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L'Espresso Rassegna Stampa
24.03.2002 25/3/02 In democrazia succede, in dittatura no
Wlodek Goldkorn dice:

Testata: L'Espresso
Data: 24 marzo 2002
Pagina: 1
Autore: Wlodek Goldkorn
Titolo: «SALVATE IL SOLDATO DAVID»

Se non avessimo, sulla situazione in Israele, informazioni di prima mano e più che attendibili, a leggere questo articolo potremmo facilmente credere che l'intera popolazione israeliana sia pronta non solo a qualunque compromesso, ma addirittura a rinunciare a difendersi dal terrorismo pur di porre fine alla guerra. Le storie raccontate nelle quattro pagine di questo articolo fanno pensare alle camere d'albergo riprese col grandangolo per le pubblicazioni pubblicitarie: sono buchi di due metri per tre e ce le fanno sembrare dei saloni. Ci viene infatti raccontato che

stanno sorgendo spontaneamente, come funghi dopo la pioggia, gruppi, organizzazioni, comitati di persone, soprattutto donne, madri e mogli dei soldati che chiedono: riportate i nostri uomini a casa
e se ne parla come se ormai in tutto Israele non ci fosse altro che questo, da parte di tutti. L'articolo incomincia con le parole di una madre che ha appena perso il figlio:
Se il cecchino che ha ucciso mio figlio anziché sparargli fosse sceso dalla collina, gli avesse parlato e preso un caffè insieme, i due sarebbero diventati amici, ne sono sicura ...
Parole sicuramente comprensibili in una madre stravolta dal dolore, e probabilmente convinta che il figlio avesse una personalità così straordinaria che nessuno, a conoscerlo, avrebbe potuto desiderare di ucciderlo, ma il fatto è che i palestinesi preferiscono sparare, e non prendere il caffè con gli israeliani, e un giornalista onesto non dovrebbe confondere delle parole dettate dal dolore con la realtà dei fatti. Si passa poi alla descrizione di

un salotto a Tel Aviv nord, in una qualsiasi di quelle case comode, confortevoli, mobili del design italiano, quadri di pittori famosi sulle pareti, figli a studiare in prestigiose università americane e voglia matta di appartenere all'Europa, in cui abitano gli intellettuali e i professionisti israeliani. Si parla delle prossime vacanze in Toscana, di quelle passate a sciare sulle nevi austriache e delle nuove qualità di grappa che un importatore ha introdotto nel mercato.
Si vuole forse suggerire che gli ebrei, come si sa, sono tutti ricchissimi (mentre i palestinesi, come si sa, fanno tutti la fame)? Si vuole farci vedere quanto siano fatui e superficiali gli israeliani che, con tutto quello che sta succedendo, non sanno parlare altro che di vacanze e di grappa? Ma ecco che viene acceso il televisore e "le immagini sono uno choc" . Un nuovo attentato terroristico? I soliti corpi a brandelli? I soliti religiosi che raccattano pezzettini di carne sparsi in ogni dove? No! E' un rastrellamento in un campo profughi.

Una di quelle durissime azioni di rappresaglia contro atti di kamikaze a Gerusalemme e nei pressi di Tel Aviv in cui muoiono israeliani innocenti, e per i quali il premier Sharon ritiene responsabile Yasser Arafat. I militari sono vestiti come cavalieri dell'Apocalisse: elmetti con antenne che spuntano da tutte le parti, giubbotti antiproiettile alti da nascondere la parte inferiore della faccia, stivaloni ai piedi e fucili enormi in mano, entrano nel salotto di una casa.

Ricordano qualcosa quegli "stivaloni ai piedi"? E quei "fucili enormi"? Da notare che, secondo il giornalista, è solo Sharon a ritenere Arafat responsabile di qualcosa, da notare come i terrificanti attentati terroristici si trasformino in banali "atti". E che queste due righe sono le uniche, in tutto l'articolo, in cui si accenni al fatto che anche i palestinesi qualcosina di non proprio corretto hanno fatto. E continua a lungo la minuziosa descrizione della brutalità dei rastrellamenti israeliani. Ci viene anche raccontata la "vergogna" dei

soldati che rompono i frigoriferi nuovi, mangiano i cioccolatini dei padroni delle case perquisite, rubano i soldi

cose, ovviamente, raccontate dai palestinesi e in alcun modo verificate, ma presentate come verità documentate. E ora si arriva a clou dell'articolo:
" Per me la situazione è riassunta in una foto. Un soldato, senza volto, punta il fucile contro due bambini palestinesi con le mani alzate in un gesto di resa". Per qualsiasi israeliano, per qualsiasi ebreo nel mondo, l'associazione è immediata e non necessita di spiegazioni. La signora Pundak allude all'immagine del bambino nel ghetto di Varsavia, pantaloncini corti, mani in alto, davanti a un gendarme nazista col fucile in mano. E' la foto simbolo della Shoah.

Però l'associazione non è la signora Pundak a farla: è il giornalista, che sembra certo che qualunque israeliano, qualunque ebreo nel mondo veda in quello che sta accadendo ai palestinesi una nuova Shoah.
E naturalmente si parla della necessità della
fine immediata dell'impiego delle forze armate israeliane oltre la linea verde, il confine del 1967. Una linea di frontiera con la Cisgiordania, travolta durante la guerra dei Sei giorni.
E naturalmente silenzio assoluto sulle cause e sulle circostanze di quella guerra, così come il silenzio regna sovrano sul terrorismo, sulle infinite menzogne di Arafat, sulla sua scelta della guerra invece della pace e dello stato di Palestina, sullo strazio delle innumerevoli famiglie israeliane colpite dagli attacchi terroristici, sulla necessità di difendersi da un progetto di distruzione che dura da sempre e mai è stato rinnegato.


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