mercoledi` 08 gennaio 2025
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






Informazione Corretta Rassegna Stampa
07.01.2025 I prossimi obiettivi di Netanyahu
Commento di David Elber

Testata: Informazione Corretta
Data: 07 gennaio 2025
Pagina: 1
Autore: David Elber
Titolo: «I prossimi obiettivi di Netanyahu»

I prossimi obiettivi di Netanyahu
Commento di David Elber 

Il programma nucleare iraniano dovrebbe essere il prossimo obiettivo di Israele, se gli Usa di Trump saranno d'accordo. Dopo aver sconfitto Hamas e Hezbollah, le braccia del regime di Teheran in Medio Oriente, Israele dovrebbe pensare di mirare alla testa del nemico.

Con l’approssimarsi dell’insediamento, del presidente eletto Trump, alla Casa Bianca, si apre, per Israele, una finestra di opportunità per assestare un colpo decisivo all’Iran, che è motore primo della guerra iniziata il 7 ottobre 2023.

Nei mesi scorsi Israele è riuscito brillantemente a ribaltare le sorti della guerra in proprio favore: Hamas è stato ridotto ai minimi termini, Hezbollah (il vero braccio armato dell’Iran) è stato decapitato nei suoi vertici e depotenziato enormemente nelle sue capacità militari. Un altro importante alleato dell’Iran, il siriano Assad, è stato detronizzato dai ribelli jihadisti siriani, come conseguenza indiretta delle azioni militari israeliane che hanno indebolito l’Iran e tutti i suoi alleati. La caduta di Assad ha una duplice valenza per Israele: in primo luogo, ha interrotto il flusso continuo di armi che dall’Iran arrivavano in Libano per armare Hezbollah contro Israele; in secondo luogo, per volontà di Netanyahu, Israele ha compiuto una serie di fulminei e devastanti raid che hanno distrutto, quasi completamente, le capacità militari della Siria e soprattutto le sue difese aeree, così da creare un autentico corridoio per l’aviazione israeliana qualora decidesse di colpire direttamente l’Iran (i suoi siti nucleari). Questa opportunità deve essere il prossimo obiettivo militare di Netanyahu per ristabilire la deterrenza militare persa completamente da Israele dopo l’eccidio del 7 ottobre. Per poter attaccare i siti nucleari iraniani è essenziale il pieno appoggio americano, perché solo l’amministrazione Trump può garantire l’appoggio militare – fornitura di munizioni e aiuto in caso di contrattacco iraniano – oltre che l’indispensabile appoggio politico per tale azione militare. Oltre a ciò, gli USA dovranno proteggere i loro alleati nel Golfo: Arabia Saudita e EAU in primis, perché gli iraniani cercheranno, senz’altro, di attaccare le loro istallazioni petrolifere oltre che le petroliere che passano dallo stretto di Hormuz per destabilizzare il mercato mondiale del greggio.

Però il compito di Netanyahu e dello Stato maggiore non finisce qui, perché il secondo importantissimo obiettivo, deve essere quello di ricostruire l’intero apparato bellico-industriale di Israele, per rendere il paese il più possibile autosufficiente e non ricattabile dai falsi alleati. Ora vediamo come e perché.

La prima cosa emersa, dopo poche settimane di guerra, è che Israele è totalmente dipendente dagli Stati Uniti per tutti i tipi di munizione necessari alla guerra: 120 mm per i carri armati, 155 mm per l’artiglieria, missili per gli elicotteri, missili per l’Iron Dome, bombe di tutti i pesi e misure per l’aviazione. In pratica, Israele dopo poche settimane di guerra non aveva più munizioni. Per questa ragione per quasi un anno ha dovuto subire i continui attacchi di Hezbollah e degli Houti senza poter reagire in modo massiccio. Se a questo aggiungiamo il prevedibile, per quanto vergognoso, embargo militare degli europei fin dall’inizio della guerra, si può ben capire come Israele sia rimasta completamente in balia dei ricatti dell’amministrazione Biden, che ha fatto tutto quanto in suo potere, per far perdere la guerra ad Israele per puro odio ideologico nei confronti di Netanyahu. Ma come si è potuto arrivare ad una situazione del genere?

A causa di una folle quanto miope e irrealistica utopia: pace in cambio di terra, iniziata oltre 40 anni fa e imposta da Jimmy Carter e accettata da Begin. In pratica uno dei sottoprodotti di questa teoria è stato: noi (gli USA) vi finanziamo parte delle spese militari (aiuti economici a fondo perduto per acquistare armi americane) e voi vi ritirate dai territori – in cambio di una ipotetica pace – perché essi (i territori) non costituiscono più un fattore strategico come in passato. Questo perché noi (sempre gli USA) vi garantiremo le armi necessarie per compensare la profondità strategica perduta con i ritiri dai vari territori. Così, nel corso dei decenni, Israele, 1) ha smantellato progressivamente la propria industria militare, 2) è diventata totalmente dipendente dagli USA come una vera e propria colonia, 3) ha perso la profondità strategica e la sua sicurezza con i ritiri che ha effettuato a più riprese. Il risultato è sotto gli occhi di tutti e il 7 ottobre è stata solo l’ultima puntata.

Basta fare una analisi delle spese militari di Israele e degli aiuti USA per capire bene quanto è successo. Israele fino agli anni ’70 e ’80, spendeva circa il 20% del proprio PIL per l’esercito, non riceveva aiuti dagli USA ma solo linee di credito in dollari per poter acquistare (e pagare) armi americane. Progressivamente dall’Accordo di Camp David del 1979, gli USA hanno iniziato a finanziare una parte degli acquisti di armi americane da parte di Israele. Israele si è così ritirato dal Sinai. Poi è stata la volta dei fallimentari Accordi di Oslo: Israele ha ceduto l’amministrazione di parte della Giudea, della Samaria e della Striscia di Gaza, questo compensato con ulteriori aiuti americani. Poi è stata la volta del ritiro dal sud del Libano (anno 2000, voluto Ehud Barak che si sarebbe anche ritirato dal Golan…), compensato da nuovi e più ingenti aiuti americani. Poi c’è stato il ritiro completo da Gaza (anno 2005 voluto da Sharon) compensato da altri generosi aiuti USA. Così nel tempo, Israele si è trovato a spendere per la difesa, dal 20% del proprio PIL di 40 anni fa, a meno del 5% del PIL prima del 7 ottobre, riduzione, in parte, compensata dagli aiuti USA (gli aiuti USA sono contestualmente passati da circa 1 miliardo di dollari degli anni ’80 agli attuali circa 4 miliardi di dollari annui). Sicuramente questo ha portato i vari governi di Israele a impiegare tantissimi soldi per migliorare la vita dei cittadini come ogni altro Stato intento al benessere e alla pace. Ma il conto in termini di sicurezza è stato enorme: dopo il ritiro dal Libano nel 2000, infatti, è iniziato uno stillicidio di azioni terroristiche da parte di Hezbollah con lancio di razzi, missili e incursioni che ha provocato la seconda guerra del Libano nel 2006 e l’attuale guerra. Dopo aver ceduto l’amministrazione in Giudea e Samaria è iniziato un’incessante serie di attacchi terroristici che sono culminati nella seconda intifada e che è, poi, proseguita fino ai nostri giorni. Dopo il ritiro da Gaza si è visto in che cosa è stata trasformata quella terra: una base per il lancio di migliaia di razzi fino all’eccidio del 7 ottobre. Oltre a ciò, Israele ha perso la quasi totalità delle capacità di produzione industriale degli armamenti essenziali per la propria sicurezza, diventando totalmente dipendente dai ricatti americani.

Cosa può fare e deve fare Netanyahu? Prima di tutto sfruttare i 4 anni di presidenza Trump per ricostruire l’apparato bellico smantellato negli ultimi decenni. Israele, infatti, ha tutto il know how che serve per produrre tutte le munizioni di cui ha bisogno, perfino le più sofisticate, ma per far questo servono investimenti a lungo termine e diversi anni per approntare una adeguata produzione industriale. Ma va fatto ora, prima che una nuova amministrazione democratica di insedi alla Casa Bianca (per evitare ricatti prima che sia autosufficiente). Inoltre, cosa non secondaria, anche il solo aumentare progressivamente la quota di spesa per la difesa in un bilancio statale non è operazione da poco: va fatto poco alla volta, per non causare eccessi di deficit e tagli in altri settori pubblici, che potrebbero mettere in crisi il sistema-paese. Va fatto con lungimiranza, ma va fatto. Infine ci sono altre importanti ricadute.

Per prima cosa, Israele non sarebbe più uno Stato vassallo degli USA come non lo era dall’indipendenza fino agli anni ’80, quando era uno Stato molto più povero ma più attento alla propria sicurezza. Anche se per gli americani era un paese “intransigente” (Jimmy Carter). Però i fatti del 7 ottobre hanno chiaramente dimostrato che, in una guerra asimmetrica, la tecnologia sofisticata conta molto meno di alcuni chilometri di buffer zone attorno ai confini, magari minati con “antiquate” ma efficaci mine. Inoltre, rinunciare agli aiuti è anche una questione di immagine verso il mondo intero (e quello arabo in particolare), per dimostrare che Israele è in grado di difendersi da solo come in passato, oltre che non essere più ricattabile. Anche la rinuncia a 4 miliardi di dollari di aiuti deve essere fatta progressivamente e non di colpo, per non creare un eccessivo deficit, oltre a non essere in grado di autoprodurre quello che viene ora fornito dagli USA. Israele deve comprare solo ciò che non può produrre: aerei, sottomarini e navi di grandi dimensioni. Tale scelta avrà anche un duplice e diverso impatto verso i due partiti americani, quello democratico e quello repubblicano. Con il primo, finirà “l’era dei ricatti”, mentre con il secondo si metteranno a tacere alcune voci di parte dell’elettorato repubblicano, che pensa che Israele pesi ingiustamente sui contribuenti americani, alimentando così fantasie antisemite false e dure da debellare

Questo incremento di spesa si può fare nel tempo, e lo dimostra Israele stesso che, quando era molto più povero di adesso, spendeva regolarmente il 20% del proprio PIL nella difesa. È senza dubbio un compito arduo ma è in gioco la stessa sopravvivenza di Israele.

 


David Elber


takinut3@gmail.com

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT