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Nuova Secondaria Rassegna Stampa
25.01.2025 Dal 7 ottobre 2023 contro Israele al ritorno dell’antisemitismo in Occidente
Analisi di Ugo Volli

Testata:Nuova Secondaria
Autore: Ugo Volli
Titolo: «Dal 7 ottobre 2023 contro Israele al ritorno dell’antisemitismo in Occidente»

Riprendiamo dal mensile NUOVA SECONDARIA di gennaio l'analisi di Ugo Volli dal titolo "Dal 7 ottobre 2023 contro Israele al ritorno dell’antisemitismo in Occidente".

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Ugo Volli

Il 7 ottobre ha dato origine a un nuovo antisemitismo in Occidente, in cui Israele e gli ebrei sono odiati perché accusati di genocidio, pregiudizialmente, a dispetto della realtà della guerra a Gaza

1. Un pogrom?

La questione della guerra in Medio Oriente, di cui i media sono pieni da un anno, è fondamentalmente molto semplice. È sbagliato innanzitutto presentarla come fanno quasi tutti i giornali come la “guerra di Gaza” e magari come un “pogrom”. Di questo pogrom operato da Hamas o dai palestinesi di Gaza, secondo la grande maggioranza dei media e molti politici, Israele si vendicherebbe in maniera crudele ed eccessiva, e magari – come ha detto qualcuno – “genocidaria”.

La realtà è un’altra. C’è stato effettivamente un terribile pogrom il 7 ottobre che ha colpito i villaggi in territorio israeliano subito fuori dal confine internazionale con Gaza e in particolare ha sterminato molti giovani partecipanti a una festa musicale. Esso è descritto in maniera assai empatica e coinvolgente ma anche analitica nel libro di Fiamma Nirenstein, 7 ottobre 2023. Israele brucia (Giubilei Reganani Editore, Cesena 2024) e con grande chiarezza documentaria e dettaglio in quello di Sharon Nizza intitolato anch’esso 7 ottobre 2023 e pubblicato da Repubblica. Ma esso, avvenuto in contemporanea al lancio di migliaia di missili su Israele, sorprendendo completamente i servizi di sicurezza e le forze armate dello stato ebraico, non è stato affatto un episodio spontaneo di furore, frutto di esasperazione o di follia collettiva, come farebbe pensare l’uso di questa descrizione, bensì l’atto inaugurale di una guerra su molti fronti pianificata e decisa centralmente da una direzione politica ben precisa, la leadership iraniana, come documenta in maniera approfondita un altro libro di Fiamma Nirenstein (con Nicoletta Tiliacos) La guerra antisemita contro l’Occidente, pure pubblicato da Giubilei Reganani Editore, Cesena nel 2024.

2. Lo Stato di Israele e i suoi nemici

In sostanza, la situazione che si è sviluppata nell’ultimo anno in Medio Oriente è questa. C’è uno Stato, Israele, che ha esistenza giuridica da quasi ottant’anni ma è anche l’espressione contemporanea di un popolo antichissimo, indigeno a quel territorio, molto perseguitato e per lo più sopravvissuto in esilio ma sempre presente lì; uno stato che è membro dell’Onu, funziona dalla fondazione come una democrazia occidentale multipartititica, si basa sull’uguaglianza dei diritti dei suoi cittadini di ogni cultura e religione, ha un’economia e una tecnologia molto avanzate tanto da essere stato definito “la nazione start up” già nel 2009 in un libro di grande successo2 tanto da aver raggiunto un reddito pro capite ben superiore a quello italiano partendo da un livello di grande povertà.

Questo stato è però avversato da una parte consistente dei suoi vicini, ha dovuto affrontare quattro grandi guerre su molti fronti (1948/49 - 1956, 1967, 1973, 2023/24) più molti scontri locali e ininterrotte aggressioni terroristiche.

