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La Stampa Rassegna Stampa
19.02.2025 Israele difende il mondo libero
Intervista di Fabiana Magrì a Isaac Herzog, Presidente di Israele

Testata: La Stampa
Data: 19 febbraio 2025
Pagina: 2
Autore: Fabiana Magrì
Titolo: «Isaac Herzog: 'Israele difende il mondo libero. Dall'Italia il sostegno più forte. Mi addolora la tragedia di Gaza, ma non avevamo altra scelta'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 19/02/2025, a pag. 2, con il titolo "Isaac Herzog: 'Israele difende il mondo libero. Dall'Italia il sostegno più forte. Mi addolora la tragedia di Gaza, ma non avevamo altra scelta'", l'intervista di Fabiana Magrì a Isaac Herzog, presidente di Israele.

Fabiana Magrì
Fabiana Magrì

Isaac Herzog, Presidente di Israele

Un uomo attraversa l'Europa alla ricerca dei bambini ebrei nascosti in conventi e famiglie cristiane per scampare alla Shoah, determinato a restituirli alle famiglie d'origine. Bussa a chiese e istituti religiosi. Negozia con le autorità. Si appella a Papa Pio XII. È il 1946, e quell'uomo è il rabbino Yitzhak HaLevi Herzog, bisnonno dell'attuale presidente israeliano Isaac Herzog. Oggi, suo pronipote è la guida morale dello Stato ebraico nell'epoca più complessa e dolorosa dalla sua fondazione. Hamas ieri ha annunciato che restituirà a Israele i due bambini presi in ostaggio 502 giorni fa, i Bibas dai capelli rossi. Morti. Un ennesimo trauma collettivo che nemmeno il presidente si sente di commentare a caldo.

In una conversazione in esclusiva, alla vigilia del suo viaggio ufficiale a Roma, poco più di sei mesi dopo la sua precedente missione diplomatica in Italia, il presidente ha anticipato i temi degli incontri con il Presidente Sergio Mattarella, con la premier Giorgia Meloni e con il ministro degli Esteri Antonio Tajani. Non mancherà l'abbraccio della comunità ebraica italiana e romana, a cui dedicherà un discorso al Tempio Maggiore. È l'occasione per fare il punto sulla situazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas, sugli sviluppi regionali, sulla minaccia sempre presente dell'Iran. Herzog promuove l'approccio italiano e quello del presidente Trump. Resta critico, invece, sulle posizioni di Europa e Vaticano.

«L'Italia esercita una forte influenza nel nostro Paese e siamo attenti ai sentimenti italiani perché le riconosciamo di essere aperta e franca nei nostri confronti. Può criticare Israele, come è legittimo tra amici. Ma offre anche un enorme sostegno in nome della chiarezza morale che nasce dal fatto che in Israele stiamo difendendo il mondo occidentale e libero. Siamo in prima linea sul fronte dello scontro di civiltà e di valori. Teniamo testa ai jihadisti, inducendo cambiamento e speranza nella regione, come in Libano. L'Europa dovrebbe dimostrarsi altrettanto ferma al nostro fianco. Ma pochi, nel Vecchio Continente, sono disposti a schierarsi come l'Italia. Oggi sono qui per esprimervi gratitudine. E per incontrare una delle comunità ebraiche più antiche».

Se la salute del Papa l'avesse consentito, avrebbe incontrato anche lui. Quale messaggio gli avrebbe portato sulla posizione del Vaticano nella guerra a Gaza e sulle osservazioni che suggeriscono che Israele potrebbe aver commesso "genocidio"?

«Respingiamo completamente ed energicamente l'accusa. Il rapporto tra ebraismo e cattolicesimo ha radici storiche e, come dimostra la storia del mio bisnonno, anche alcuni momenti dolorosi. Ci aspettiamo che la Santa Sede capisca che quando combatti il male, lo combatti fino in fondo. E che comprenda che ci siamo difesi secondo il diritto internazionale. È straziante trovare armi e trappole esplosive in case, moschee e scuole. Nulla giustifica, in nessuna circostanza, ciò che è accaduto il 7 ottobre. E, mi creda, mi addolorano la sofferenza dei palestinesi e la tragedia della gente di Gaza e mi auguro che un giorno alzino la testa e si liberino dal regime che li opprime. Meritano di meglio. Spero che saremo in grado di portare pace a loro e a noi, in futuro. Ma ciò richiede cambiamenti storici».

Si riferisce al piano del presidente Trump per Gaza? L'idea di evacuare la popolazione palestinese dalla Striscia ha scatenato forti reazioni in tutto il mondo. Crede che sia un'opzione praticabile o vede ostacoli legali ed etici?

«Il presidente Trump è un grande amico di Israele e rispettiamo le sue idee e i suoi sforzi. Ha dato una scossa alla regione, e lo ritengo corretto, dicendo che il ciclo di terrore non può continuare. Nelle ultime settimane ha cambiato alcune dichiarazioni, ma in sostanza sta spingendo per sradicare il terrore a Gaza, coinvolgendo i nostri vicini, gli egiziani e i giordani, perché è anche nel loro interesse. E con l'Arabia Saudita, i partner degli Accordi di Abramo e i palestinesi moderati dobbiamo lavorare insieme a un piano che sia fattibile, che abbia senso e che cambi la storia, con il supporto degli Stati Uniti».

Funzionari statunitensi sono a Riad per discutere principalmente di Ucraina. Ma anche di Gaza e delle relazioni tra Israele e Arabia Saudita. Cosa si aspetta?

«Anche sull'Ucraina il presidente Trump sta cercando di trovare un meccanismo per risolvere il conflitto. E penso che dovremmo seguirlo mentre ci mostra che, in un certo senso, eravamo bloccati su previsioni che non si sono rivelate giuste. Ci aspettavamo che l'Autorità Nazionale Palestinese fosse un partner di dialogo, ma non ha dimostrato capacità di governare. In alcune aree, l'esercito israeliano è costretto a intervenire contro i terroristi, assumendosi un ruolo che dovrebbe spettare all'Anp. La visione di israeliani e palestinesi che vivono in pace si è infranta nei cuori degli israeliani dopo il 7 ottobre. E anche nel mio. Mi sarei aspettato, dalla nazione vicina, manifestazioni di rimorso e dolore, di sofferenza e rabbia per gli israeliani rapiti, bruciati, violentati e torturati. Ormai è tardi per le parole. Ci aspettiamo azioni concrete. Il 7 ottobre è stato un campanello d'allarme anche sul ruolo dell'Iran. Se il mondo vuole prosperare senza sentirsi ostaggio, ad esempio in alto mare, di una piccola tribù nello Yemen che costa a ogni singolo italiano molto di più in merci e assicurazioni, allora deve combattere questi terroristi senza pietà».

Parliamo della tregua a Gaza e degli ostaggi. Crede che, senza l'intervento del Presidente Trump, Israele sarebbe stato in grado di riportare a casa 21 persone vive dal 19 gennaio a oggi e altre 6 previste per sabato?

«Il rilascio degli ostaggi è stato uno sforzo immane, frutto di mesi di lavoro e negoziati. Ma è chiaro che il presidente Trump ha dato un contributo decisivo per portarlo a termine. Appena eletto, ne abbiamo parlato in modo breve ma approfondito. Il suo impegno, insieme a quello dell'inviato in Medio Oriente Steve Witkoff, è stato determinante. Sono molto grato a entrambi. Penso, ad esempio, che abbia avuto un ruolo chiave nella liberazione degli ultimi tre ostaggi, esprimendosi chiaramente per sventare il tentativo di Hamas di rinviare ancora l'accordo. Hamas stava pianificando un attacco per dimostrare di essere operativo e ritardare il rilascio. Trump ha rimesso l'intesa in carreggiata. Ora dobbiamo fare tutto il possibile per concludere il lavoro e riportare tutti a casa».

La società israeliana è divisa su come procedere: alcune famiglie sono disposte ad accettare qualsiasi costo per riportare a casa tutti gli ostaggi e finire la guerra. Altre chiedono la restituzione immediata di tutti i rapiti o un ritorno a un'azione militare più dura, incluso il taglio degli aiuti umanitari. Queste divisioni si riflettono all'interno della coalizione di governo e nell'opposizione. Quale percorso ritiene sia migliore per il benessere della nazione?

«Siamo tutti esseri umani. La reazione emotiva e razionale dipende dalla vicinanza o lontananza dal dolore e dal trauma. E naturalmente, ognuno ha diritto alla propria opinione. È per questo che sono orgoglioso della nostra democrazia. Stiamo affrontando una situazione senza precedenti. Dobbiamo riportare a casa tutti gli ostaggi il prima possibile ma riconosciamo il pericolo intrinseco nel rilasciare terroristi che potrebbero tornare a uccidere. Il dilemma c'è. Sappiamo anche che non possiamo ripetere lo stesso schema di guerra, cessate il fuoco, tragedia, dolore, terrorismo e ancora guerra per combatterlo. Quindi dobbiamo sradicare il terrore che è la fonte di tutte queste instabilità. In particolare il terrore jihadista istigato dall'Iran. Ma una cosa è chiara: la nazione è categoricamente a favore di un cambiamento nella Striscia. E penso che la regione, il mondo e anche Gaza, vogliano lo stesso».

È vero che il governo sta valutando di negoziare un'estensione della fase uno dell'accordo fino alla fine del Ramadan per assicurarsi più ostaggi prima di passare alla fase due? Cosa ne pensa?

«Prima di tutto, colgo l'opportunità per augurare ai musulmani di tutto il mondo un Ramadan benedetto, in particolare ai cittadini musulmani di Israele, parte integrante della nostra società. Si sta discutendo anche di questa opzione. Come presidente, non entro nel merito dell'azione, ma sostengo pienamente il ritorno di tutti gli ostaggi. Dobbiamo lavorare seguendo le fasi concordate, con gli aggiustamenti necessari in base all'evoluzione del processo. Soprattutto, dobbiamo garantire che Hamas non controlli Gaza in futuro. È proprio su questo che il governo, l'amministrazione Usa e altri Paesi arabi stanno discutendo in questi giorni».

Un'altra linea di faglia è la questione della responsabilità per il 7 ottobre. C'è chi chiede un'indagine immediata e chi vuole attendere la fine della guerra. Lei?

«La mia posizione è chiara: serve una commissione d'inchiesta che indaghi a fondo, secondo la legge. Spetta però al governo istituirla e al ministro della Giustizia chiedere alla Corte Suprema di formarla. Al momento, la Corte sta valutando la richiesta del procuratore generale di obbligare il governo a farlo. Per me, la commissione deve essere nominata».

Il primo ministro Netanyahu è una figura divisiva in Israele e nel mondo. Sta facendo più bene o più male al Paese?

«Sarà il popolo a rispondere, quando ci saranno le elezioni. Come presidente, sono al di sopra della politica, ma sono orgoglioso della nostra democrazia: dalle manifestazioni di piazza al pluralismo dell'informazione, fino ai dibattiti accesi alla Knesset. Persino la presenza del primo ministro in tribunale dimostra la solidità del nostro sistema, nonostante chi sostiene il contrario».

Dopo il 7 ottobre, Israele aveva alternative o la risposta militare era inevitabile?

«Mi lasci ricordare che dopo lo choc del 7 ottobre abbiamo cercato per tre settimane di liberare gli ostaggi, senza risposta. Hamas e il mondo jihadista hanno usato la guerra psicologica per mostrarci divisi e deboli. Siamo entrati in guerra dopo aver mobilitato la nazione e compreso la portata della minaccia: un piano orchestrato dall'Iran per annientare l'unica nazione ebraica sulla terra. Abbiamo agito in modo mirato e nel rispetto del diritto internazionale, con consulenti legali affiancati a ogni unità e sotto la supervisione della Corte Suprema. È stato ed è doloroso. Ma non credo che avessimo altra scelta». 

 

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