Buone notizie: l’Europa è scomparsa Commento di Daniele Capezzone
Testata: Libero Data: 20 febbraio 2025 Pagina: 1 Autore: Daniele Capezzone Titolo: «Una buona notizia: l’Europa è scomparsa»
Riprendiamo da LIBERO di oggi 20/02/2025, a pag. 1, con il titolo "Una buona notizia: l’Europa è scomparsa", l'editoriale di Daniele Capezzone.
Daniele Capezzone
Gli eurolirici vogliono "più Europa" di fronte alla crisi causata dal cambio di rotta degli Usa nella guerra in Ucraina. Macron e Draghi sarebbero i leader naturali dell'Europa unita. Ma proprio questa crisi fa capire a tutti che l'UE non esiste più. E non è una cattiva notizia.
Nella pittura si parla di trompe l’oeil (no, Trump non c’entra, letteralmente vuol dire: “inganna l’occhio”) per indicare la tecnica volta a dare illusoriamente la sensazione della tridimensionalità anche quando l’opera è realizzata su una superficie bidimensionale.
E così si crea artificiosamente l’impressione dell’allargamento (di ciò che invece largo non è), di vitalità (di ciò che vivo non è), di iperrealismo (di ciò che reale non è). Una sorta di grande, meravigliosa illusione ottica.
Con rispetto parlando, è questa ormai - lontano dalla pittura - la condizione dell’Unione Europea.
Tutti fanno finta che esista, ma non esiste più. Sopravvive - appunto come illusione ottica, come finzione pittorica (in questo caso: come fictio giuridica e istituzionale), ma nei fatti non ci crede più nessuno. Non ci credono gli eurocritici, e questo è perfino ovvio. Ma non ci credono più nemmeno gli eurolirici, i dogmatici della religione europeista. Prendi Emmanuel Macron, l’ultimo idolo dei seguaci di quel culto: pure lui si muove e parla come se l’Ue non esistesse più, come se non ci fosse una Commissione (che non è lui a presiedere), come se non ci fosse un Consiglio (che non è lui a guidare), come se non ci fossero 27 membri (prima ne convoca solo sette, poi gli altri si irritano e lui invita anche loro) nel caos, nell’approssimazione, nell’informalità più sciatta e perfino esibita.
Ci sono o ci sarebbero regole esistenti: sbagliate, contorte, inefficienti, illiberali. Ma nessuno le segue più. Gli stessi che le hanno concepite (e che ora le ignorano) chiamano altre ed alte personalità (da ultimo, Mario Draghi) a suggerire nuove ipotetiche regole per molti versi, ancora più discutibili, perché accentuerebbero la direzione - rivelatasi sbagliata - di una integrazione eccessiva, di una verticalizzazione democratica, di uno spossessamento dei governi e dei parlamenti nazionali. Ma starei per dire che non è nemmeno il caso di entrare nel merito. È sufficiente il metodo a descrivere il fallimento del modello Bruxelles: regole astruse e non funzionanti ieri, loro silente disapplicazione oggi, e da domani gran dibattito su eventuali regole future, con la riserva mentale di non applicare nemmeno quelle, se mai ci saranno. Ma allora - bestemmia per bestemmia, anzi razionalità per razionalità- non varrebbe la pena di concludere semplicemente che “il re è nudo”, che l’esperimento è naufragato, di fare tutti insieme questa onesta e leale constatazione?
Basta con la pantomima dei nobili decaduti e offesi (“Vance ci tratta male, Trump ci esclude”, e via frignando e lagnandosi). Basta con la rivendicazione di spazi che non si è in grado di occupare. Prendi l’affaire-Ucraina: da mesi gli eurolirici rivendicano un protagonismo europeo, e poi basta una boutade russa sull’eventuale ammissione di Kiev nell’Unione e mezza Ue già si dissocia, balbetta, mugugna. Ma allora, di grazia, cosa si vuole? Non lo sanno più nemmeno loro. Avrebbe detto Carmelo Bene: non parlano, ma “sono parlati”. Sono ridotti alla dimensione di oggetti, altro che soggetti politici.
È dunque venuta l’ora - per chi sia politicamente vivo- di muoversi con maggiore agilità e dinamismo.
Vale in primo luogo per il governo italiano: che può far tesoro della condizione inedita che i suoi avversari gli rimproverano. In altri termini, Giorgia Meloni farà bene a regolarsi esattamente come i suoi contestatori più ottusi già le rimproverano di fare: per un verso, ma senza esagerare, omaggiando il catafalco Ue; ma per altro verso, muovendosi a tutto campo. C’è da relazionarsi con Washington, con Londra, con Gerusalemme (non solo con Bruxelles-Parigi-Berlino); c’è da immaginare (Piano Mattei) un nostro protagonismo in Nord Africa e nel Mediterraneo, ma pure - su un altro versante - nel rapporto con l’India.
C’è da far tesoro di un player di valenza eccezionale come l’Eni. C’è da sfruttare ogni possibile corridoio per le nostre merci e le nostre filiere produttive.
È venuto il momento di non considerare più l’Ue come una gabbia esclusiva, ma solo come uno dei possibili ambiti in cui dovrà dispiegarsi la nostra iniziativa politica ed economica. E c’è invece da diffidare profondamente di chiunque proprio mentre il malato europeo è così grave - vorrebbe improvvisamente fargli fare sport estremi, immaginando un improvviso quanto improvvido salto nella direzione del “super-stato”. E per fare cosa, poi? Per assoggettare Roma alle ambizioni di Parigi verso Nord Africa e Mediterraneo? Per restituire a Berlino la centralità che va perdendo?
Per far smarrire a noi la possibilità di un rapporto privilegiato con Trump?
Oppure - peggio ancora - per occhieggiare a Pechino? È questa, a ben vedere, l’insidia maggiore. Tenetene conto, amici lettori: ogni volta che - nei prossimi mesi - sentirete qualcuno parlare di “autonomia strategica europea”, si tratterà di un nome in codice per intendere che occorrerebbe privilegiare il rapporto con la Cina rispetto a quello con gli Stati Uniti, portando le nazioni europee in una pericolosa e ambigua area di ambiguità geopolitica tra Occidente e potenze euroasiatiche. È questo ciò che va massimamente evitato. Con buona pace dei volponi che – spontaneamente o spintaneamente – già lavorano nell’interesse di Pechino.
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