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Newsletter di Giulio Meotti Rassegna Stampa
06.11.2024 Trump ha vinto
Newsletter di Giulio Meotti

Testata: Newsletter di Giulio Meotti
Data: 06 novembre 2024
Pagina: 1/12
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «Comunque vada, Trump ha già vinto»

Riprendiamo il commento di Giulio Meotti, dalla sua newsletter, dal titolo: "Comunque vada, Trump ha già vinto".


Giulio Meotti

Donald Trump ha vinto le elezioni e torna alla Casa Bianca per un secondo mandato non consecutivo. In questo articolo, profetico, scritto il giorno prima che uscissero i risultati, Giulio Meotti ci spiega perché Trump avesse già vinto a prescindere. 

Domani conosceremo il nome del nuovo presidente degli Stati Uniti. La politica è diventata fanatica: i fan di Donald non riescono a immaginare che si possa votare Kamala e le groupie di Harris che si possa fare altrettanto con Trump.

Se fossi americano voterei Trump senza trasporto trumpiano, ma per le stesse motivazioni elencate oggi da Ayaan Hirsi Ali, che non è certo una suprematista bianca (è una somala scappata da un matrimonio combinato), ma è la donna più coraggiosa e intelligente che scriva sui giornali.

Intanto il New York Times pubblica l’articolo che spiega perché, comunque vada, Donald Trump ha già vinto.

Jeremy Peters, reporter del quotidiano newyorchese, firma un articolo intitolato “In Shift from 2020, Identity Politics Loses Its Grip on the Country”.

I Democratici avrebbero potuto continuare a vivere nell’inganno, anzi nell’autoinganno, agitando lo spettro dell’apocalisse democratica. Invece, per provare a vincere, hanno archiviato il progressismo folle e woke dell’ala sinistra del Partito che ha ceduto alle modalità ideologiche più eccentriche del nostro tempo: ideologia transgender, promozione della censura sui social, appello a non finanziare più la polizia, antisemitismo, razzismo segregazionista, depenalizzazione di alcuni tipi di furto, apertura delle frontiere agli immigrati clandestini, divieto di richiedere un documento d'identità per votare (in un paese in cui è necessario esibire un documento per poter acquistare la birra).

Peters del New York Times osserva che ora Kamala Harris si vanta persino di proteggere la sua casa con una Glock. Ha confessato di possedere un’arma.

Chi conosce un po’ di storia americana non si sorprende.

I presidenti Lyndon Johnson, Jimmy Carter e Bill Clinton erano tutti democratici e tutti cacciatori molto aperti riguardo al possesso di un’arma. Prima di essere eletto presidente, Harry Truman posò tenendo in mano due pistole che appartenevano a Jesse James. Poi arriva Barack Obama, che dichiarò allegramente sulla CNN di non aver mai posseduto un’arma, prendendo così le distanze dai liberal possessori di armi e una nuova generazione di giovani elettori ha assimilato con compiacenza l’idea che possedere un'arma sia una sorta di anatema morale.

“La dichiarazione di Harris sul possesso di una pistola è il passo più drammaticamente simbolico che sta facendo verso il modo in cui le persone vivono piuttosto che verso come dovrebbero vivere” scrive Lee Siegel.

Lo stesso vale per il Green New Deal.

Da sostenitrice delle follie verdi, Kamala è passata a sostenere le trivellazioni petrolifere in America. Si rivolge a quell’America che vuole ancora “fare” delle cose.

Durante la campagna elettorale, Harris ha anche “ricordato agli elettori gli spacciatori di droga che ha messo in prigione” quando era procuratore in California. Niente più richieste di definanziamento della polizia e di decriminalizzazione degli attraversamenti della frontiera.

A differenza di quando si è presentata alla CNN declamando i suoi pronomi “she, her and hers”, oggi Harris “cambia argomento quando le viene chiesto” e glissa se farebbe pagare ai contribuenti il ​​conto per le operazioni di cambio di sesso per migranti e detenuti.

Uno degli slogan più efficaci di Trump è stato “Kamala Harris is for they/them; Trump is for you”.

