 Medio Oriente: il problema è Arafat... Riflessione di Emanuele Ottolenghi
Le bugie, dicono, hanno le gambe corte. Salvo forse se vengono dette nel contesto ingarbugliato del conflitto tra israeliani e palestinesi. Nulla di più evidente nel caso della posizione assunta da Unione Europea, Nazioni Unite e Norvegia in merito all’isolamento in cui si trova oggi il leader dell’Autorità palestinese Yasser Arafat. La bugia è che Arafat sia l’unico in grado di far la pace con gli israeliani. Eppure, parte della comunità internazionale, gli europei in testa a tutti, si ostina a non vedere ciò che è ormai ovvio. E cioè che Arafat è ormai uno degli ostacoli fondamentali per la ripresa dei negoziati di pace tra Israele e i palestinesi. La sua credibilità e provata propensione a commettere errori fatali e dannosi alla legittima causa nazionale palestinese sono ormai ineludibili. La sua legittimità politica all’interno dei territori occupati è da tempo erosa, e la sua autorità e capacità di controllare il potere di cui è almeno nominalmente detentore sono fragili e traballanti.
Arafat ha commesso tre cruciali errori nel periodo 1993-2000 – tra la firma di Oslo e l’inizio della nuova Intifadah. Errori che hanno sostanzialmente limitato la sua capacità di prendere le decisioni necessarie per porre fine al conflitto arabo-israeliano e all’occupazione israeliana dei territori di Cisgiordania e Gaza. Successivamente, tra l’inizio dell’Intifadah e il suo isolamento a Ramallah, ha fatto altri tre passi falsi di natura strategica che hanno eroso la sua credibilità come interlocutore e alleato per gli israeliani, gli americani e il fronte arabo moderato, a partire dall’Egitto.
Arafat ha compiuto un errore rifiutando di educare il suo pubblico all’accettazione di un compromesso politico con Israele basato sul genuino riconoscimento della legittimità politica del Sionismo, sull’accettazione dell’impossibilità di riportare indietro la storia, e sull’importanza della convivenza tra due popoli divisi in due stati contigui non come soluzione temporanea ma come accordo permanente e irrevocabile. Pur impegnandosi alla pace, al dialogo e alla coesistenza, Arafat ha continuato, infatti, a favorire la demonizzazione di Israele e degli ebrei su giornali, radio e televisione, e nei testi scolastici. Ha lanciato messaggi equivoci a favore della pace e a favore della guerra santa contro Israele, sostenendo tutto e il suo contrario, senza mai chiarire quale fosse il vero Arafat.
Ha compiuto un errore rifiutando di confrontare l’opposizione islamica di Hamas al processo di pace, al riconoscimento di Israele, e alla rinuncia della lotta armata, principalmente diretta contro obiettivi civili. Come ha fatto in 40 anni alla guida di al-Fatah e dell’OLP, anche con Hamas Arafat ha preferito evitare lo scontro, tollerandone le attività anche quando queste chiaramente andavano contro l’interesse palestinese di avanzare i negoziati con Israele sulla base di fiducia reciproca e cooperazione. Tale ambigua politica del bastone e della carota ha permesso che avvenissero tra l’altro i tragici attentati terroristi del marzo 1996, e ha sostanzialmente favorito l’accesso al potere di Netanyahu e il congelamento di Oslo.
Infine Arafat ha compiuto un altro errore rifiutando di creare una struttura politica democratica e una struttura amministrativa trasparente, le cui risorse generosamente fornite da finanziamenti internazionali dovevano esser spese nella costruzione e potenziamento di una economia florida e capace di restituire la speranza di un futuro migliore. Lo spreco di risorse, l’abuso di potere con gli arresti sistematici di giornalisti, oppositori e attivisti per i diritti umani, il ricorso alla tortura (con una trentina di detenuti morti durante l’interrogatorio dal 1994 a oggi) e a metodi sommari di incriminazione, incluse corti speciali ed esecuzioni pubbliche, sono tutti fattori che hanno lentamente delegittimato l’Autorità Palestinese e il suo leader Arafat.
Perché Arafat non poté cercare genuinamente un compromesso con l’allora primo ministro israeliano Barak a Camp David nel luglio 2000? Perché aveva ormai perso la legittimità e il sostegno del suo popolo per le concessioni necessarie. Il suo rifiuto e la mancanza di una controproposta palestinese hanno portato allo scoppio dell’Intifadah. Dal settembre 2000 a oggi Arafat ha fatto tre ulteriori passi falsi che lo hanno sostanzialmente reso persona non grata non solo per gli israeliani, ma anche per gli americani e persino il suo tradizionale alleato, il presidente egiziano Mubarak.
Arafat ha rinunciato, a partire dallo scoppio dell’Intifadah, al monopolio della forza nelle aree sotto il suo controllo; la speranza che le operazioni militari e terroristiche del Tanzim, di Fatah, di Hamas e della Jihad Islamica servissero la causa nazionale palestinese ha fatto sì che Arafat accettasse di perdere il controllo della situazione; la conseguenza è che la sua posizione politica si è indebolita a tal punto da non poter più riacquistare potere e autorità senza correre il rischio di una guerra civile; Arafat ha rifiutato il piano Clinton del dicembre 2000, vanificando ogni speranza del pubblico israeliano e dell’opinione pubblica internazionale in una soluzione del conflitto e aprendo la strada all’elezione di Ariel Sharon, un nemico ben peggiore da affrontare che il predecessore Barak;
Arafat ha perso ogni credibilità anche con i suoi più fedeli alleati, gli egiziani, a causa dell’affare Karine A, la nave piena di armamenti inviata dall’Iran per i Palestinesi. Il tentativo di portare gli iraniani sul teatro del conflitto, la presenza di marinai egiziani e il previsto passaggio da Suez hanno talmente imbarazzato e infuriato Mubarak da spingerlo ad abbandonare Arafat.
Non v’è dubbio che gli Israeliani hanno contribuito alla situazione economica precaria dei territori durante gli anni di Oslo. Non v’è dubbio che la loro politica di insediamenti ha creato ulteriori ostacoli al raggiungimento di un accordo coi palestinesi. Tuttavia la responsabilità maggiore della presente situazione ricade su Arafat, che ha continuato a gestire in maniera despotica e centralizzata le risorse dell’Autorità, ha evitato di affrontare i nemici del processo di pace cercando invece di sfruttarne le attività a suo favore, si è dimostrato incapace di raggiungerere i compromessi necessari per porre fine all’occupazione e per dare al suo popolo uno stato indipendente, e ha continuamente mentito ad alleati e interlocutori sulle sue vere intenzioni. Se l’ambiguità è stata la sua forza da guerrigliero e capo dei palestinesi in esilio, da presidente dell’Autorità Palestinese la sua ambiguità gli ha fatto perdere ogni residuo di credibilità come interlocutore, alleato e persino avversario.
Se oggi Arafat è isolato a Ramallah la comunità internazionale non dovrebbe correre, come già fece in passato, a salvarlo, ma prendere atto che soltanto quando Arafat avrà lasciato la scena e una nuova leadership palestinese più pragmatica e credibile ne avrà preso il posto, vi sarà una nuova concreta opportunità di soddisfare la legittima aspirazione dei palestinesi a uno stato e degli israeliani a vivere in pace e sicurezza.