I timori di un Papa e gli insegnamenti di Gesù. Una riflessione laica Commento di Daniela Santus
Testata: Setteottobre Data: 02 dicembre 2024 Pagina: 1 Autore: Daniela Santus Titolo: «I timori di un Papa e gli insegnamenti di Gesù. Una riflessione laica»
I timori di un Papa e gli insegnamenti di Gesù. Una riflessione laica Commento di Daniela Santus
Daniela Santus
Il quotidiano La Stampa ci ha offerto giorni fa un’anteprima del volume “La speranza non delude mai. Pellegrini verso un mondo migliore” di Papa Francesco. Il testo, pensato per il Giubileo 2025, è già in libreria. Non ho esitato ad acquistarlo. Nelle sue pagine, il Pontefice parla di tutto: dalla denatalità alle migrazioni, dalla violenza sulle donne alla guerra e al “genocidio” a Gaza. A tratti lascia l’amaro in bocca. Sul presunto genocidio già tanto si è detto, basti ricordare – come suggerisce Volli, dati alla mano – che la popolazione palestinese residente secondo gli uffici statistici dello “Stato di Palestina” era di 5.483.000 persone nel 2023, delle quali circa 1,8 milioni a Gaza con una crescita annua intorno al 3,3% (180.000 persone), che non è diminuita quest’anno. “Secondo i numeri di Hamas in tredici mesi di guerra sono morte 43.000 persone (ma Israele contesta queste cifre e l’ONU dice di averne potuto accertare solo 8500). Si tratterebbe comunque di meno dell’un per cento della popolazione, un quarto della crescita demografica annuale” (Volli, La Stampa, 19.11.2024). Tuttavia il Papa pare non avere dimestichezza con i numeri e le percentuali: di fatto scrive come un politico in perenne campagna elettorale, non come uno scienziato, forse neanche come un uomo di fede. Trattando della violenza sulle donne, ad esempio, ben lungi dal citare quella di Hamas, dei Talebani o del mondo arabo in generale, punta il suo indice contro l’Occidente e offre una sorta di velata e ingenua comprensione per quella perpetrata in tempo di guerra. “Il problema – afferma Bergoglio (p. 50) – è che se proprio nei Paesi del cosiddetto «primo mondo» ad alto tasso di sviluppo economico si registrano i picchi più alti delle violenze e dei femminicidi, come si può pretendere che la follia della guerra non sia usata come scusa per continuare a disprezzare la dignità femminile?” Proprio così, per Papa Francesco i più alti picchi di violenza contro le donne si registrano in Occidente. Che abbia mai sentito parlare del Pakistan, giusto per non fare che un esempio, e dei famigerati “roghi delle mogli”? In quest’area, non certo ascrivibile al “primo mondo”, le donne vengono bruciate vive col kerosene adoperato per le stufe, in modo da simulare un incidente domestico. Non una parola di pietà per queste povere creature. Inoltre, come dovrebbe essere noto, non è semplice per una donna, che viva nei Paesi governati dall’islam fondamentalista, denunciare le violenze sessuali, ma questo non significa che non esistano. Anzi. Purtroppo una denuncia implica molto spesso la condanna alla fustigazione della stessa donna, con la colpa di fornicazione. Vogliamo parlare di Afghanistan, di Sudan, di Iran, dello Yemen, del Bahrein, di Gaza?
Il Pontefice riflette poi, tra le tante tematiche, anche sul problema dell’esaurimento delle risorse, cogliendo l’occasione del Giubileo per spiegare ai lettori come questo sia nato e come sia correlato alla questione delle risorse della Terra. Quello che tuttavia colpisce è una sorta di timore del Papa nel nominare il popolo ebraico. Infatti Bergoglio presenta il Giubileo come un precetto dato al “popolo di Dio”, invitato a “riposarsi dal lavoro abituale, per consentire alla Terra di rigenerarsi e al mondo di riorganizzarsi, grazie al declino dai consumi abituali” (p. 160). Viene citato il Levitico, uno dei testi della Torah, ma al lettore comune non è dato sapere quale fosse il popolo di Dio. Ci dice il Pontefice che siamo chiamati a “adottare stili di vita equi e sostenibili che diano alla Terra il riposo che merita, nonché i mezzi di sussistenza sufficienti per tutti che non distruggano gli ecosistemi che ci sostengono” (p. 160). In altre parole Bergoglio presenta, senza nominarlo, il precetto ebraico del Tikkun Olam, ovvero della responsabilità degli esseri umani di mantenere il mondo così come lo hanno ricevuto in dono da Dio. Per certo al Papa non sarà sfuggita la tradizione ebraica della shemittah, l’anno sabbatico del ciclo agricolo, ancora tutt’oggi osservato in Israele, purtroppo però di questo non c’è traccia nel volume. Eppure si tratta di un precetto talmente importante da essere citato nell’Esodo, nel Levitico, nel Deuteronomio, in Geremia, in Neemia, nelle Cronache, nel libro dei Re. È un precetto che fa parte della legge ebraica, quella stessa che l’ebreo Gesù, di cui ci stiamo preparando a festeggiare la nascita, aveva osservato dicendo ai suoi: “Non pensate che io sia venuto per abolire la legge o i profeti; io sono venuto non per abolire, ma per portare a compimento” (Mt. 5, 17-20).
Seguendo la convinzione centrale del libro della Genesi, secondo cui l’umanità era destinata a essere amministratrice e custode delle creature minori, nell’antico Israele si osservavano rigorosamente precetti volti alla protezione di animali e di piante; particolare cura era anche riservata all’uso dell’acqua e della terra: era ad esempio vietato mettere la museruola al bue usato per trebbiare il grano, isolare la propria fattoria allontanando i vicini, esaurire o sporcare l’acqua corrente. Ogni sette anni c’era, appunto, la shemittah: l’anno sabbatico in cui la terra veniva lasciata a maggese (incolta) e i debiti venivano cancellati. Le persone avevano il compito di guadagnarsi il pane con il duro lavoro e il cibo doveva essere conservato per gli anni di magra e per le necessità dei bisognosi. Era infatti la comunità a prendersi cura delle vedove, degli orfani e dei disabili con tutto il surplus locale che era possibile generare. Anche le piante avevano una dimensione vitale e sacra. Il calendario ebraico è ancora oggi un calendario lunare che ruota attorno a feste di natura spiccatamente agricola: pensiamo a Tu-Bishvat (il Capodanno degli alberi), a Shavuot (la festa della mietitura) e a Sukkot (la festa del raccolto e delle capanne).
Ecologia, natura e in un certo qual senso persino ambientalismo sono termini che possono trovare una loro collocazione in un discorso legato al modo di rapportarsi degli ebrei dell’antichità alla Terra d’Israele che, mi spiace per quanti ritengono che Gesù fosse palestinese, non si chiamava Palestina. Non si chiamerà Palestina sino al 135 d.C. quando così decise un Imperatore romano: l’Imperatore Adriano. E non era terra islamica, in quanto l’islam nascerà soltanto nel VII secolo dopo Cristo. Questo nonostante Papa Francesco abbia in un certo qual senso, vista la sua importanza per il mondo cristiano-cattolico, contribuito ad alimentare il dubbio. E non soltanto da oggi. Basti pensare alla famosa Messa, celebrata in mondovisione il giorno di Natale del 2014 nella Piazza della Mangiatoia di Betlemme, di fronte a un quadro enorme in cui era raffigurato un presepe con Giuseppe che indossava la kefiah sul capo e Gesù bambino a sua volta avvolto da una kefiah che fungeva da lenzuolo.
