Stare attenti alla pagina 17 del Corriere Due articoli di propaganda anti-occidentale
Testata: Corriere della Sera Data: 07 gennaio 2025 Pagina: 17 Autore: Giusi Fasano, Francesco Battistini Titolo: «Stare attenti alla pagina 17 del Corriere»
Ecco gli articoli
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 07/01/2025, a pag. 17, con il titolo "Attentato in Cisgiordania Diffusa una lista di ostaggi Israele: risale all’estate" la cronaca di Giusi Fasano.
Giusi Fasano
Ieri la gente d’Israele ha rivissuto un frammento del 7 ottobre. Terroristi ripresi da una telecamera che scendono da un’auto e sparano a casaccio ai passanti, agli automobilisti, ai passeggeri di un autobus... Un frammento, appunto, di quello che successe esattamente quindici mesi fa.
L’attacco vicino al villaggio di Al-Funduk, lungo la Route 55 che parte da Kfar Saba, a nord di Tel Aviv, e attraversa la Cisgiordania andando in direzione di Nablus, più a est. Tre morti e otto feriti, alcuni dei quali in gravi condizioni. I terroristi erano in tre, armati di fucili d’assalto. Hanno piazzato di traverso in mezzo alla strada l’auto con cui sono arrivati sulla scena e hanno cominciato a sparare sugli automobilisti.
Rachel Cohen, 73 anni e Aliza Raiz, 70, due educatrici nel vicino insediamento di Kedumim, non hanno avuto scampo, sono state le prime a morire. Al sergente maggiore Elad Yaakov Winkelstein, 35 anni e padre di due bambini, hanno sparato da lontano mentre si avvicinava in auto e dopo aver aperto il fuoco contro un autobus di linea. Il sergente maggiore Winkelstein, agente in una stazione di polizia locale, era fuori servizio ed era con uno dei suoi figli, rimasto illeso. È il più grave fra i feriti, invece, l’autista dell’autobus, un uomo di 63 anni.
«Raggiungeremo gli spregevoli assassini e li consegneremo alla giustizia insieme a chi li ha aiutati. Nessuno sarà risparmiato», è stato il primo commento del premier Benjamin Netanyahu che ieri sera ha approvato le operazioni per catturare i terroristi (l’invio di truppe e l’utilizzo dell’aeronautica militare). Due di loro, racconta Haaretz, sono «noti all’apparato di Difesa ed erano già ricercati perché coinvolti in altri atti terroristici». Il terzo sarebbe invece da identificare.
«Un’operazione eroica di resistenza» è la definizione che Hamas sceglie per l’attacco, secondo il canale Telegram israeliano Abu Ali Express. Parole che fanno dire al ministro israeliano delle Finanze Bezalel Smotrich (estrema destra): «Al-Funduq, Nablus e Jenin devono assomigliare a Jabalia». Per capirci: Jabalia è una città palestinese a nord di Gaza oggi in gran parte rasa al suolo. Sempre Smotrich se la prende anche con l’Autorità palestinese che non ritiene affidabile per «mantenere la sicurezza dei cittadini israeliani» in Cisgiordania.
E in una mattinata già così nera si impone in tutto il Paese lo sgomento per i 100 ostaggi ancora nelle mani di Hamas. Il quotidiano saudita al-Sharq pubblica i nomi di 34 di loro sostenendo che quella è la lista data da Hamas a Israele per una prima fase di accordo sul loro rilascio e sul cessate il fuoco a Gaza. Un colpo al cuore per i familiari dei rapiti che sono sfiniti. Dall’attesa, dalle manifestazioni, dagli appelli, da un macabro balletto di notizie che un giorno porta speranza e il giorno dopo disperazione. Sfiniti, che siano o no famiglie di quella lista. Dallo staff di Netanyahu rispondono spiegando che l’elenco dei 34 non è stato dato da Hamas a Israele ma risale a luglio ed è un insieme di nomi che il governo ha fatto avere ai mediatori e rispetto ai quali Hamas avrebbe dovuto dire chi era ancora in vita e chi no, cosa che finora non ha mai fatto.
Nell’elenco compaiono i nomi della famiglia Bibas: madre, padre e due fratellini, i più piccoli fra i rapiti (avevano 4 anni l’uno e quasi dieci mesi l’altro quando furono portati via dal kibbutz Nir Oz). La madre e i due bimbi dovevano essere liberati l’anno scorso a novembre, così prevedevano gli accordi. Ma le brigate Qassam di Hamas li dichiararono «morti durante un bombardamento israeliano» (la notizia non ha mai trovato conferma). Nella lista c’è anche Liri Albag, la soldatessa diciannovenne che abbiamo visto disperata nel video diffuso dai terroristi settimana scorsa.
Le famiglie degli ostaggi chiedono che vengano liberati tutti assieme, parlano di «terrore psicologico» e «Schindler list con 66 persone dal destino predeterminato» e implorano l’aiuto di Trump che, dopo la vittoria presidenziale, ha minacciato più volte Hamas: «Liberateli o la pagherete cara».
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 07/01/2025, a pag.17, con il titolo "Zelensky: pronto a sedermi con Trump per chiudere la guerra" la cronaca di Francesco Battistini.
Francesco Battistini
Scortesie per gli ospiti. All’insediamento di Joe Biden, quattro anni fa, Volodymyr Zelensky non venne invitato più che altro per protocollo: c’era ancora in ballo il «Kievgate», lo scandalo delle telefonate di Donald Trump perché Kiev indagasse sugli affari del figlio di Biden, e insomma non era il caso che il leader ucraino comparisse in primissima fila alla Casa Bianca. Stavolta, nemmeno la forma. The Donald vuole raggiungere subito una tregua e meglio non sbilanciarsi con una stratta di mano allo «spocchioso bastardo» Zelensky, come lo definisce sprezzante il Cremlino: dunque, niente chiamate per la cerimonia del 20 gennaio. «Se Trump m’invita, verrò», dice «Ze», ma finora nessuno s’è fatto vivo e anche se «ci sono leader abituati a presentarsi senza essere stati invitati, basti vedere Putin in Ucraina, io no, non posso permettermelo: per via della guerra e delle misure di sicurezza che sarebbero necessarie». Certo, tutto cambierebbe se «Trump m’invitasse personalmente».
Tace il telefono. E certe forme diventano sostanza. Specie quando Zelensky non fa che ripetere come un Trump «forte» possa chiudere la guerra. Il leader di Kiev si premura di soprassedere sugli sgarbi e si spertica in elogi pure sul consigliere trumpiano Elon Musk, che in passato ha fornito all’Ucraina sistemi di difesa: «Troveremo un accordo e offriremo garanzie di sicurezza, assieme all’Europa, e poi potremo parlare coi russi». Dopo, non prima: «Penso che il 25 gennaio, non m’importa se è il mio compleanno, ci siederemo innanzitutto con Trump». Quanto al Cremlino, «conto davvero su di lui, ha abbastanza potere per fare pressione su Putin». In un’intervista di tre ore al podcaster americano Lex Fridman, registrata a Kiev a fine dicembre con domande in russo e risposte in ucraino, Zelensky recita la parte dell’ottimista: «Quando parlo con Trump, di persona o al telefono, i leader europei mi chiedono: “Com’è andata?”. Questo dimostra quanto conti. Questo non è mai successo con un presidente americano. E mi dà fiducia sulla fine della guerra».
Tanto ottimismo non è condiviso da tutti. Perché la controffensiva lanciata domenica nel Kursk è uno scontro feroce villaggio per villaggio. E le parole del presidente francese, Emmanuel Macron, vanno in tutt’altro senso: non ci sarà nessuna soluzione «rapida e facile» e Zelensky dovrà comunque affrontare «discussioni realistiche su questioni territoriali» che «solo gli ucraini possono condurre». La fine degli aiuti americani a Kiev è un problema che l’Ue non sa ancora affrontare, ammette l’Eliseo, ma Trump sa bene che «gli Usa non ci guadagneranno nulla se l’Ucraina perde», così come gli europei. Che cosa sia questo realismo, «Ze» lo chiarisce a stretto giro: «Se ci limitiamo a un cessate il fuoco senza capire le garanzie di sicurezza per l’Ucraina», inutile parlare della cerimonia del 20 o del negoziato del 25 gennaio, perché la risposta degli ucraini sarà sempre un «mai».
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