Il giornalista del Times osserva che le grandi aziende, notoriamente riserve di denaro per i Democratici, escono dalle politiche di “diversità, equità e inclusione” (DEI), complice anche la fine ingloriosa del Black Lives Matter fra ruberie e regalie.

E poi c’è la questione immigrazione, che come scrive Batya Ungar-Sargon è la questione decisiva delle elezioni: “L’immigrazione separa l'élite americana, i consumatori di manodopera a basso salario, dalla classe operaia, con cui gli immigrati clandestini competono per i lavori. Il 20 percento più ricco, che svolge lavori nel settore della conoscenza che richiedono la padronanza della lingua inglese e lo status conferito da una laurea, non subisce alcuna pressione dall'immigrazione poco qualificata, ma trae vantaggio dalla sostituzione dei propri concittadini senza credenziali con manodopera molto più economica”.

E così dopo che per anni Kamala Harris si era vantava di “non aver mai messo piede al confine”, Trump l’ha costretta ad andare al muro con il Messico e promettere la stretta migratoria.

Le elezioni non si vincono su Marte, un mondo senza frontiere, ma sulla terra, dove i confini segnano le civiltà.

Molti elettori indecisi americani capiscono che l’apertura del confine meridionale del paese è stata causata da azioni concrete sollecitate dall’ala attivista per gli immigrati della ‘giunta’ di Biden e intraprese tramite ordine esecutivo nei primissimi giorni dell’Amministrazione nel 2021” scrive Christopher Caldwell su Unherd. “Ma la maggior parte degli americani non aveva idea, finché Trump non ha iniziato a parlare di mangiare cani e gatti, che ci fossero così tanti posti come Springfield, Ohio, una città industriale in declino di 58.000 persone che ha accolto 12.000-15.000 haitiani nell’ultimo anno o giù di lì. Sembra un problema di ‘minoranza’, ma come hanno scoperto i tedeschi dopo l’invito di Angela Merkel ai rifugiati della guerra siriana nel 2015, questi nuovi arrivati sono sproporzionatamente giovani e maschi. Possono diventare la maggioranza negli spazi pubblici durante l’orario di lavoro. Possono finire per dettare legge. Ciò non significa che siano violenti o maleducati. Hanno semplicemente la forza che i gruppi coesi di uomini possiedono naturalmente nel fiore degli anni. Molti dei nuovi arrivati a Springfield hanno sussidi per l’affitto e buoni pasto e gli Stati Uniti sono un pesante carapace di diritti e protezioni che derivano dalla legge sui diritti civili. Quando si inietta una popolazione di 15.000 persone sovvenzionata a livello federale in una piccola città che non ha visto nuove costruzioni di alloggi per molti anni, gli affitti dei nativi vanno alle stelle. I lavoratori americani hanno ragione di temere la concorrenza di lavoratori che si sono formati in un paese in cui il reddito pro capite è di appena 1.600 dollari. In tali circostanze, gli spettatori assediati del dibattito Trump-Harris avrebbero potuto benissimo preferire il ragazzo che balbettava e diventava rosso al solo pensiero di Springfield alla donna che leggeva le sue battute e manteneva la calma”.

Da anni emerge un’America spaccata letteralmente a metà. Da un lato, l’America urbana e liberal (27 delle 30 principali città americane sono solidamente Dem). Dall’altro, l’America delle periferie. La prima crede nell’uguaglianza. La seconda nella libertà. La vecchia distinzione fra gli “anywhere”, che potrebbero vivere ovunque, i “somewhere”, che vivono da qualche parte e che si fanno domande: il mio paese andrà in rovina? Avrò abbastanza carburante? Che vita avranno i miei figli? Sapremo difenderci? Gli oligarchi della tecnologia, gli accademici e le “persone intelligenti” non li capiscono o li considerano “deplorevoli”. C’è l’America che vuole alte tasse, egualitarismo ed ecologismo, essere non solo ricchi, ma “migliori”. E poi c’è l’America rauca, ruvida, dove l’ascensore sociale si è rotto, delle “steel town” della Pennsylvania dove ci si gioca la presidenza, delle fabbriche e delle famiglie che non vogliono che lo stato dica loro come devono vivere o quale bagno usare. Non accettano la soluzione approntata per loro dalle élite: l’oblio.

Ai Democratici non basta il voto delle donne istruite: vincono soltanto se conquistano un pezzo di quest’America.

E Harris ce la stava mettendo tutta quando il senile Joe Biden ha definito gli elettori di Trump “garbage”: spazzatura. Così Trump si è messo una pettorina arancione salendo su un camion per rifiuti. Trump non risparmia la candidata democratica, definendola “pazza” o addirittura una “persona stupida”. “Sta bevendo? È sotto l’effetto di qualche sostanza?”, ha detto durante un comizio. Il suo umorismo delizia alcuni, ma rimane controproducente per i più.

In queste elezioni termini ridicoli come “Latinx” non sono più usati come riferimenti ai latinoamericani neanche dai Democratici. I Latinos non si sentono “neutri” e i Democratici non vogliono sembrare lo svitato che lotta per il politically correct. Complice poi il fatto che questi storici elettori democratici stanno emigrando verso i Repubblicani, racconta il New York Times. “Gli elettori ispanici, alienati da etichette e motti progressisti come Latinx, si sono spostati a destra”. Il Pew Research ha rivelato che solo il 3 per cento degli ispanici usa il termine, contro il 9 per cento dei liberal bianchi.

Nessuno ricorda più Jill Biden, che li chiamava Latinx e li paragonava ai tacos?

“Ciò che sembra essere cambiato... è che ora le persone stanno riconoscendo che le soluzioni progressiste incentrate sull'identità non sono mai state popolari”, ha scritto il New York Times. L’Economist titola sul “declino del woke”.

Aveva scritto sul New York Magazine Jonathan Chait, saggista che fra i primi aveva suonato l’allarme sulla “sinistra illiberale”, che “gergo impenetrabile, sessioni di scuse forzate inquietanti, licenziamenti assurdi, slogan come Black Lives Matter, Green Transition, le donne trans sono donne, 1619, Defund the Police” sono andati troppo oltre. E in un paese dove il ripudio ha preso piede in tutta la cultura, portando le amministrazioni a demolire le statue, i college a rinominare gli edifici, gli editori a censurare e a riscrivere i libri, ci mancavano soltanto gli slogan inneggianti a Hamas.

Per questo Newsweek spiega che “Donald Trump ha già ribaltato la discussione sulle guerre culturali”.

Il voltafaccia più completo che abbiamo visto nella politica americana recente.

Durante la Rivoluzione Francese, Kamala sarebbe partita come la compagna di viaggio di Robespierre, il giacobino tagliateste, ma ora è felice di seguire la reazione termidoriana che lo ha rovesciato. Il progressismo da serra dei campus universitari non poteva essere esportato nel paese.

E così la parola “woke” rischia di finire come “Defund the Police”, lo slogan già scaricato nel “buco della memoria” di 1984 di George Orwell dopo che le città americane che l’hanno messo in pratica sono state crivellate di proiettili e gli obitori riempiti di cadaveri.

Ma visto che sono nati anche i “musei woke” e la “scienza woke”, il voltafaccia politico elettorale non suggerisce affatto che le assurdità ideologiche siano in via di estinzione. Sono dominanti nel mondo accademico, nei media, nelle burocrazie e in altre istituzioni d’élite e, se vincesse, Harris potrebbe ancora perseguirle. Basta vedere la quantità di pronomi che offre per la sua campagna elettorale.

Harris non ha grandi istinti politici, eppure anche lei ha capito che nessun americano sano di mente vuole vivere in un paese senza frontiere, dove si dislocano tutte le industrie in Cina, dove Greta Thunberg decide la politica energetica, dove al criminale con un’arma si risponde con un emoji, dove si toglie la libertà di parola al popolo se non segue i diktat dei media, dove il colore della pelle cancella il merito, dove puoi scegliere fra nove tipi di pronomi come si fa con i gusti di un gelato, dove le grandi università si trasformano in centri sociali a favore dei terroristi islamici, dove all’Onu si affida la guida degli affari internazionali e dove si alza bandiera bianca ai nemici dell’Occidente.

Non mi fido di Kamala Schlein, ma al di là di come finisca è stato pur sempre uno strano spettacolo vederli tornare sulla terra per inseguire i cattivi sul loro terreno.


giuliomeotti@hotmail.com

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