martedi` 01 aprile 2025
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Free Palestine è uno slogan sionista 21/03/2025


Clicca qui






Il Foglio Rassegna Stampa
27.02.2025 La politica e la vita: Intervista a Franco Debenedetti
Intervista di Michele Masneri

Testata: Il Foglio
Data: 27 febbraio 2025
Pagina: I
Autore: Michele Masneri
Titolo: «I quadri, i libri, la politica e la vita. Vestivamo alla Debenedetti»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 27/02/2025, a pag. I, con il titolo "I quadri, i libri, la politica e la vita. Vestivamo alla Debenedetti" l'intervista di Michele Masneri a Franco Debenedetti.

Immagine correlata
Michele Masneri
Franco Debenedetti - Biennale Tecnologia
Franco Debenedetti si racconta, dalla guerra alla fuga in Svizzera, i giorni alla Fiat, Sottsass e altre questioni novecentesche

Ma intanto, scusi se mi permetto, biecamente, Debenedetti, va bene tutto, ma da dove vengono i denari? Segue excursus sull’industria dei tubi degno di quello sulla fabbricazione della carta raccontato da Balzac nelleIllusioni perdute o dei guanti in Pastorale americana di Philip Roth.

“Nostro padre Rodolfo, tornato dalla Grande guerra, guarito dalla epidemia di Spagnola, si era laureato con una tesi sui tubi. E nel ‘21 aveva fondato la Compagnia italiana tubi metallici flessibili. Pensò che in un paese in crescita di consumi, con un po’ più di benessere la gente avrebbe fatto più docce, e le docce a telefono avevano bisogno di tubi flessibili, che scarseggiavano. Poi si scoprì che nei tubi flessibili si poteva travasare la benzina dalle taniche ai serbatoi degli aerei e delle macchine. Così brevettò il tubo ‘Avioflex’. E sebbene gli ebrei per le leggi razziali non potessero avere imprese con dipendenti ariani, i tubi Avioflex erano indispensabili per l’aviazione del Fascismo e per questo noi godevamo di eccezioni a quelle leggi. Mio padre era andato da un industriale tedesco dei tubi, Otto Meyer, a proporgli un accordo commerciale, come abbia fatto non so: di tedesco sapeva solo quanto era necessario per seguire le opere di Wagner, di cui era fanatico ammiratore”.

Poi Meyer tornerà, e avrà un ruolo fondamentale in questa pastorale debenedettiana, ma intanto ecco la Germania, che nel racconto di Debenedetti pare la terra dell’abbondanza e della libertà d’allora, tra le due guerre, ed ecco soprattutto la seconda lingua. Il romanzo tubolare debenedettiano sembra più un romanzo dell’altro Roth, Joseph, quello della finis Austriae, fine dell’impero e cantore di un tempo perduto. Due lingue, due vite, sottotitolo I miei anni svizzeri 1943-1945 è pubblicato da Marsilio Arte e più che un libro è uno “scratch book” o scartafaccio, con biglietti del treno, diari, foto di vecchi giornali, il “Facebook” analogico di un ragazzino nato nel ‘33 che nella Svizzera tedesca impara la vita in due anni che sconvolsero l’Italia e il mondo, dall’8 settembre alla fine della II guerra mondiale. Paradossalmente scrivendo in tedesco, eccola qui la seconda lingua, lingua degli oppressori, dei nazisti ma anche della salvezza. Lingua imparata alla velocità della luce a forza di dieci parole al giorno, per ricominciare da capo.

