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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
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E il superstite si sfoga sparando al poligono

Testata: Corriere della Sera
Data: 00 0000
Pagina: 1
Autore: Francesco Battistini
Titolo: «E il superstite si sfoga sparando al poligono»
E il superstite si sfoga sparando al poligono

DAL NOSTRO INVIATO
GERUSALEMME - Memoshe Hamo è furioso. Abita con la moglie e tre figlie in uno sporco scantinato di due stanze a Neveyakov, ebreo in un quartiere d'arabi. Ha un cagnetto spelacchiato e vecchio di vent'anni, Rocky, che ringhia ai vicini. Sette anni fa, prese l'autobus 26 assieme a un kamikaze: otto morti, 109 feriti. Salvò la pelle, ma solo quella: a 48 anni, Memoshe sembra un sessantenne. Ha perso il lavoro d'impiegato comunale, si regge su una stampella, è diventato sordo all'orecchio destro, marcia a cinquanta pillole al giorno contro l'asma, il diabete, l'ipertensione, l'insonnia. E deve stordirsi di morfina per reggere i chili di ferro e di viti che ha nella gamba, sette anni d'infezioni all'anca. Memoshe vive con la pensione mensile di 500 euro, ha un fratello che l'aiuta. Qualche volta, salta i pasti e rinuncia a una medicina. C'è una spesa che non si fa mai mancare, però: i 50 euro che gli servono per sparare al poligono di Krav, la sua Beretta calibro 9 puntata su sagome di cartone che hanno le facce dei palestinesi. Mostra un target, cinque buchi al cuore: «Lo faccio per scaricare la rabbia - dice -, me l'ha consigliato anche lo psicologo». Non è solo la rabbia. Memoshe è uno dei 650 sopravvissuti che hanno deciso d'armarsi dopo gli attentati. «Organizzazione vittime del terrorismo arabo», si chiamano. Gente pronta a far da sé: «Un tempo avevo molti amici palestinesi. Facevo affari con loro. Oggi non mi fido più. Non ho mai visto Gerusalemme ridotta così. Anche le mie figlie stanno crescendo nell'odio per gli arabi. Io provavo a educarle alla convivenza. Ora vedono che il padre non può lavorare, che siamo diventati sempre più poveri, che è un problema comprare un paio di scarpe. L'anno scorso ci fu un attentato qui vicino, otto israeliani morti. Il giorno dopo, scoppiò una bombola di gas in una casa d'arabi. Era soltanto un incidente. Ma la più piccola, che ha 12 anni, disse: «Gli sta bene». Le nuove generazioni ormai non possono essere recuperate. La guerra è il loro futuro». Dall'inizio dell'Intifada, 60 mila israeliani hanno ottenuto il porto d'armi. Tre giorni fa, dal ministero per gli Affari religiosi è arrivata una sofferta concessione, sentito il parere delle autorità ebraiche: dentro la sinagoga si possono portare anche la pistola e il telefonino, l'una per difendersi e l'altro per chiamare le ambulanze. Ad Afula, poco lontano dall'autobus esploso l'altro ieri, popolarissimo è Michel Elharrar, il papà d'una ragazza uccisa nel 1994 che ha fondato l'associazione Yad Maya, «in ricordo di Maya»: sessanta volontari armati che sparano pure loro sulle sagome con la keffiah di Al Aqsa e simpatizzano per il rabbino Israel Rozen, quello che a Betlemme giustifica il terrorismo antipalestinese contro «l'impotenza» di Sharon. Tanti grilletti facili, Memoshe li conosce e li capisce: «Quando sento alla radio che c'è stato un kamikaze, se è vicino corro a vedere. Vado e piango, ogni volta. Rivivo sempre il mio pomeriggio alla fermata del bus di Ramateshkol, il 26 maggio 1995: l'esplosione fu nei sedili davanti, io ero in fondo, fui centrato in pieno dal tronco mozzato del kamikaze. Quella faccia la rivedo la notte, ore e ore senza prendere sonno. In tivù guardo tutto, registro ogni attentato. Ricordare mi fa bene. Serve a nutrire il mio odio». Immigrato dal Kurdistan, sposato a una georgiana, Memoshe tiene d'occhio i vicini arabi e non accetta paragoni: «Nella mia strada, abita solo gente che riga dritto. Ma, tutt'intorno, siamo circondati. Ci dicono: siete occupanti, andatevene. Ma quando le nostre famiglie sono venute qui, dalla Turchia o dalla Georgia, fu perché le cacciarono. Noi avevamo proprietà, terre più estese di questo quartiere. Adesso abbiamo uno scantinato. E dobbiamo andarcene anche da qui?».


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