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La Stampa Rassegna Stampa
30.12.2024 L’Impero di Putin, 25 anni di dittatura
Commento di Anna Zafesova

Testata: La Stampa
Data: 30 dicembre 2024
Pagina: 12
Autore: Anna Zafesova
Titolo: «25 anni da zar»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 30/12/2024, a pag. 12, l'analisi di Anna Zafesova dal titolo "25 anni da zar".

ad Alessandria con Anna Zafesova ...
Anna Zafesova

Putin, nel momento della successione a Boris Eltsin, il 31 dicembre 1999, pareva un leader moderato e riformatore, un sollievo dopo un decennio turbolento. E invece...

Se la Storia si potesse riavvolgere come un film, sarebbe avvincente tornare nel 31 dicembre 1999 - il giorno in cui i preparativi dei russi al cenone di Capodanno sono stati sconvolti dalla notizia che Boris Eltsin si era dimesso per cedere la poltrona a Vladimir Putin - e proiettare un filmato qualsiasi, a scelta, delle esternazioni del presidente russo degli ultimi mesi. Probabilmente sarebbe stato uno choc: innanzitutto vedere che l'uomo che il mondo aveva appena iniziato a conoscere come astro nascente del Cremlino sarebbe rimasto, un quarto di secolo dopo, ancora sulla sua poltrona, intenzionato a non lasciarla mai più. E poi, ascoltare quello che dice, quello che promette, quello di cui si vanta: il missile Oreshnik, per esempio, il suo nuovo gioco preferito, di cui decanta le potenzialità a ogni occasione, proponendo di lanciarlo su Kyiv per dimostrare che le difese antiaeree occidentali non riusciranno a intercettarlo.

C'è un abisso tra la Russia che nella notte di Capodanno ascoltava, in un misto di sollievo e stupore, il suo neopresidente, e quella di oggi. La promessa di garantire la «libertà di parola, di coscienza e dei media» oggi suonerebbe quasi come una presa in giro, l'auspicio di «democrazia e riforme» appartiene a un vocabolario politico mandato al macero. Il Putin esordiente sembrava a molti un leader prudente e razionale, applaudito per le sue riforme economiche e istituzionali, e trattato come un partner da molti colleghi internazionali. E per quanto era apparso evidente che il nuovo, all'epoca appena 47enne, presidente della Russia fosse sensibile alla retorica nazionalista e alla nostalgia sovietica, sembrava impossibile immaginarselo dopo 25 anni come un dittatore ossessionato dai missili, che sta efficacemente isolando il suo Paese dal resto del mondo in una paranoia militarista.

In mezzo tra questi due estremi, ci sono stati tanti passi, piccoli e grandi. Il primo fu la guerra in Cecenia, con le bombe su Grozny come presagio di quello che sarebbero poi diventate Aleppo e Mariupol. Fu in quei primi giorni che nacque il teorema politico più volte dimostrato in seguito: Putin beneficia sempre dalle guerre, e la guerra rimane il suo modo preferito di risolvere i problemi e affrontare gli avversari. Ci fu l'arresto degli oligarchi ribelli, con il processo a Mikhail Khodorkovsky che nel 2003 aveva segnato una rivoluzione che molti scambiarono per l'inizio di una lotta alla corruzione. In quell'occasione vennero brevettati due tratti tipici di quello che nessuno ancora chiamava "putinismo": una giustizia che non voleva nemmeno fingersi uguale per tutti, e l'affidamento dei pezzi più gustosi dell'economia nazionale agli amici del presidente. Fu così che nacque il termine di "Kremlin Corporation", e non è un caso che i dissidenti che avevano indagato la corruzione al Cremlino, come Boris Nemtsov e Alexey Navalny, sono stati uccisi.

È stata una discesa lenta verso l'abisso, sotto gli occhi di un Occidente che a volte quasi stentava a credere in quello che vedeva, come durante la guerra-lampo dell'agosto del 2008 contro la Georgia, che aveva segnato il ritorno ufficiale delle ambizioni imperiali russe nello spazio post-sovietico. A molti era sembrato un incidente di percorso, in una Russia che almeno nelle sue grandi città sembrava avviarsi a una modernizzazione che da economica, tecnologica e logistica doveva diventare inevitabilmente anche politica. Quando nell'inverno 2011, in piazza Bolotnaya, scoppiarono le proteste contro i brogli elettorali, Putin aveva reso definitivamente regola un altro tratto del suo metodo: non abbassarsi mai al negoziato con chi sfida lo zar, non concedere nulla a chi contesta, perché il potere non si divide con nessuno, e il dialogo equivale a debolezza.

L'invasione dell'Ucraina, iniziata con l'annessione della Crimea nel 2014, e proseguita con la guerra totale nel 2022, a quel punto erano forse quasi inevitabilmente iscritte nella logica di un leader che si comportava come un monarca. La Storia ovviamente non ha il condizionale, ed è vano interrogarsi su quanto il timido Putin degli esordi stesse già covando l'odio per gli ucraini e la convinzione che i problemi si risolvano meglio con le bombe. Quello che sappiamo con certezza è che mai, in questo percorso di un quarto di secolo, il dittatore russo è rimasto solo: è stata la sua promessa di «ammazzare i terroristi ceceni nel cesso» a farlo assurgere da funzionario semisconosciuto a idolo delle folle, ed è stata l'annessione della Crimea in nome della restaurazione dell'impero a portarlo al massimo dei consensi nei sondaggi. Una delle chiavi del successo di Putin è sempre stata quella di essere parte del suo popolo, con la stessa confusione ideologica che mischia la nostalgia per Stalin e per gli zar, con lo stesso orgoglio nazionalista alimentato da un profondo risentimento verso l'Europa, sognata quanto incomprensibile, con la spregiudicatezza verso le regole caratteristica degli orfani delle dittature. Sentimenti che Putin ha alimentato, e di cui si è alimentato. Avrebbe potuto entrare nella storia come modernizzatore della Russia postcomunista, e invece lascerà, un giorno, un Paese molto più lontano dall'Europa di quello che aveva raccolto, 25 anni fa.

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