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La Stampa Rassegna Stampa
31.08.2003 Ritratto di un dittatore
che non molla la presa

Testata: La Stampa
Data: 31 agosto 2003
Pagina: 4
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Arafat è ridiventato l'arbitro della pace»
Ecco un ritratto di un dittatore che non vuole lasciare il potere. A differenza di Saddam Hussein, Arafat resiste, con la complicità europea e non solo. Fiamma Nirenstein ci fa capire come.
LA famosa «irrilevanza» di Arafat sembra per il momento sospesa: il capo di Stato Maggiore Moshe Ya'alon durante vari incontri segreti ha ripetuto che non è impossibile una nuova tregua, e che in ogni caso, se questo dovesse avvenire, sarebbe Arafat l'uomo in grado di convincere le organizzazioni terroriste ad accettarla. Arafat, la cui popolarità è in continua ascesa in contrasto alla leadership moderata di Abu Mazen, il quale di nuovo ha preferito scelte sfumate di fronte all'ultima ondata terroristica e alle risposte dell'esercito israeliano, è ancora oggi, come del resto da una quarantina d'anni, l'unico leader, il capo carismatico, il Raíss i cui desideri sono ordini. Solo che dei suoi desideri è ormai difficile fidarsi.
Anche ieri a Gaza ha fatto inscenare un'ennesima manifestazione di forza contro Abu Mazen: dozzine di uomini che brandivano armi e ritratti di Arafat sorridente hanno dimostrato bellicosamente di fronte agli uffici municipali della città di Gaza per impedire che si insediasse il nuovo direttore del personale dell'amministrazione civile (circa 70 mila uomini) al posto dell'uomo di Arafat, Mohammed Abu Sharia. Questi, intervistato nell’ufficio, ha dichiarato di essere là «per assicurare che le decisioni di Arafat siano le uniche messe in atto» e ha aggiunto di aver appena parlato con il capo: «Tu stai al tuo posto - quello gli aveva detto -. Nessuno può mandarti via». Con buona pace di Abu Mazen e del suo ministro degli Interni Mohammed Dahlan, ambedue sulla via della destituzione tramite una riunione del Consiglio Legislativo Palestinese (il Parlamento, di fatto) che deve votare la fiducia e quindi indurre il Primo Ministro alle dimissioni: secondo i piani del Raíss, Abu Mazen deve essere sostituito con Abu Alla, antico fedelissimo di Arafat e a suo tempo figura centrale del processo di Oslo, mentre Jibril Rajub, appena nominato capo della sicurezza per l'Olp, dovrebbe diventare ministro degli Interni al posto di Muhammed Dahlan.
Rimuovere un rivale mortale, stabilendone democraticamente, in Parlamento, l'insipienza è il sogno di ogni dittatore: Arafat da aprile, quando sulla spinta americana Abu Mazen è stato insediato, ha costruito quest’obiettivo con determinazione, puntando soprattutto sulla parte della società palestinese che di Road Map non vuole sapere, anche se a parole il Raíss si è sempre dichiarato favorevole. Gruppi molto duri di Nablus, di Jenin, di Tulkarem sono stati seguiti e finanziati dalla Muqata, i Tanzim non sono stati abbandonati, e con loro le Brigate di Al Aqsa. Arafat ha tenuto stretti buona parte dei rapporti internazionali, non mettendo mai da parte il telefono, e soprattutto ha seguitato a controllare la metà almeno delle milizie armate. Così come il segnale del potere di Abu Mazen era stato il successo nella nomina di un uomo d'arme al suo fianco, Dahlan, così il segnale della forte ripresa di Arafat è stata la nomina di Jibril Rajub, un altro pistolero di alta classe a coordinatore per la sicurezza dell'Olp.
Arafat ogni giorno dà una prova maggiore della sua forza, ma c'è un'intrinseca fragilità di questa forza, dato che essa è legata proprio alla capacità che il Raíss mette in campo per remare contro l'uomo scelto dagli americani per realizzare la Road Map, la pupilla degli occhi di George Bush. Il fatto che il nome di Arafat - e lui lo sa - sia stato recentemente pronunciato di nuovo da un personaggio importante nell'Amministrazione come Colin Powell ha il doppio significato di una restituzione di status ma anche di una chiamata di correo dopo il terribile attentato di Gerusalemme. C'è un «altolà» nelle parole degli americani reiteratesi in queste ore, da quando si sa che Abu Mazen può volare via, echeggiate con potente decisione da Israele: «Abu Mazen deve restare per trattare, e comunque Arafat può sempre essere trattato diversamente da come lo è oggi», ha detto il viceprimoministro Ehud Olmert: «Può stare alla Muqata in tanti modi, oggi può ricevere gente e parlare coi suoi e col mondo; domani potrebbe stare sempre alla Muqata, sì, ma parlare con i muri».
Più Arafat attacca Abu Mazen, più Israele è convinta che Arafat non abbandona la sua determinazione strategica a promuovere il terrorismo e a evitare ogni accordo di pace. Anche gli americani la pensano così, ma sono più incerti, in questa situazione in cui hanno urgente bisogno di qualche risultato positivo, sul ruolo immediato che Arafat può giocare, anche se vogliono assolutamente evitare la scomparsa di Abu Mazen. Quindi Arafat ha scelto una doppia strada: da una parte seguita a tenere mobilitati i suoi bravi e l'opinione pubblica contro Abu Mazen e contro la Road Map, dall'altra vuole dimostrare che solo lui può gestirla. Per esempio lunedì ha imposto la confisca dei fondi di dodici associazioni legate a Hamas e lo ha fatto legalmente, con l'uso dell'Autorità Finaziaria dell'Autonomia.
Abu Mazen aveva più volte espresso la sua preoccupazione per l'impossibilità di toccare i soldi che i sauditi, i libanesi, i siraini versano nei territori palestinesi per i gruppi fondamentalisti. Soldi provenienti da grandi fondazioni europee e arabe, che mandano decine di milioni di dollari nelle tasche dei terroristi senza che gli americani abbiano strumenti per bloccarli. Prima dell'Intifada arrivavano 50 milioni di dollari, ora 100 milioni circa: un bel problema per la guerra al terrorismo di George Bush. Bene, Arafat ha tirato fuori la bacchetta magica e l'ha usata per risolverlo, anche se momentaneamente e solo in piccola parte. Alla lunga è sempre lo stesso Arafat, che al dunque sceglie l'Intifada.



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