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Libero Rassegna Stampa
20.01.2025 Un accordo buono ma anche cattivo
Editoriale di Daniele Capezzone

Testata: Libero
Data: 20 gennaio 2025
Pagina: 1
Autore: Daniele Capezzone
Titolo: «Un accordo buono perché salva delle vite, ma anche cattivo perché non è finita qui»

Riprendiamo da LIBERO di oggi 20/01/2025, a pag. 1, con il titolo "Un accordo buono perché salva delle vite, ma anche cattivo perché non è finita qui", l'editoriale di Daniele Capezzone. 

Confessioni di un liberale. Daniele Capezzone al Caffè della Versiliana  Giovedì 14 luglio, ore 18:30 - Versiliana Festival
Daniele Capezzone

Le immagini della restituzione dei primi tre ostaggi fanno rabbrividire. Sono un segno tangibile che Hamas è in piedi e si ritiene vincitore della guerra a Gaza. Per questo l'accordo di tregua è buon in sé, perché salva vite. Ma è cattivo per il futuro, perché apre la strada alla prossima guerra.

Il sigillo bestiale di Hamas non poteva mancare. I terroristi islamici sono infatti riusciti a trasformare perfino la liberazione dei primi tre ostaggi israeliani in un happening sadico, in un estremo e macabro rituale di degradazione. Prima la diffusione di soli tre nomi, senza specificare se si sarebbe trattato di persone vive o morte. Poi ulteriori lunghe ore di attesa e incertezza. E infine la consegna delle tre ragazze (Romi, Emily, Doron) alla Croce Rossa in un’atmosfera infernale: le belve di Hamas in divisa, armate fino ai denti, per una sfilata da presentare come una prova di forza in mondovisione; e i veicoli della Croce Rossa lasciati in mezzo a una folla inferocita. E così, in ultima analisi, la liberazione è diventata una tortura supplementare per chi doveva essere rilasciato, e un’ennesima minaccia psicologica recapitata all’opinione pubblica israeliana e al resto del mondo libero.
E allora diventa legittimo chiedersi: ma com’è quest’accordo?
$ buono o è cattivo? La risposta più saggia e realistica consiste forse nel trasformare la disgiunzione in congiunzione: l’accordo è insieme buono e cattivo.
$ buono, perché una prospettiva di guerra infinita e indefinita è difficile da sostenere davanti all’opinione pubblica mondiale.
E soprattutto è buono perché – per chiunque abbia una visione umana e umanistica della vita – anche una sola persona strappata a dei terroristi e restituita alla libertà e alla propria famiglia vale più di qualsiasi compromesso.
Ma allo stesso tempo l’accordo non è buono, e anzi diventa cattivo, se si considera l’incredibile sproporzione tra i 33 israeliani che alla fine saranno rilasciati (e nemmeno sappiamo se saranno tutte persone vive) e gli oltre mille palestinesi (tra i quali conclamati terroristi e assassini) che usciranno dalle carceri di Israele.
Non si tratta solo di una asimmetria numerica che grida vendetta. C’è di peggio: e cioè la certezza matematica che i miliziani palestinesi torneranno ad agire come terroristi, e nulla può indurci purtroppo a ritenere probabile un esito diverso. Del resto, accadde così proprio per Yahya Sinwar, scarcerato anzitempo e divenuto leader di Hamas.
Non solo: l’accordo prevede anche un significativo arretramento territoriale dell’esercito israeliano rispetto alle posizioni così faticosamente conquistate a Gaza, con l’ulteriore rischio di concedere spazio fisico all’estremismo fondamentalista.
Donald Trump – e ciò è comprensibile – voleva un risultato tangibile di tregua prima del suo giuramento di oggi, e l’ha avuto. E non va sottovalutato un messaggio di positività che comunque arriverà all’intera opinione pubblica mondiale.
Ma occorre sapere che il prezzo è molto alto, e ancora una volta è interamente a carico di Israele, oggetto peraltro di una campagna di aggressione morale alla quale non si è sottratto praticamente nessuno: Onu, Ue, Corti internazionali, cancellerie dei singoli stati, e perfino – con pervicacia particolare – papa Francesco.
Che conclusione se ne deve trarre? Ahinoi, che il terrorismo – nell’anno 2025 – funziona ancora, centra obiettivi, «paga». E che il nostro Occidente è troppo spesso senza bussola: non sa più riconoscere il nemico nemmeno quando – dalla parte opposta – viene apertamente dichiarata la volontà di ucciderci e sottometterci. Stavolta il bersaglio è stato Israele: possibile che nelle altre capitali non si valuti la possibilità di essere la prossima vittima?
Anche perché nessuno è sembrato desideroso di chiedere ciò che doveva essere il minimo: sin dal suo statuto del 1988, Hamas si è data come obiettivo chiaro ed esplicito la cancellazione dello stato di Israele. Come si fa a non tenere conto di questa cornice, di questo «scopo fondativo» apertamente genocida? Resta quello l’obiettivo di Hamas? Parrebbe di sì, di tutta evidenza, nel silenzio generale.
Intanto, con tassi maggiori o minori di buona fede, si continua a ripetere da più parti la soluzione dei «due stati». A parole, un’ottima prospettiva. Ma se uno dei due stati dovesse continuare a essere controllato da un gruppo terroristico come Hamas, quale sarebbe la percorribilità dell’ipotesi e la possibilità di convivenza fianco a fianco delle due entità statuali? Nessuna, di tutta evidenza. Ecco perché sradicare Hamas è la precondizione per rendere possibili i due stati. Chi non lo comprende o è molto ingenuo o è molto complice.
E allora resta una sensazione che non posso non lasciare a verbale. Questa tregua, probabilmente, sarà solo una parentesi.
Nessuno sa quando e come, ma è abbastanza inevitabile che prima o poi la guerra – in qualche forma – riprenderà. O per un nuovo atto terroristico degli islamisti, o perché Gerusalemme riterrà indispensabile difendersi attivamente.
Un esito del genere non dovrà trovarci né sorpresi né impreparati.

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