Come provare stupore, poi, se il popolo propal – tra i quali si annoverano anche tanti cristiani – s’indigna quando scopre che i protagonisti di una serie Netflix su Maria, madre di Gesù, sono ebrei israeliani? Sono furiosi per una presunta versione suprematista del testo sacro, un testo che varrebbe la pena leggere, se non altro per non dire sciocchezze: narra infatti la storia del popolo ebraico e quella di un maestro ebreo messo in croce dagli occupanti romani della Terra d’Israele. Un leader carismatico galileo, nato in Giudea (la Palestina, repetita iuvant, ancora non esisteva), che si spostava di villaggio in villaggio, con alcuni seguaci, predicando un messaggio di pace e amore e, come altri leader carismatici dell’epoca, compiendo miracoli. Non dissimilmente da un altro maestro carismatico e taumaturgo dell’epoca, rav Hanina Ben Dosa. Purtroppo l’ignoranza, i non detti, la paura, i sottintesi possono creare danni. Non sempre lisciare il pelo a chi pensiamo sia il più forte si rivela strategico per la libertà e la vita. Non sempre la sottomissione che deriva dal presentare Gesù nella mangiatoia, ricoperto da una kefiah, è in grado di garantire la pace. Al più, genera confusione.
Mi si permetta pertanto una riflessione laica su Gesù. Molti sono i testi che narrano della sua vita, tra i tanti ce n’è uno che ho amato particolarmente e che consiglio: “Fratello Gesù” di Shalom Ben-Chorin (edito da Morcelliana). Dalle riflessioni dell’Autore emerge infatti un interessante quadro che dipinge Gesù come un dottore della legge del suo tempo, un tannaita, fortemente ispirato dall’esigenza di interiorizzare nell’uomo la legge, di cui l’amore è considerato l’elemento principale. È infatti inesatto paragonare ebraismo e cristianesimo ponendo il precetto dell’amore verso il prossimo come principio di demarcazione tra le due fedi. O per lo meno, se lo si fa, è necessario partire da basi intellettualmente non viziate dal pregiudizio. Dire che l’ebraismo è una religione vendicativa è semplicemente falso, sarebbe come accusare lo stesso Gesù per il semplice fatto di aver scacciato i mercanti dal Tempio.
Per comprendere le parole del maestro di Nazareth dobbiamo sapere che l’ebraismo a quei tempi era soprattutto contraddistinto dall’insegnamento dei farisei, i quali si suddividevano in due grandi scuole: quella di rav Hillel e quella di rav Shammaj. Hillel interpretava la Bibbia in modo più accogliente, mentre Shammaj seguiva un’interpretazione più rigorosa. È proprio alla scuola di Hillel che si deve una particolare attenzione al precetto dell’amore per il prossimo che già compare nella Bibbia ebraica, in Levitico 19:18. È noto infatti il midrash in cui si narra che un pagano avesse chiesto di poter entrare nell’ebraismo senza impiegare, per lo studio, più tempo di quello in cui si può resistere stando su un piede solo. Shammaj lo cacciò, mentre Hillel gli presentò un unico comandamento: “ama il prossimo tuo come te stesso e non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te”. Hillel, che era nato nel 60 a.C. a Babilonia, muore nel 7 d.C. a Gerusalemme: Gesù non avrebbe potuto non conoscere, almeno per tradizione orale, il suo pensiero.
Di fatto, come sappiamo, l’ebraismo ai tempi di Gesù non era omogeneo e non si limitava alle suddivisioni tra Hillel e Shammaj, comunque entrambi farisei. Tra i tanti gruppi, abbiamo tutti sentito nominare almeno i sadducei e gli zeloti. Tuttavia il Nuovo Testamento si concentra soprattutto sui farisei e lo fa in ottica esclusivamente negativa. La degenerazione, che è ciò che denuncia Gesù, consisteva forse nel pensare di poter rinchiudere il credente in una corazza di precetti: al giorno d’oggi sono 613 quelli che deve seguire l’ebreo religioso. D’altra parte Gesù, come dimostra la storia di Hillel, era molto più vicino alla scuola dei farisei che non a quella dei sadducei che negavano la resurrezione dei morti e costituivano la classe aristocratica, o degli zeloti che si ribellavano in armi contro l’occupazione romana.
I farisei stessi non erano esenti da autocritica. Nel Talmud, ad esempio, si parla di sette tipi di farisei: il fariseo-spalla, che mostra sopra di sé la propria devozione, il fariseo-spigolatura, che ritiene che rimanga sempre ancora un comandamento da adempiere, il fariseo-compensazione, che fa il conto delle azioni buone e cattive, il fariseo-parsimonia che si vanta di risparmiare per poter compiere opere buone, il fariseo-colpa, che sfida la gente a indicargli i peccati da lui commessi, ma anche il fariseo che fa il bene nel timore di Dio, come Giobbe, e il fariseo che fa il bene per amore di Dio come Abramo. Le critiche di Gesù alla rigidità di alcuni farisei relativamente al rispetto delle regole vanno perciò lette in quest’ottica.
Se tuttavia cerchiamo una prova incontrovertibile dell’ebraicità di Gesù, che mai ebbe intenzione di abbandonare la sua fede o di crearne un’altra, ci basti rileggere la preghiera che insegnò ai suoi discepoli. Come già ebbe modo di dire Bultmann: “la specificità del Padre Nostro rispetto alle preghiere ebraiche non consiste in una presunta particolare originalità della sua formulazione e del suo contenuto. Al contrario, tutte le richieste hanno i loro paralleli in preghiere ebraiche” (1954, trad it. Nuovo Testamento e Mitologia. Il manifesto della demitizzazione, Queriniana, 1971). E questo è vero sin dall’incipit: ‘Padre nostro che sei nei cieli’, Abbinu she-ba-shamajim, è un’invocazione tipicamente ebraica che si ritrova anche alla fine di due trattati della Mishnah. La formula ‘sia santificato il tuo nome’ corrisponde alla preghiera sinagogale del Qaddish; come anche ‘venga il tuo regno. Sia fatta la tua volontà, così sulla Terra come nel Cielo’ fa riferimento al Qaddish. Come ci suggerisce Ben Chorin: “l’attesa di Gesù non era di carattere puramente trascendente, si attendeva piuttosto che la trascendenza irrompesse nel nostro terreno mondo di uomini. L’ebraismo non ha mai nutrito alcuna speranza in un aldilà (…) Il regno dei cieli venga su questa terra, e quindi sia fatta su di essa la volontà di Dio, come già ora è fatta nei cieli”. ‘Dacci oggi li nostro pane quotidiano’ è forse l’espressione che meglio allinea il pensiero di Gesù a quello di alcuni maestri farisei dell’epoca, i quali ritenevano importante rifiutare l’accumulo di beni materiali e pensavano fossero sufficienti, per poter restare in vita, pane, acqua e sale. Dagli insegnamenti talmudici deriva poi la frase ‘rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori’, infatti nell’ebraismo c’è la convinzione secondo cui Dio perdona solo coloro i quali hanno perdonato. ‘E non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male’, la prima parte della richiesta è la stessa che si trova nella preghiera sinagogale quotidiana mattutina.