Fast forward. Dai tubi alla Fiat, finita la guerra, “mio fratello divenne per i famosi 100 giorni amministratore delegato e scambiò l’azienda nostra di famiglia dei tubi con un pacchetto azionario della Fiat”. Un bel pacchetto. Ma prima, voi da piccoli vivevate in casa Agnelli, in corso Matteotti. “Sì, ma non eravamo gli unici inquilini, c’era anche il senatore socialista Achille Loria”. Ma scusi, perché la famiglia più ricca d’Italia si teneva degli inquilini a palazzo, seppur re dei tubi? “E’ una bella domanda. Forse per tirar su un po’ di affitti che non fanno mai male”. Che ricordi ha di palazzo Agnelli? “Quando morì Virginia, la mamma dell’Avvocato, in un incidente stradale, ricordo il gran trambusto. E poi invece ben altre emozioni quando intravidi giovanissima Ira Fürstenberg, figlia di Clara Agnelli, che usciva dal bagno”. Le piaceva? “Eh, sì, molto”. Suo fratello Carlo racconta una strana storia un po’ pecoreccia, l’Avvocato che sul portone di quel palazzo passa con Anita Ekberg e dice a suo fratello Carlo, imbambolato per quell’apparizione: vai a farti una sega. E’ un invenzione, dai. “No, no, è verissimo, me lo ricordo anch’io. L’Avvocato disse: hai guardato? Bene, adesso che hai guardato vai a farti una bella sega”. Simpatico. E senta, e Umberto Agnelli, invece, il fratello più piccolo, com’era? “Eravamo in classe insieme. A volte mi portava a scuola, al San Giuseppe, con la sua moto Bmw. Moto su cui ci furono ampie discussioni a palazzo. I suoi genitori erano infatti incerti se comprare la Bmw o una Triumph. Chiesero molti consigli a mio padre che appunto era ingegnere meccanico. Il quale dopo un po’ si spazientì e disse a Umberto: senti, adesso mi hai stufato, compratele tutte e due. E così fu”. Però il povero Umberto era in gamba. Fu lui poi a salvare la Fiat in un certo senso. Prima tenendo i conti in ordine, e poi trovando nelle province dell’impero uno sconosciuto manager, Sergio Marchionne. “E’ vero, la Fiat gli deve molto. Effettivamente non era uno stupido ma sicuramente non era difficile il confronto con un fratello che era bello, brillante, sempre con la battuta pronta”. Il suo di fratello, invece, Carlo, quello scritto staccato, a parte la Ekberg ha un po’ il dente avvelenato con gli Agnelli. Che non attraversano un gran momento. Secondo lei han più preso o più dato alla povera Italia, negli anni? “Più dato, sicuramente, com’è giusto che fosse”. E sempre suo fratello qualche giorno fa ha annunciato di aver rifinanziato il giornale da lui fondato, Domani, con altri 11 milioni. “Ha fatto bene. Se se lo può permettere, beato lui”. “Poi è un bel giornale, è in tutte le mazzette”. Lei ha mai pensato di fondarne uno? Ride. “Non sono mica matto”. Però nel suo libro racconta della passione dei giornali. A un certo punto da bambino un suo tema, in tedesco, finì pure su un quotidiano svizzero, Freier Schweizer. “Certo, eccolo qua”, e tira fuori da un vecchio faldone il tema pubblicato sulla carta ormai ingiallita. Un tema in tedesco scritto da un ragazzino italiano che solo qualche mese prima è riparato a Lucerna. Qui i tubi tornano a essere centrali, i tubi salvano infatti la vita: Otto Meyer, l’industriale con cui il padre aveva fatto accordi, “era anche colonnello dell’esercitosvizzero, e nel ‘43 fu lui che ci permise di 

scappare. Aspettammo la sua telefonata per cinque giorni, ci venne indicato un punto preciso in cui la rete del confine era stata bucata, passammo. Altri rimasero indietro, come la famiglia di Liliana Segre, o due cugini che dovevano passare dopo di noi. I miei cugini finirono al binario 21 della stazione centrale di Milano, e di lì nei campi di concentramento. Furono catturati: lei morì a Buchenwald, scuoiata viva; lui impazzì, nostro padre lo mantenne per tutta la vita”. Oggi le fa paura la situazione internazionale? “Mi fa paura soprattutto la Germania con i neonazisti dell’Afd. E’ una cosa inconcepibile che possano arrivare al governo. Fino a cinque anni fa era un’ipotesi semplicemente impossibile”. Per adesso la Germania sembra tenere, ma certo è finito un mondo. Suo fratello era bravo come lei alla scuola svizzera? “No, ma quasi due anni in meno a quell’età fanno molto”. Com’era Carlo da ragazzino? “Più spericolato di me. A un certo punto sputò dal balcone in testa a un soldato. Lo punirono a dovere”. Ha fatto bene a regalare Repubblica ai suoi figli, che poi l’hanno venduta agli Elkann? “Mettiamola così, io non sono sempre stato d’accordo con le scelte industriali di mio fratello”. Neanche quando a fine anni Settanta rifiutò le avance di Steve Jobs che gli offriva di entrare con una grossa quota alla Apple? Si narra che Elserino Piol, il leggendario manager che si occupava dell’elettronica dell’Olivetti, propose di visitare un garage dove due “capelloni con i jeans sdruciti” stavano lavorando a un minicomputer: erano Jobs e il socio Wozniak. Jobs propose di prendere il 20 per cento della loro azienda, per 20 milioni di dollari. La risposta di Cdb fu: cosa vogliono da noi questi due capelloni? “Lì non fui interpellato, però che sogno, quella sarebbe stata una sliding door incredibile”. Forse però era un po’ imprevedibile che la Apple sarebbe diventata la Apple di oggi. “Non del tutto imprevedibile”. Alla fine lei è presidente dell’Istituto Bruno Leoni, covo di pericolosi liberisti, mentre suo fratello, diciamo per semplificare, che è il comunista della famiglia, è lui che ha fatto i soldi. “E’ vero, non ci avevo mai pensato in questi termini”. In Silicon Valley attorno al centro Olivetti, allignava pure Ettore Sottsass, architetto della real casa Debenedetti e gran ribelle del design milanese. Era stato ricoverato allo Stanford Medical Center di Palo Alto su consiglio di Roberto Olivetti, figlio di Adriano, per curarsi una grave nefrite presa in India che lì curavano con una terapia innovativa. E in Silicon Valley qualche anno fa insieme a Franco e alla moglie Barbara avevamo fatto una gita a vedere anche una casa californiana, anzi l’unica, creata da Sottsass, per David Kelley, designer che ha inventato il mouse Apple tra le altre cose. “Sottsass me l’ero ritrovato alla Olivetti dove disegnava i mobili per ufficio della linea Synthesis” dice Franco Debenedetti. Sono gli anni leggendari della diarchia, Sottsass e Bellini. Poi vidi la meravigliosa casa che fece per Roberto Olivetti”. Da lì case e ciò che contengono possibilmente dovranno essere fatte da “Ettorino”, pure quella di Roma al Ghetto, pure gli strani e bellissimi vasi come quello a forma di cactus vicino al caminetto dove siamo ora, “ma non mi piace parlare di collezionismo”, dice, come tutti i veri collezionisti, il Debedenetti attaccato. Poi mi fa: “anche Eugenio Scalfari era un collezionista, sa”. Ah, sì? “Quando prese un po’ di soldi dalla vendita di Repubblica…”. Un po’ di soldi mica tanto, erano quasi cento miliardi di lire. “Sì, insomma, quando prese quei soldi si comprò un Guardi. Un vedutista veneto” fa Debenedetti attaccato con un sorriso sornione. Non va bene? “Mah, insomma. Ci siamo capiti”. Si capisce, dalle case debenedettiane (staccate) tecnologiche come lui, piene di oggetti moderni e spiritosi. Il Debenedetti attaccato colleziona anche abiti. Ma compra tutta la collezione Prada o volta per volta? Non ricorda. “Chiedetelo a Prada, loro lo sanno di sicuro”. Ha guardato Sanremo? Trasalisce. “Ma no, che schifo, per carità”. Quest’anno o in generale? “No, no, aspetti, me ne ricordo uno”. Quale? “Quello con Grazie dei fior”.

Ah vabbè. Giusto l’altro ieri. Debenedetti attaccato fa un’alzata di spalle. Che importa se era il ‘51 o oggi. E mentre fuori il mondo va avanti - tra Sanremo, i social e la fine della carta stampata e forse del mondo, - lui rimane lì, tra un Guardi che non comprerebbe mai e un Sottsass che forse lo guarda in un sorriso siliconvallico o indiano. Grazie dei fiori e pure dei tubi, Franco.

Per inviare al Foglio la propria opinione, telefonare: 06/5890901, oppure cliccare sulla e-mail sottostante


lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT