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israele.net Rassegna Stampa
17.01.2025 Le ragioni del cuore e quelle della testa: l’accordo sugli ostaggi e il prezzo dell’empatia
Analisi di Herb Keinon

Testata: israele.net
Data: 17 gennaio 2025
Pagina: 1
Autore: Herb Keinon
Titolo: «Le ragioni del cuore e quelle della testa: l’accordo sugli ostaggi e il prezzo dell’empatia»

Riprendiamo dal sito www.israele.net - diretto da Marco Paganoni - il commento di Herb Keinon tradotta dal Jerusalem Post dal titolo "Le ragioni del cuore e quelle della testa: l’accordo sugli ostaggi e il prezzo dell’empatia".


Herb Keinon

Speranza per gli ostaggi, per riaverli vivi e liberi a casa: sono le ragioni del cuore. La mente, però, suggerisce che è pericoloso ritirarsi dalla Striscia di Gaza, lasciando Hamas in controllo.

Il consenso di Israele all’imminente accordo sugli ostaggi che, se pienamente attuato, dovrebbe portare al rilascio di tutti i 98 ostaggi rimasti, sia vivi che morti, in cambio di migliaia di detenuti di sicurezza palestinesi, tra cui terroristi condannati all’ergastolo per assassini e stragi, segna il trionfo del cuore sulla testa.

L’accordo vedrebbe anche Israele ritirarsi in una zona cuscinetto lungo il perimetro della striscia di Gaza, rinunciare al controllo su aree chiave come il corridoio di Netzarim e, a tappe, il corridoio Filadelfia, e consentire ai civili di Gaza di tornare nella parte settentrionale della striscia ponendo fine di fatto alla guerra con una tregua a lungo termine.

L’equilibrio tra cuore e testa, il dibattito su quale dei due debba avere priorità nel processo decisionale, è tema in discussione da secoli. Entrambi gli approcci offrono punti di forza e insidie, come emerge chiaramente in questo accordo.

Farsi guidare dal cuore significa mettere in primo piano empatia, intuizione e valori morali, tutti fattori che promuovono solidarietà e unità.

Infatti, coloro che fanno pressione con tutte le loro forze per un accordo sugli ostaggi pongono l’accento sull’empatia chiedendo: “Cosa faresti se fosse tuo figlio ad essere trattenuto da Hamas?”, e sui valori morali radicati nell’imperativo – tipico dell’ebraismo – di salvare vite e riscattare i prigionieri.

I sostenitori di questa tesi riconoscono i rischi reali che comporta, ma affermano che ne valga la pena pur di preservare i principi etici su cui si fonda Israele.

Salvare la vita degli ostaggi e riunirli alle loro famiglie viene anche visto come un’espressione della solidarietà e della responsabilità reciproca, che è sempre stata una chiave di volta della società israeliana se non addirittura uno degli ingredienti principali della capacità del paese di sopravvivere in questo durissimo quartiere.

Rinunciare agli ostaggi, avvertono, significherebbe intaccare quella solidarietà nazionale, con gravi ripercussioni in futuro poiché minerebbe il contratto sociale di questo paese che spesso deve chiedere ai cittadini di sacrificarsi per la collettività.

Coloro che, nel corso dei lunghi mesi trascorsi dal 7 ottobre, hanno spinto per questo accordo sottolineano inoltre che solo quando gli ostaggi saranno restituiti potrà iniziare un processo di guarigione nazionale, un processo cruciale dopo il trauma di quel tragico giorno.

Sottolineano che lo stato, i cui colossali fallimenti hanno reso possibile il rapimento degli ostaggi, ha la responsabilità di riportare a casa i suoi cittadini a qualsiasi ragionevole costo. E per loro il prezzo dell’accordo, non importa quanto elevato, è ragionevole.

Per contro, farsi guidare dalla testa dà priorità alla logica, alla ragione, alla strategia e alle conseguenze a lungo termine rispetto alle emozioni immediate. Significa valutare i dati, le conseguenze e l’analisi attenta, per arrivare a decisioni calcolate.

Coloro che si oppongono all’accordo non sono persone gelide con il cuore di pietra. Piuttosto, sono persone che guardano al di là del presente e del singolo e giudicano l’accordo in base alla sua validità a lungo termine e per la collettività.

La loro argomentazione ruotano attorno a tre preoccupazioni fondamentali.

In primo luogo, l’accordo incentiverà nuove catture di ostaggi. Dal 7 ottobre, Israele ha combattuto su più fronti. Hezbollah è stato sconfitto, l’Iran è stato indebolito. Solo Hamas ne uscirà proclamando a gran voce d’aver forzato la mano a Israele. Come? Catturando ostaggi.

Particolare agghiacciante, in Israele un notiziario radio di martedì dava queste due notizie una di seguito all’altra: si segnalano progressi sull’accordo per gli ostaggi, si viene a sapere che l’Iran sta intensificando gli sforzi per adescare e sequestrare israeliani all’estero.

In secondo luogo, la scarcerazione di migliaia di terroristi di Hamas, centinaia dei quali condannati per reati di sangue, porterà inevitabilmente ad altro terrorismo. E su questo, gli oppositori dell’accordo sono supportati dai dati.

Nel 1985, Israele rilasciò 1.150 detenuti di sicurezza palestinesi in cambio di tre soldati in quello che divenne noto come l’Accordo Jibril. Un paio di anni dopo, molti di quegli scarcerati svolsero un ruolo determinante nelle violenze della prima intifada.

Nel 2011, Israele rilasciò 1.027 detenuti di sicurezza, compresi terroristi che si erano macchiati di reati sangue come Yahya Sinwar, l’architetto del massacro del 7 ottobre, per ottenere la liberazione di Gilad Shalit, la cui famiglia aveva promosso per più di cinque anni una incalzante campagna emotiva per il suo rilascio. I critici si chiedono: quante vite di israeliani sono state perdute a causa di quell’accordo?

I sostenitori dell’accordo ribattono che, a differenza dell’accordo Shalit, i terroristi che verranno scarcerati in questo scambio non saranno rilasciati in Giudea e Samaria (Cisgiordania), bensì nella striscia di Gaza o espulsi in Qatar, Turchia ed Egitto. Ma, a parte il fatto che anche Sinwar venne rilasciato a Gaza, chi dice che questi altri non possano orchestrare attacchi anche da quei paesi?

L’ultima preoccupazione è che Hamas rimanga in piedi. Certo, come organizzazione militare è stata gravemente indebolita, con decine di migliaia di terroristi uccisi e i suoi arsenali di razzi e missili decimati. Tuttavia mantiene ancora il controllo delle infrastrutture civili di Gaza e in base all’accordo viene lasciata al suo posto. Secondo coloro che si oppongono a questo accordo, è solo questione di tempo perché l’organizzazione terrorista si riorganizzi e si riarmi.

In definitiva, la decisione di Israele di accettare questo accordo riflette lo straziante dilemma morale e strategico che mette in contraddizione fra loro la compassione e la cautela, il guadagno immediato e i rischi a lungo termine.

La gioia di vedere gli ostaggi riuniti alle loro famiglie sarà enorme, ma le ramificazioni strategiche riecheggeranno ben oltre questo momento.

L’etica della responsabilità reciproca di questo paese, secondo cui nessun israeliano viene mai abbandonato, si staglia in questo accordo. Ma si staglia anche il concreto pericolo di imbaldanzire e aizzare i nemici.

Il senso di sollievo nazionale, se e quando l’accordo verrà attuato, sarà reale e tangibile. Ma il vero prezzo da pagare per questo momento potrà essere valutato appieno solo tra molti anni.

(Da: Jerusalem Post, 15.1.25)

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