Non intendo tediare chi è giunto sin qui nella lettura, in un’epoca dove solitamente ciò che si riesce a leggere non supera le tre righe. Tuttavia permettetemi ancora una riflessione cui tengo molto: Gesù è nato, è vissuto ed è morto da ebreo. Ma nel momento in cui, dopo la morte, il suo messaggio ha superato i confini della Terra d’Israele e si è propagato tra i pagani, la legge che egli stesso aveva messo in pratica e insegnato, viene gradualmente abbandonata: nasce il cristianesimo, la cui vocazione non è più soltanto nazionale, ma universalista. I cristiani cessano di essere una congregazione interna all’ebraismo e, così facendo, riescono a trasformarsi in una comunità aperta cui, potenzialmente, tutti possono aderire senza l’obbligo e il peso dei precetti della legge. La Chiesa delle origini abbandona le regole alimentari (kosheruth), la circoncisione (brit milah), lo shabbat, il kippur e le feste ebraiche. A partire dal Quarto secolo si comincia col festeggiare il Natale, mentre la Pasqua assume, a partire dalla metà del Secondo secolo, un nuovo significato: non più il ricordo dell’uscita degli ebrei dall’Egitto, ma la risurrezione di Cristo. Nel frattempo erano nati i Vangeli: il più antico, quello di Marco, scritto tra il 70 e il 72 d.C., ovvero 40 anni dopo la crocifissione, poi quello di Luca, sorto attorno all’85, quindi quello di Matteo, datato attorno al 90 e infine il più recente, quello di Giovanni, redatto attorno al 110. Gerusalemme era caduta e gli evangelisti si rivolgevano a proseliti di origine ellenistica e a cittadini romani. Appare quindi naturale che cercassero di prendere le distanze dagli ebrei, un popolo odiato da Roma. Pian piano, nel corso dei secoli, l’ebreo Gesù viene sostituito dal Cristo, per la fede cristiana ‘vero uomo e vero Dio’ il cui corpo e sangue – a partire dal Nono secolo – saranno ritenuti presenti nell’Eucaristia. La Terra d’Israele viene chiamata Palestina e gli ebrei, disprezzati e odiati, vengono trasformati in deicidi, nemici, cospiratori, avvelenatori di pozzi. L’accusa del sangue tornerà periodicamente a servire come scusa per attaccare gli ebrei, a partire dal Medioevo cristiano sino alla Germania nazista e, oggi, attraverso la propaganda del mondo arabo-islamico e addirittura quella dei complottisti sul web. Certo, da parte del mondo cristiano qualche passo di riavvicinamento e autocritica, soprattutto all’indomani della Shoah, è stato timidamente compiuto, a partire dal Concilio Vaticano II e sino alle parole forti di Papa Giovanni Paolo II, che non aveva esitato nel definire gli ebrei come “fratelli maggiori”. Eppure da alcuni anni, complice anche il rafforzarsi dell’espansionismo islamico, sembra di assistere a un ritorno al passato: per l’islam infatti, nonostante si tratti di una fede che vede la sua origine nel Settimo secolo d.C., Gesù è un profeta musulmano. E papa Bergoglio ne avvalora la valenza politica recitando, come s’è detto più sopra, la messa di Natale dinanzi a un quadro che vede Gesù e Giuseppe con la kefiah palestinese.
Oggi, a poco più di un anno dal massacro del 7 Ottobre, l’ebreo Gesù, che si sentiva mandato “solamente alle pecore sperdute della casa d’Israele” (Mt. 15: 24-25) sarebbe considerato un razzista e un sionista. Per certo boicottato dagli studenti nelle Università.
Come ancora riflette Ben Chorin: “Il Gesù sofferente e morente, irriso sulla croce, non è forse divenuto simbolico per il suo popolo intero, il quale, frustato a sangue, è stato continuamente appeso alla croce dell’odio antisemita?” Combattere l’antisemitismo al giorno d’oggi è sempre più difficile: chi lo fa, come sta cercando di fare la Germania (che ben conosce gli esiti nefasti di quell’odio, se sottovalutato e lasciato libero di produrre metastasi nella società) viene accusato di sfruttare il ‘panico morale’ per impedire e, anzi, criminalizzare le critiche allo Stato d’Israele. Siamo allo stravolgimento della realtà.
“Ciò che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, lo avete fatto a me” (Mt. 25:45) avrebbe forse risposto l’ebreo Gesù a chi gli avesse detto che rapire Ariel e Kfir Bibas è un gesto rivoluzionario e partigiano. Tristemente anche oggi, i moderni Ponzio Pilato lo condannerebbero alla croce.