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Il Giornale Rassegna Stampa
10.12.2001 2001-12-10L'Occidente in cerca di un nuovo Arafat...
"Sharon è un falco, un impedimento alla pace"

Testata: Il Giornale
Data: 10 dicembre 2001
Pagina: 1
Autore: Edgado Bartoli
Titolo: «L'occidente in cerca di un nuovo Arafat»

Edgardo Bartoli entra ufficialmente nell'affollato club già animato dai vari Igor Man,Sandro Viola & C. Diaspiace che ospite sia Il Giornale.
Sul numero di lunedì 10 dicembre ,sotto il titolo "L'occidente in cerca di un nuovo Arafat", Bartoli scrive: "Mentre Arafat fa quello che può(come lui stesso afferma) per fermare il terrorismo palestinese, gli israeliani continuano a bombardare comandi e caserme della sua polizia, ad assassinare esponenti di Hamas e di Al Fatah o presunti tali, a occupare villaggi e ad assediare città, rendendogli in tal modo sempre più difficile l'opera di repressione che pure essi esigono da lui". Quindi secondo Bartoli non è Arafat che assecondando nei fatti il terrorismo ha perso l'ultima possibilità di guidare un processo di pace. E' Israele,con il responsabile massimo Sharon, che impedisce ad Arafat di fermare il terrorismo. Secondo Bartoli fermare e uccidere i terroristi non è una misura preventiva lecita per un governo che deve difendere i propri cittadini. Sharon è un falco, un impedimento alla pace.



Invitiamo i lettori alla lettura completa del pezzo di Bartoli e poi scrivere le proprie opinioni al Giornale.



ISRAELE
L'OCCIDENTE IN CERCA DI UN NUOVO ARAFAT
EDGARDO BARTOLI

Il Giornale del 10/12/2001

Mentre Arafat "fa quello che può", come lui stesso afferma, per fermare il terrorismo palestinese, gli israeliani continuano a bombardare comandi e caserme della sua polizia, ad assassinare esponenti di Harnas e di Al Fatah o presunti tali, a occupare villaggi e ad assediare città, rendendogli in tal modo sempre più difficile l'opera di repressione che pure essi esigono da lui. Il leader palestinese, chiuso nel suo bunker di Ramallah, è loro prigioniero, impossibiitato a muoversi al di fuori del suo territorio - e con qualche rischio all'interno di questo - senza il permesso esplicito del governo di Gerusalemme. Egli è, di fatto, un ostaggio in mano al nemico. La sua ultima dimostrazione di zelo nel rispettare i patti è giunta, come si dice, fuori tempo massimo. E Sharon pensa, o spera (pare lo abbia confidato al primo ministro turco Ecevit), che sia giunto finalmente il momento di liberarsi una volta per tutte di Arafat; e con lui, se possibile, dell'Autorità palestinese e con questa degli stessi accordi di Oslo e di tutto il conseguente rituale di pace che egli non ha mai accettato. Quale sia la pace che Sharon è disposto ad accettare l'ha detto lui stesso in più di una occasione: la pace del padrone da imporre più che da proporre a una contrparte in ginocchio. Restituzione di una parte dei Territori, e basta: senza parlare né di una spartizione di Gerusalemme, né di smantellamento o di limitazione degli insediamenti ebraici, né di ritorno di profughi del '48. Quanto al futuro Stato palestinese esso dovrà essere un patchwork di ritagli territoriali sparpagliati fra un insediamento e l'altro. E certo che Arafat non potrebbe mai accettare una pace leonina di questo genere dopo aver rifiutato quella integrale, onesta, paritaria che gli offriva il predecessore di Sharon, Barak. Con il suo rifiuto ha posto una pietra tombale sulla sua credibilità, e oggi è convinzione generale - fra gli israeliani come fra i palestinesi nelle capitali arabe come in quelle occidentali - che l'epoca di Arafat sia al tramonto, che troppe siano state le prove di inaffidabilità e di doppiezza date dal personaggio simbolo della causa palestinese, che un ricambio potrebbe aiutare a sgomberare il campo da molte delle ambiguità e dei trabocchetti che hanno caratterizzato finora i rapporti israelo - palestinesi. A condizione, s'intende, che finisca contestualmente anche l'era degli Sharon - per non parlare di quella ancor più minacciosa dei Netanyahu - per i quali Arafat è sempre stato, comunque, un ostacolo ai loro disegni di ebraizzazione dell'intera Palestina. Tre mesi fa, il premier israeliano cercò di far rientrare il conflitto con i palestinesi nel contesto della guerra globale dichiarata dall'America al terrorismo. Non ci riuscì, per il rifiuto oppostogli da Washington e per la prontezza di riflessi con cui Arafat si schierò dalla parte dell'Occidente. Dopo la recente strage perpetrata in Israele dai kamikaze di Hamas, e il cenno di assenso fattogli da Bush circa il diritto di Israele a difendersi, gli si è riaffacciata per un istante la speranza di poterci riprovare all'ultimo momento, speranza subito spenta dai diligenti uffici dell'inviato americano Albert Zinni. Ma essa risorgerebbe fatalmente qualora il terrorismo palestinese tornasse a colpire duramente Israele. E l'unico ad arginare un terrorismo che gli disubbidisce, ma che lo rispetta, resta, per ora, proprio lui, Yasser Arafat. Non a caso egli gode oggi del pieno appoggio americano. Sta di fatto che il tempo stringe sia per Sharon sia per Arafat. La vittoria in Afghanistan, Bin Laden e il mullah Omar in fuga, la psicologia di vittoria ormai prevalente nella lotta al terrorismo, per quanto ancora lunga essa possa essere, non consentono di restituire in alcun modo al conflitto israelo-palestinese quel carattere di centralità che esso fortunatamente non ha più da vent'anni. Si tratta di una faccenda da sistemare a parte. Non certo costringendo di forza Sharon e Arafat a un tavolo di trattative, ciò che sarebbe del tutto inutile, ma imboccando la strada ben più lunga e ardua che conduca a un nuovo Camp David, dove un nuovo Barak torni a offrire la stessa pace a un nuovo Arafat, e questi la sottoscriva senza le riserve mentali del suo predecessore. Sempre che le democrazie occidentali a cominciare da quella americana abbiano la volontà e il fiato sufficienti per percorrerla.


Edgardo Bartoli



lettori@ilgiornale.it

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