Dopo le sconfitte delle guerre nei primi venticinque anni di vita dello stato ebraico, gli stati circostanti hanno rinunciato alla guerra aperta con Israele, delegandola al terrorismo palestinese, o addirittura stringendo accordi con esso (l’Egitto nel 1979, la Giordania nel 1994, gli Emirati Arabi e il Bahrein nel 2020). Da decenni dura invece il tentativo esplicitamente dichiarato da parte di un altro Stato, una dittatura clericale imperialista e intollerante, l’Iran, di distruggere lo stato ebraico con diversi mezzi ma soprattutto usando vari movimenti terroristici da esso finanziati, armati e addestrati: Hamas, Hezbollah, Houti. La distruzione di Israele - che spesso viene esplicitamente presentata, citando un hadith, cioè un detto tradizionalmente attribuito a Maometto, come lo sterminio dei suoi abitanti, anzi di tutti gli ebrei - per l’Iran è l’anello fondamentale di un grande progetto di egemonia regionale sull’intero Medio Oriente. Una ricostruzione di questo lungo conflitto si può leggere in Guerre de l'ombre entre Israël et la République islamique de l'Iran: Tsahal contre l'axe de la résistance" iranien di Oren Xhauvel (L’hermattan, Paris, 2022). Questa strategia comporta anche un pericolosissimo progetto di armamento nucleare, che l’Iran persegue da alcuni decenni e che ormai è arrivato molto vicino alla sua attuazione, se non sarà bloccato. Un’analisi di questo aspetto si trova in un breve libro di Arturo Diaconale Iran - Israele: Olocausto nucleare (Koinè Nuove Edizioni, Roma 2006).

3. La guerra

La grande strategia di costruire un “cerchio di fuoco” intorno a Israele usando movimenti satelliti (Hezbollah in Libano, il regime di Assad in Siria, i partiti sciiti in Iraq, Hamas, la Jihad Islamica e altri gruppi terroristici a Gaza e in Cisgiordania, formazioni eversive ispirate alla Fratellanza Musulmana in Giordania ed Egitto, con in più un accordo strettissimo con la Russia), completata con il piano di un “ponte di terra” fra l’altopiano persiano e il Mediterraneo, è stata sconfitta dalla resistenza di Israele, che ha liquidato la forza militare di Hamas e molto ridimensionata quella di Hezbollah, colpito gli impianti antiaerei e missilistici iraniani e provocato la caduta del regime di Assad. Ma resta finora la scelta fondamentale di politica estera del regime degli ayatollah: solo mostrando di essere capace di abbattere Israele, la minoranza sciita potrà, secondo il suo progetto, imporsi alla grande maggioranza sunnita dopo tredici secoli di sconfitte e diventare egemone in tutto il Medio Oriente, guidando poi lo sforzo per l’islamizzazione del mondo.

Per capire l’oppressione che questa politica, e l’impostazione clericale che la sostiene, impongono alla popolazione dell’Iran e che occasionalmente emergono anche alla consapevolezza dell’Europa, senza però provocare un vero sostegno per chi vi resiste, bisogna leggere L'Iran in fiamme. Donne, vita, libertà di Arash Azizi (Solferino, Milano 2024).

Da questo progetto di guerra senza limiti contro Israele, per cui nella capitale Teheran è in mostra addirittura un display con un conto alla rovescia per l’eliminazione dello stato ebraico previsa fra una ventina d’anni, si è concretato il 7 ottobre 2023 il più grande attacco terrorista degli ultimi decenni, con circa mille e duecento assassinati, per lo più civili, donne, vecchi, neonati; centinaia di stupri , duecentocinquanta persone (anch’esse quasi tutte civili, donne e uomini, bambini anche molto piccoli e anziani) brutalmente rapite e in parte, quelle che sono sopravvissute alle condizioni inumane della prigionia e che non sono state assassinate, ancora detenute al momento in cui scrivo. Su questo attacco, oltre ai volumi citati, è importante leggere Il sabato nero. La distruzione d'Israele, i barbari e l'Europa di Giulio Meotti (Lindau, Torino 2024) ed è utile anche il libro di Stefano Piazza, Ottobre nero (Paesi edizioni, Roma, 2024). All’attacco di Hamas da Gaza si sono uniti immediatamente (l’8 ottobre, prima della reazione israeliana su Gaza) i lanci missilistici di Hezbollah dal Libano e dalla Siria, e poi in seguito altri attacchi dei movimenti terroristici dall’Iraq, dallo Yemen e dall’Autorità Palestinese, infine direttamente lo stesso Iran con alcuni grandi attacchi aerei.

Sul territorio israeliano, grande più o meno come la Lombardia, da queste diverse direzioni sono stati sparati in un anno circa 45.000 missili, che fortunatamente hanno fatto danni limitati, grazie ai rifugi per la popolazione civile e a difese antimissile molto avanzate (Iron Dome, Arrows, David Sling) ma che comunque hanno provocato parecchie decine di morti civili innocenti e hanno costretto alcune centinaia di migliaia di persone ad abbandonare le loro case. Israele ha risposto a tutti questi attacchi con bombardamenti aerei contro i centri di lancio missilistici e quindi con un’operazione di terra a Gaza alla fine di ottobre 2023, che si è estesa gradualmente a tutto il territorio della Striscia, e poi, un anno dopo, nel Libano meridionale. L’ingresso dei militari israeliani nel territorio dominato dai terroristi era una mossa da essi data per scontata e in sostanza ricercata. In previsione di questa battaglia Hamas a Gaza e Hezbollah in Libano avevano costruito in molti anni e con grandi investimenti centinaia di chilometri di tunnel fortificati dove rifugiarsi e da cui compiere agguati alle spalle delle forze israeliane, contando così su un duplice effetto bellico.

Da un lato il piano era di provocare gravi perdite degli israeliani, soprattutto se essi si fossero trovati costretti ad andare a stanarli nelle fortificazioni sotterranee, preventivamente minate e predisposte al combattimento, mettendo così in crisi tutto lo stato ebraico e inducendo la popolazione alla fuga; questo rischio è stato in

buona parte sventato grazie alla tecnologia israeliana, che ha distrutto molte istallazioni con attacchi aerei di precisione e poi ha utilizzato varie tattiche per conquistarli e metterli fuori uso senza subire perdite catastrofiche, anche se l’operazione è costata la vita a centinaia di soldati.

Dall’altro lato, l’intenzione chiara di Hamas era di farsi scudo della popolazione civile utilizzando i danni che essa era destinata a subire come leva di comunicazione per provocare l’indignazione del mondo contro Israele: una scelta più volte dichiarata esplicitamente dai suoi dirigenti. Ha detto per esempio il leader di Hamas, poi eliminato, Ismail Hanyeh all’inizio della guerra, il 26 ottobre del 2023, in un videomessaggio largamente diffuso: "Il sangue delle donne, dei bambini e degli anziani... siamo noi che abbiamo bisogno di questo sangue per risvegliare lo spirito rivoluzionario dentro di noi, per spingerci avanti”.

Questa tattica di sacrificare i propri sudditi per provocare sdegno contro Israele e coinvolgerlo in guerre legali ha avuto un grande successo in Occidente, nei media, nelle università, fra i leader politici.

4. Un conflitto asimmetrico

Si è trattato in sostanza di una vera e propria guerra. Le ripetute dichiarazioni di Hamas e degli altri movimenti che il 7 ottobre era solo l’inizio di una strategia di distruzione di Israele e che quel tipo di operazione sarebbe stato ripetuto ogni volta che fosse possibile, confermate anche dalle loro azioni, rendevano impossibile una operazione limitata di “restaurazione della deterrenza”, come quelle che Israele aveva compiuto diverse volte (2006, 2008, 2009, 2012, 2014, 2021) dopo attacchi missilistici provenienti da Gaza contro il suo territorio dopo che Ariel Sharon aveva deciso nel 2005 di lasciare il governo della Striscia, evacuando tutti i villaggi ebraici presenti nella Striscia. Dato che Israele non aveva alcuna ambizione sul territorio di Gaza e sperava in una convivenza pacifica, queste operazioni si erano sempre fermate a bombardamenti aerei sulle basi di Hamas e solo in un caso a una limitata operazione di terra. Dopo il 7 ottobre però la situazione era completamente diversa: non bastava un’operazione per indurre Hamas a limitare la sua aggressività, era diventato chiaro a chiunque in Israele, non solo a Netanyahu, che era necessaria distruggerne la forza militare, dunque impegnarsi in una guerra vera e propria.

Questa guerra è stata resa molto più difficile per il fatto che non si scontravano su un campo di battaglia due formazioni militari di tipo tradizionale, ma vi era un esercito vero e proprio che doveva confrontarsi casa per casa con gruppi organizzati e addestrati secondo la modalità del terrorismo e della guerriglia urbana, cioè

mimetizzati nella popolazione civile e soprattutto nascosti in una rete molto estesa e intricata di tunnel fortificati, spesso scavati in un contesto cittadino molto denso, sotto case civili, ospedali, scuole e moschee, in modo da godere della loro protezione, o da poter incriminare Israele se le colpiva.

Israele ha dovuto liquidare questa fittissima rete sotterranea progettata per avviluppare e distruggere le sue forze e ha dovuto anche fare i conti con un’abbondanza di armi moderne come missili e lanciarazzi anticarro, continuamente rifornita da altri tunnel in collegamento con l’Egitto. Ha bombardato i luoghi dove sapeva che si annidavano i terroristi e ha anche dovuto passare al setaccio tutta la Striscia, cercando di separare i terroristi dalla popolazione civile e di spostarla via via dai teatri di combattimento per evitare di colpirla. Ne è derivato un numero di vittime certamente alto: secondo i numeri che provengono da Hamas sarebbero circa 45.000 in quindici mesi di combattimenti, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR) ha individuato circa 8500 vittime civili, Israele ha rivendicato di aver eliminato fra i 17 e i 20 mila combattenti nemici. Una ricerca di un Think Thank britannico, La Henry Jackson Society mostra che oltre il novanta percento dei media occidentali cita le cifre di Hamas e non quelle di Israele, anche se le prime sono del tutto inaffidabili, comprendendo almeno 5000 morti per cause diverse dalla guerra e manipolando in maniera statisticamente impossibile le cifre delle diverse categorie di vittime. Si tratta comunque di una cifra che va rapportata ai 2,1 milioni di abitanti di Gaza e i 5,1 milioni dell’intera autorità palestinese. Per fare un altro paragone, le sole vittime civili dei bombardamenti alleati a Napoli nel 1943 furono 22 mila.

5. La questione del genocidio

Su questi numeri è nata una grande operazione propagandistica che continuamente accusa Israele di compiere un “genocidio” a Gaza. Ma se si considera la definizione ufficiale data dalla convenzione Onu che ha istituito questo reato a partire dalla strage turca degli armeni e da quella nazista degli ebrei, essa parla degli “atti commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”.

Bisogna dunque confrontare gli eventi di Gaza con la storia purtroppo lunga e nutrita degli stermini intenzionali di popoli o in concreto a quel che è accaduto agli armeni in Turchia, ai Tutsi in Ruanda, in particolare agli ebrei in Europa durante la Seconda guerra mondiale.

Se lo si fa e si guarda ai numeri e anche alle politiche adottate, agli scopi proposti, ai comportamenti messi in atto, è evidente che questa qualificazione giuridica è sbagliata. O, peggio, che è un’arma polemica volta a rovesciare sugli ebrei l’accusa di compiere ora quello che avevano subito per mano dei nazisti il secolo scorso, come spesso ripetono i nemici di Israele, con lo scopo esplicito di stabilirne l’indegnità morale e quello meno dichiarato ma altrettanto evidente di assolvere i popoli dell’Europa che avevano partecipato alla Shoà da Volonterosi carnefici di Hitler (che come è noto, questo è il titolo di un libro di Daniel Goldhagen edito da Mondadori nel 2017 in cui si discute la partecipazione collettiva allo sterminio degli ebrei).

Il fatto è che Israele non ha affatto cercato di distruggere la popolazione palestinese, che è regolarmente aumentata anche nell’anno della guerra e ha lavorato per limitare le perdite civili. Anche accettando i numeri forniti da Hamas, il conto delle perdite assomma a meno dell’un per cento della popolazione appartenente all’Autorità Palestinese e specificamente al due per cento di quella di Gaza. L’accusa è talmente inconsistente che due dei suoi principali sostenitori, Amnesty International e lo Stato dell’Irlanda, hanno proposto esplicitamente di manipolare la definizione di genocidio per farvi rientrare a forza le azioni dell’esercito israeliano. Ma quel che propongono è in sostanza l’equiparazione di ogni guerra al genocidio, il che è molto pericoloso perché elimina la specificità del più odioso crimine previsto dal diritto. Resta comunque il fatto che Israele ha fatto uno sforzo straordinario e assolutamente unico nella storia delle guerre, per mandare rifornimenti al popolo governato da chi gli aveva dichiarato guerra e anche per evitare di colpire i civili, avvertendo prima sistematicamente per tutte le sue offensive aeree e di terra, in modo che la popolazione (ma certamente anche molti nemici attivi e armati) si potessero allontanare.

6. La ragione giuridica e quella politica

Come si è visto, le questioni connesse a questa guerra sono molto ramificate e complesse. Se parlare di genocidio nel caso di Gaza è certamente sbagliato, perché quel che conta nella definizione del reato è “l’intenzione” di eliminare una popolazione o una religione e questo aspetto è certamente presente nella volontà dell’Iran, di Hamas e degli altri gruppi terroristici di distruggere Israele, ma assolutamente non nell’autodifesa israeliana, nel dibattito in corso sono emersi in relazione a questo altri due temi, connessi fra loro.

Il primo è quella che in termini tecnici si chiama la “giuridificazione” della vita pubblica nazionale e internazionale. Al posto della dimensione politica, cioè la tendenza in un numero sempre crescente di materie di affidare le scelte fondamentali al sistema giuridico, invece che ai meccanismi politici e cioè a scelte compiute democraticamente dai rappresentanti dell’elettorato. Questo tema, presente in molte vicende anche italiane, è troppo vasto e complesso per parlarne qui.

La seconda questione che ne deriva è la tendenza a vedere la storia non in termini politici, come conflitto anche violento fra forze diverse su obiettivi contrastanti, ma sulla base di giudizi morali, che naturalmente escludono ogni violenza. Ne deriva, come ha notato Ernesto Galli della Loggia in un recente articolo la prospettiva di mettere fuori legge non i “crimini di guerra”, salvaguardando la possibilità dell’autodifesa degli stati e dunque di quella che da Aristotele in poi, passando per Tommaso e Grozio è stata definita “guerra giusta”, ma di considerare un reato la stessa guerra.

Bisogna anche aggiungere che la giuridificazione lega le mani solo agli attori statali e pubblici, soprattutto a quelli integrati nelle Nazioni Unite e nei fitti legami delle organizzazioni internazionali. I movimenti eversivi, che mancano di ogni legittimità democratica e di istituzioni politiche riconosciute, non si sentono e di fatto non sono affatto legati alle leggi di guerra, neppure in un’interpretazione “classica” meno estensiva di quel che si usi oggi. Il pogrom di Hamas, che ha ucciso violentato e rapito persone di ogni età e condizione, non è assolutamente compatibile con il diritto penale di qualunque Stato né con quello di guerra; i razzi sparati genericamente sulle città e sui villaggi israeliani da Gaza, dal Libano dallo Yemen e dall’Iran e non su obiettivi militari costituiscono evidenti crimini di guerra; le trattative per la liberazione dei rapiti, in cui Hamas e la Jihad islamica si vantano di trattenere con la violenza nelle loro mani vecchi, donne e bambini e cercano di farne commercio per ricattare Israele, sono un’evidente ammissione del reato di sequestro di persona e degli omicidi che molti dei rapiti hanno subito durante la loro prigionia. Così per l’uso di scudi umani e lo stravolgimento di scuole e ospedali in basi militari e anche per il progetto di distruggere con attentati sanguinosi uno stato membro dell’Onu. Ma gli intellettuali, le istituzioni e gli opinion leader che rimproverano a Israele le sue tattiche di guerra, pur improntate al tentativo di evitare il più possibile i danni ai civili, in genere non protestano affatto per questi crimini, considerando evidentemente i movimenti guerriglieri legibus soluti, e quindi non colpevoli anche quando praticano il terrorismo più efferato. Al massimo si limitano ad auspicare il rilascio dei rapiti, ma spesso non fanno nemmeno questo.

Sul tema della violenza e della sua pornografia un libro molto significativo è il libro di Siegmund Ginzberg, Macellerie. Guerre atroci e paci ambigue (Feltrinelli, Milano 2024), in cui si mettono assieme tipologicamente storie dalla Grecia classica all’Oriente, dalla Bibbia al colonialismo, dal Medioevo alla storia politica attuale, per dimostrare la prevalenza del sangue, delle torture, delle stragi in tutti questi contesti storici. Si tratta di una tesi facilmente dimostrata con l’abbondanza degli esempi, ma proprio perché è così generale, quasi universale, questa violenza non ha una specifica rilevanza politica e storica, ma semmai antropologica, biologica (vale qui la pena di ricordare Il cosiddetto male di Konrad Lorenz pubblicato già nel 1977 da Garzanti e oggi disponibile presso Il Saggiatore) e soprattutto teologica.

7. Il giudizio sullo Stato di Israele

Due altri temi che hanno colpito soprattutto il mondo ebraico riguardano il giudizio sullo Stato di Israele e l’antisemitismo.

La grandissima maggioranza degli ebrei, che vivano in Israele o meno, danno un giudizio positivo di questo stato, lo considerano la loro “assicurazione sulla vita” e ritengono che sul piano oggettivo Israele sia non solo l’unica autentica democrazia del Medio Oriente (e anche di più, di tutto l’immenso territorio afroasiatico che sta fra il Marocco e l’India, fra la Turchia e il Sudafrica); ma sono fieri della sua storia di successi economici, scientifici e culturali, del suo straordinario impasto di culture e di modi di vivere. Si sono dunque schierati con decisione dalla parte dello stato ebraico in questa guerra che è stata compresa come una questione di vita o di morte per Israele.

Fra gli intellettuali ebrei vi sono però alcune letture fortemente ideologiche, che per odio al governo di centrodestra che lo amministra, hanno interpretato la sua autodifesa come Il suicidio di Israele (è il titolo del libro di Anna Foa pubblicato da Laterza 2024) e la sua resistenza come “esclusivismo e tribalismo” (così Gad Lerner in Gaza - odio e amore per Israele, Feltrinelli Milano 2024), valutata quindi come una “strategia fallimentare che ha diviso in profondità la società israeliana” come ha scritto, in termini comunque assai più moderati Gilles Kepel in Olocausti. Israele, Gaza e lo sconvolgimento del mondo dopo il 7 ottobre (Feltrinelli, Milano 2024). Si tratta di autori molto noti, anche se Foa e Lerner non sono certo specialisti di Israele e nei loro libri infilano qualche errore di fatto, oltre a giudizi pregiudiziali.

Ma vi sono anche autori che esprimono la posizione pro Israele maggioritaria fra gli ebrei. Il più noto è Bernard Henry Lévi, il filosofo e attivista dei diritti umani francese che ha scritto Solitudine di Israele (La Nave di Teseo, Milano 2024), un saggio appassionato che mostra come il 7 ottobre non sia stata “un’aggressione che ha colpito soltanto il mondo ebraico, ma un fatto che riguarda la coscienza universale”. In questo gruppo vanno inserito anche Israele. Tra abisso e speranza. Viaggio nell'anima di un paese di Adam Smulevich (Minerva Edizioni, Bologna 2024), resoconto di un viaggio reale nel paese in guerra, oltre ad alcuni libri citati prima, innanzitutto quello fondamentale di Fiamma Nirenstein, la cui diagnosi fondamentale è perfettamente descritta nel titolo: La guerra antisemita contro l’Occidente.

Un accenno a parte merita il libro del grande studioso di cultura e filosofia ebraica Massimo Giuliani, Gerusalemme e Gaza. Guerra e pace nella terra di Abramo (Morcelliana, Brescia) uscito a caldo nel novembre del 2023, con il proposito di spiegare dal punto di vista teologico le regioni del conflitto fra ebrei e musulmani e le possibili vie di conciliazione, inclusi i limiti che la Bibbia ebraica pone alla pratica della guerra. Vi sono poi alcuni libri di autori estranei al mondo ebraico, come quello di Giulio Meotti, anch’esso già citato, e Le ragioni di Israele di Riccardo Galetti e Sajeva (Linkiesta, Milano 2024).

8. La minaccia dell’antisemitismo

Se l’aggressione del 7 ottobre ha colto di sorpresa i servizi di sicurezza e le forze armate israeliane, la guerra dell’Iran e dei terroristi contro Israele, essendo largamente annunciata, non ha troppo sorpreso. Ciò che ha invece destato meraviglia e indignazione è l’esplosione di antisemitismo, solo in parte travestito da antisionismo, che si è avuta in Europa, negli Stati Uniti e in genere in Occidente, soprattutto nelle università e nei movimenti di protesta sindacali e femministi. Come documenta una ricerca condotta dall’Istituto Cattaneo di Bologna, questa rapida espansione di atteggiamenti antisemiti, soprattutto fra persone che si qualificano “di sinistra”, è avvenuta immediatamente dopo il “pogrom” del 7 ottobre, ben prima che iniziasse la reazione israeliana su Gaza.

La ferita inferta allo stato ebraico in quel giorno è apparsa a molti come una opportunità di far emergere un rancore contro Israele (ma in realtà anche contro gli ebrei) che covava da tempo.

Le ragioni di questo atteggiamento sono parecchie; da un lato evidentemente il ricordo della Shoà e le celebrazioni di giornate della memoria e viaggi nei lager nazisti non hanno prosciugato il vasto bacino di odio per gli ebrei, accumulato in molti secoli di propaganda cristiana e musulmana, illuminista e romantica, socialista e fascista (su questo tema mi permetto di rimandare ancora al mio La shoà e le sue radici). Dall’altro ha agito la continuità di un’ostilità per Israele che fu istallata ai tempi di Stalin e ha retto agevolmente la dissoluzione dei vecchi blocchi della Guerra Fredda. Ancora, ha avuto molto peso un atteggiamento di “intersezionalità” assai diffuso nel mondo universitario e intellettuale, che separa semplicisticamente il mondo in “oppressi e oppressori” cioè buoni e cattivi, che poi sarebbero alla rinfusa i capitalisti, i “partiti borghesi”, i bianchi, gli eterosessuali, i “cisgender”... e gli ebrei. Su questo atteggiamento invito a leggere il bel libro di Luca Ricolfi, Il follemente corretto. L'inclusione che esclude e l'ascesa della nuova nuova élite (La nave di Teseo, Milano 2024).

9. La definizione del IHRA

Per capire il senso di parlare di antisemitismo a proposito di quel che sta accadendo in molte sedi qualificate dell’Occidente, non basta richiamare le numerose aggressioni a simboli (sinagoghe, monumenti, pietre tombali) e soprattutto persone ebree che sono stati registrate nell’ultimo anno; è importante far riferimento alla più accreditata e condivisa definizione internazionale dell’antisemitismo stesso. Questa è la “working definition” di antisemitismo approvata nel 2018 dall’IRHA (The International Holocaust Remembrance Alliance), un organismo internazionale che raggruppa 46 stati, fra cui l’Italia: «L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei. Manifestazioni di antisemitismo verbali e fisiche sono dirette verso gli ebrei o i non ebrei e/o alle loro proprietà, verso istituzioni comunitarie ebraiche ed edifici utilizzati per il culto».

Questa definizione apparentemente molto generica è però completata da una serie importantissima di “esempi” che la rendono concreta:

[…] L’antisemitismo spesso accusa gli ebrei di cospirare per danneggiare l’umanità, e se ne fa ricorso di frequente per dare la colpa agli ebrei quando “le cose non funzionano”. L’antisemitismo si esprime nel linguaggio scritto e parlato, con immagini e con azioni, usa sinistri stereotipi e fattezze caratteriali negative per descrivere gli ebrei.

Considerando il contesto generale, esempi contemporanei di antisemitismo nella vita pubblica, nei mezzi di comunicazione, nelle scuole, sul posto di lavoro e nella sfera religiosa includono (ma non si limitano a):

- l’incitare, sostenere o giustificare l’uccisione di ebrei o danni contro gli ebrei in nome di un’ideologia radicale o di una visione religiosa estremista;

- il fare insinuazioni mendaci, disumanizzanti, demonizzanti o stereotipate degli ebrei come individui o del loro potere come collettività – per esempio, specialmente ma non esclusivamente, il mito del complotto ebraico mondiale o degli ebrei che controllano i mezzi di comunicazione, l’economia, il governo o altre istituzioni all’interno di una società;

- l’accusare gli ebrei come popolo responsabile di reali o immaginari crimini commessi da un singolo ebreo o un gruppo di ebrei, o persino da azioni compiute da non ebrei;

- il negare il fatto, la portata, i meccanismi (per esempio le camere a gas) o l’intenzione del genocidio del popolo ebraico per mano della Germania Nazionalsocialista e dei suoi seguaci e complici durante la Seconda Guerra Mondiale (l’Olocausto);

- l’accusare gli ebrei come popolo o Israele come stato di essersi inventati l’Olocausto o di esagerarne i contenuti;

- l’accusare i cittadini ebrei di essere più fedeli a Israele o a presunte priorità degli ebrei nel mondo che agli interessi della loro nazione in cui vivono;

- il negare agli ebrei il diritto dell’autodeterminazione, per esempio sostenendo che l’esistenza dello Stato di Israele è una espressione di razzismo;

- l’applicare due pesi e due misure nei confronti di Israele richiedendo un comportamento non atteso da o non richiesto a nessun altro stato democratico;

- l’usare simboli e immagini associati all’antisemitismo classico (per esempio l’accusa del deicidio o della calunnia del sangue) per caratterizzare Israele o gli israeliani;

- il fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei Nazisti;

- il considerare gli ebrei collettivamente responsabili per le azioni dello Stato di Israele15.

Si vede chiaramente come nelle fattispecie previste dalla definizione con cinque anni di anticipo rientrino moltissimi comportamenti dichiarazioni e opinioni che hanno dominato il panorama dei media e della politica internazionale nell’ultimo anno.

10. L’antisemitismo attuale

L’antisemitismo riemerso in occasione della guerra del Medio Oriente ha prodotto alcune analisi importanti e denunce appassionate, che bisogna prendere in considerazione per comprendere questa situazione. Oltre alle classiche analisi storiche di Poliakov (Storia dell'antisemitismo, Rizzoli, Milano 2013) e Shäfer (Storia dell'antisemitismo, Donzelli, Roma 2022) allo studio importante sull’Antisemitismo a sinistra di Gadi Luzzatto Voghera (Einaudi Torino 2021), o a ricerche recenti come L'antisemitismo e le sue metamorfosi. Distorsione della Shoah, odio online e complottismi di Milena Santerini (Giuntina, Firenze 2022), vanno segnalate innanzitutto La nuova caccia all'ebreo di Pier Luigi Battista (Liberilibri, Macerata 2024) e Il nemico ideale di Natania Zevi (Rai, Roma 2024) Una riflessione approfondita a più voci è Il nuovo rifiuto di Israele. Riflessioni su ebraismo, cristianesimo, islam e l’odio di sé dell’occidente, a cura di Massimo De Angelis (Belforte, Livorno 2024).

Quel che preoccupa in questa ondata è che essa non è solo un movimento di opinione, ma si salda sempre più, soprattutto nell’Europa settentrionale, nelle università americane e anche in paesi tradizionalmente amici di Israele come Australia e Canada, con azioni politiche spesso violente, con l’attivismo islamista di colonie numerose di immigrati, con scelte di isolamento e delegittimazione che provengono dai vertici degli stati, con un tentativo sistematico di isolamento di Israele e degli ebrei, perseguito da numerosi attori politici, producendo nell’opinione pubblica un atteggiamento abbastanza diffuso di nuova intolleranza che restringe fortemente l’agibilità politica ma anche semplicemente la sicurezza degli israeliani e degli ebrei: è quel che si è visto in azione in diversi episodi di caccia all’uomo in città come Amsterdam, ma anche quartieri di Londra e di New York. È un problema che in Italia ha avuto finora soprattutto espressioni simboliche, per esempio nelle numerose manifestazioni di piazza e nelle occupazioni di scuole e università, ma che potrebbe estendersi anche da noi, diffondendosi dai paesi in cui i vertici politici, magistratura e forze dell'ordine appaiono tollerarlo, come accade per esempio in Olanda e Gran Bretagna.

Insomma, coerentemente ai programmi politici e alle dichiarazioni antisemite e non solo anti-israeliane dei movimenti islamisti, e non solo quelli che l’anno scorso si sono esposti portando guerra contro Israele, ma anche degli ambienti “progressisti” e “intersezionalisti” in tutto il mondo, ma particolarmente in Occidente c’è il rischio che si apra un nuovo periodo di discriminazione e di pericolo per gli ebrei - motivato questa volta non religiosamente o razzialmente, come in passato, ma sulla base di principi “umanitari” e “inclusivi”. Denunciare questa pericolosa involuzione e combatterla, anche smascherando la propaganda “progressista” contro Israele, è un compito importante per chiunque rifiuti il razzismo e non abbia dimenticato la lezione della Shoà.


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