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La Stampa Rassegna Stampa
30.08.2003 Iraq e Israele
un confronto che aiuta a capire

Testata: La Stampa
Data: 30 agosto 2003
Pagina: 2
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Il prezzo della democrazia nel mondo islamico»
Dopo l'attentato alla moschea sciita, la Stampa di oggi satao 30 agosto 2003 pubblica una ottima analisi di Fiamma Nirenstein che riproduciamo integralmente.
DOPO un'altra esplosione come quella che ha ucciso nel luogo più sacro agli sciiti insieme a ottanta fedeli il loro leader Mohammad Baqir al-Hakim, la tentazione è di nuovo quella di dichiarare la guerra contro il terrorismo fallita, come dopo gli atroci scoppi paralleli di Baghdad e di Gerusalemme; la memoria corre alla fuga dalle baracche di Beirut dell'esercito americano dopo gli attentati del 1983. Certamente l'attentato che colpisce la famiglia sciita, che più si era esposta nel perorare la cacciata di Saddam e aveva sofferto esilio e morti per causa sua, indica che l'eruzione terrorista in Iraq ha un obiettivo preciso, la presenza americana. E il fatto che sia ragionevole pensare alla mano sunnita baathista ci dà anche un'altra indicazione: quella di un’incombente guerra civile fra fazioni.
In tutto il mondo islamico la parte radicale e virulentemente antiamericana che proclama (talvolta da lidi finto-islamici, come fanno i baathisti o le Brigate di Al Aqsa) la guerra santa, si scontra con la parte più possibilista, più disposta al dialogo, sia essa religiosa come nel caso dell'assassinato al-Hakim, che pure aveva ambizioni teocratiche, o sia egli laico, come Abu Mazen, che Hamas, gli Hezbollah e le Brigate di Al Aqsa sono determinati a schiacciare per distruggere ogni prospettiva di democratizzazione e quindi, secondo il disegno americano, di drastica diminuzione del terrorismo alimentato dalle dittature. Si apre con violenza in Iraq la porta del micidiale scontro interno all'Islam, che ha già fatto milioni di morti negli anni passati: l'Algeria è solo l'esempio più eclatante, e comunque i sunniti hanno già fatto fuori negli anni passati, sotto Saddam, decine di migliaia di sciiti e di curdi. Ma sarebbe assai sbagliato vederla come una lotta indotta dall'Occidente: è invece un grande scontro morale fra le forze di un miliardo e più di musulmani che non vogliono affatto fare della guerra terroristica all'Occidente la loro bandiera, e l'islamismo estremo, quello terrorista.
Già nei giorni dei due attentati di Baghdad e di Gerusalemme la tentazione generale è stata quella di leggervi un duplice fallimento: la politica degli Usa, la politica di Israele, la guerra preventiva dei primi, la guerra di reazione al terrorismo della seconda sono stati generalmente interpretati in Europa (con una certa soddisfazione) come un errore strategico generale, un fazzoletto usato da gettare, finalmente, in nome della politica, intendendosi per politica ciò che esclude la forza. La forza, di per sé (e chi nell'Europa postnazionale e postmoderna potrebbe non essere d'accordo?) viene vista come una perversione del discorso sensato, dell'interlocuzione, un'interruzione della umana capacità di gestire. La forza sarebbe di per sé una scelta che depriva chi la usa della bontà delle sue ragioni, tanto che il sospetto che subito viene quando la si trova davanti è che sia tutto un trucco: non è la difesa della popolazione innocente del proprio e di altrui Paesi, o della democrazia che non intende venire calpestata, ma il potere, la ricchezza, le spinte vere che l'astuto osservatore scorge come come un trave nell'occhio altrui.
Eppure la scelta bellica degli Usa e quella semibellica di Israele non hanno carattere ideologico; perché non considerare per un momento l'ipotesi, pur scritta nella storia, che proprio alla ricerca della pace e della politica mai di fatto abbandonata (basta guardare, oggi, agli sforzi per non perdere la road map, o ieri, a Camp David, a Clinton, a Barak e indietro a Begin, a Shamir che non rispose a Saddam) e proprio in virtù del fatto che propongono un ordine internazionale in cui la guerra terroristica non possa aver luogo a procedere, questi due Paesi si trovino invece costretti alla guerra? Essi sono i più atrocemente attaccati, i più gratuitamente odiati anche in virtù di un sentito attaccamento ai loro valori, in uno scontro che non è affatto scelto, ma subito, anche se non censurato.
La verità è che l'America ha di fatto un ego, una personalità sovrastante che si manifestano suscitando invidie terribili; ma altrettanto chiaro è che gli Usa con tutti i loro interventi, richiesti o imposti per difendere la loro posizione, ma anche con la democrazia (che a volte l'Europa percepisce come mera copertura di una colpa originaria, perché nasconderselo) hanno occupato posizioni imperialiste di rendita: non nell'Europa del secondo dopoguerra, non in Bosnia, non in Africa, non in Medio Oriente. Quanto a Israele, quante volte ha cercato di restituire la terra conquistata? Non l'ha forse restituita a chi l'ha voluta, l'Egitto, scambiandola con la pace? Non ha ricevuto tre «no» dopo la guerra del '67? Non ha forse lasciato il Libano quando sembrava aperta una via di pace con la Siria? Come si può immaginare che la guerra sia uno strumento prescelto invece che subito da una Paese tanto svantaggiato geopoliticamente, cui tutto il mondo circostante nega con guerre e terrore il diritto all'esistenza, e come non si capisce che i Territori altro non sono che l'ultima fiche che esso ha in mano per giocare al tavolo di pace?
Ma il pezzo di carta che stabilisce doveri e limiti in ogni pace, Arafat o Abu Mazen da quando sono schiavi del gioco della guerra terrorista non possono firmarlo. Il terrorismo promette vittorie di cui non si pagano i pegni, e da quando esso è la parola d’ordine del mondo estremista islamico, l'ipotesi arafattiana si è affermata: lo Stato palestinese imposto dopo un ritorno alla violenza che provoca la reazione di Israele, richiama l'arbitrato internazionale, dà in mano ad Arafat la Cisgiordania senza costringerlo a impegnarsi a chiudere le ostilità per avere tutta la Palestina, un giorno, compreso Israele. Lo scoglio per la pace sta nella guerra terrorista, che non conosce oggetti parziali, compromessi, trattati.
La guerra d'oggi è una guerra sconosciuta, che l'America e Israele subiscono, ma affrontano senza fuggire. Dovrebbero forse farlo?
Per capire infatti ciò che accade in Iraq e a Gerusalemme, non si può fare altro che tenere ben presente il fatto che nessun Von Clausewitz né alcun esercito convenzionale ha saputo quanto sia dura e come si svolga la guerra contro il terrorismo e contro le armi non convenzionali che esistono, come certificato dall'Onu, ma sono nascoste, forse in luoghi diplomaticamente irraggiungibili come il Libano, o la Siria. La circolazione di denaro e di armi e di uomini in un immenso mondo che vuole instaurare un califfato mondiale si genera in alcuni specifici luoghi dalla Siria all'Iran all'Arabia Saudita. Non c'è altro modo di spezzare questa catena che smontarne il supporto: e qui nasce la drammatica e pesante domanda di come farlo. I dittatori non si dimettono, come non se ne è andato Saddam Hussein e come Arafat non vuole cedere il passo a Abu Mazen. Ma non è una guerra perdente, non è irretita in una ragnatela, è semplicemente lunga e difficile. Battere il terrore instaurando democrazie incontra non interessi imperiali, ma bisogni autentici dell'Islam moderato: dei 22 stati arabi, ce ne sono alcuni decentemente ben governati, come il Bahrain; dei 24 altri Paesi musulmani più importanti, metà sono democrazie.
Le difficoltà che gli americani incontrano in Iraq, e che l'Islam stesso incontra, sono perfettamente attinenti alla guerra contro il terrore e alle sue difficoltà intrinseche: in un mondo frammentato e misero, corrotto, arrabbiato, impaurito da decenni di dittatura spaventosa, facile crocevia geografico del terrorismo, in cui il nemico americano è esposto, e le fazioni si fronteggiano, quale meraviglia che si susseguano gli attentati? Sarebbe ben stupefacente che le cose fossero andate lisce. L'eredità di Saddam, le varie componenti religiose, gli scorrazzamenti delle organizzazioni fanno il lavoro, e gli americani subiscono, non creano, questa guerra. Cio' che creano è invece la possibilità che l'Iraq si evolva in una democrazia, sia pure fra lacrime e sangue.
Questa guerra è lunga, è difficile, è imprevedibile, ed è imposta. Non è degno consiglio fuggire o demandare. Né tantomeno considerare una buona idea che le fazioni islamiche moderate debbano restare per sempre prigioniere degli assassini. Attardarsi sull'idea dei falchi americani e delle colombe europee, dei petrolieri e dei politici, si perde la dimensione della lotta politica e militare cui non solo l'Occidente, ma anche l'Islam che vuole progredire, è chiamato. Molti flussi di denaro sono stati bloccati, molte organizzazioni distrutte. Dal 9 settembre, nonostante le minacce, nessun attacco gigantesco è stato realizzato. La guerra non causa il terrorismo, lo combatte. Ma ha a che fare con un immenso movimento ideologico la cui base è negli scritti teologici affascinanti, profondi, e totalmente ostili dell'egiziano Sayyd Qutb, che legge il peccato originale dell'umanità nella scelta occidentale di onorare la fede arrogante nella ragione umana che produce la tirannia della modernità. Ha a che fare con l'uso che alcune dittature fasciste fanno della religione islamica, che certo non è totalitaria di per sé, usandola come un'arma puntata contro di noi, figli degli antichi greci, degli ebrei, dei cristiani.
Chi vede l'Afghanistan come un fallimento, o il futuro dell'Iraq come una sicura disavventura, non capisce la grandiosa importanza di quelle ragazze che si toglievano il velo a Kabul o della fila dei giovani che dal barbiere si dondolava al ritmo di una canzone francese trasmessa dalla radio.



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