Netanyahu ha ragione: la soluzione è la democrazia a Teheran Analisi di Fausto Carioti
Testata: Libero Data: 02 ottobre 2024 Pagina: 3 Autore: Fausto Carioti Titolo: «Netanyahu ha ragione: la soluzione è la democrazia a Teheran»
Riprendiamo da LIBERO di oggi, 02/10/2024, a pag. 3 l'analisi di Fausto Carioti dal titolo “Netanyahu ha ragione: la soluzione è la democrazia a Teheran”
Fausto Carioti
Non è l’invasione dell’Iran, impossibile dal punto di vista politico e militare, il disegno di Benjamin Netanyahu. L’obiettivo è un altro, e per capirlo bisogna tornare alla Berlino divisa, alla Porta di Brandeburgo e al 12 giugno 1987. Quel giorno Ronald Reagan, presidente degli Stati Uniti, si rivolse al capo dell’Unione sovietica: «Mister Gorbaciov, abbatta questo muro!». In realtà parlava ai berlinesi dell’est e a tutti coloro che stavano al di là della cortina: «Oggi a Berlino ovest c’è la più grande produzione industriale di tutta la Germania: palazzi pieni di uffici, belle case e appartamenti, viali orgogliosi e parchi pieni di prati. Ci sono due grandi università, orchestre e un’opera, innumerevoli teatri e musei. Dove c’era bisogno, oggi c’è abbondanza: cibo, vestiti, automobili...». La libertà, il benessere.
È il messaggio che il primo ministro israeliano ha inviato due giorni fa a 1.600 chilometri di distanza, al di là del muro che divide Gerusalemme da Teheran. A differenza di Reagan, ha potuto usare Internet e ha evitato di rivolgersi a chi comanda dall’altra parte: sarebbe stato inutile. Ha parlato solo agli iraniani: «Immaginate se tutti i soldi che il regime ha sprecato in armi nucleari e guerre straniere fossero investiti nell’istruzione dei vostri figli, nel miglioramento della vostra assistenza sanitaria, nella costruzione delle infrastrutture della vostra nazione: acqua, fognature, tutte le altre cose di cui avete bisogno. Ai tiranni iraniani non importa del vostro futuro, ma a voi sì. Quando l’Iran sarà finalmente libero, e quel momento arriverà molto prima di quanto la gente pensi, tutto sarà diverso. Non permettete a un piccolo gruppo di teocrati fanatici di distruggere le vostre speranze e i vostri sogni».
Questo è l’obiettivo: il “regime change”, la sostituzione dei «teocrati fanatici» con una leadership laica, espressione della parte migliore del Paese. L’Iran di oggi come l’Urss di allora, Israele (con l’aiuto americano e degli Stati sunniti del Medio oriente) come gli Usa di Reagan. Ed è meno utopia di quanto si creda.
Qualunque cosa si pensi di Netanyahu, pure i suoi nemici riconoscono che è uno con i piedi per terra: un realista, non un idealista. Un’altra certezza è che Israele si è infiltrato in profondità nel regime degli ayatollah e ne conosce molto bene le debolezze. Se Netanyahu promette la fine della teocrazia «molto prima di quanto la gente pensi», è perché sa che il regime è più marcio di quanto appaia.
Gli esperti, israeliani e non, ne hanno discusso a fine giugno nella Conferenza sulla Sicurezza che si è svolta nel campus universitario di Herzliya, vicino a Tel Aviv. Il più esplicito è stato forse l’americano Elliott Abrams, il cui curriculum dice già tutto: consigliere per la politica estera di Ronald Reagan, George W. Bush e Donald Trump e rappresentante speciale degli Stati Uniti per l’Iran dal 2020 al 2021.
La sua tesi, riassunta dall’inviato di Newsweek, è che «il regime iraniano è molto impopolare e non stiamo facendo nulla per farlo cadere. È su questo che dovremmo lavorare. Non dovremmo dare per scontato che il regime sia eterno; altrimenti, lo sarà».
Cosa devono fare gli americani, Abrams lo ha spiegato pochi giorni fa al Congresso di Washington: «È importante ricordare che gli iraniani non hanno scelto il regime che li governa. Il popolo iraniano detesta il regime e rischia ripetutamente la vita per ribellarsi. La soluzione definitiva al problema dell’Iran è la democrazia, perché quando il popolo iraniano sarà libero di governarsi, l’Iran avrà una politica estera molto diversa. Di conseguenza, dovremmo fare ciò che è ragionevolmente possibile per aiutarli ad esprimere le loro opinioni e porre fine a questo regime malvagio. Ciò significa, tra le altre cose, valutare con attenzione la nostra diplomazia pubblica, le nostre trasmissioni e gli altri modi in cui possiamo assistere il popolo iraniano nella sua lotta per la libertà». Dunque, anche se Israele dovesse fare il massimo possibile (gli omicidi mirati dei leader nemici sono ormai una specialità della casa), la parte più importante spetterebbe agli iraniani.
Che molti di loro, soprattutto nella parte più giovane e istruita della popolazione, detestino il regime, non è una convinzione consolatoria di certi circoli occidentali, ma un altro dato di fatto. Non avendo nessuno da votare (i candidati alla presidenza sono scelti dal Consiglio dei guardiani, nominato per metà dalla “guida suprema” Ali Khamenei), gli iraniani che non ne possono più sfidano i loro despoti con l’astensione, praticata da sei elettori su dieci. Tutto questo rende debole e non rappresentativo della volontà popolare anche il presidente eletto a luglio, il presunto “riformista” Masoud Pezeshkian.
Il regime ha affrontato forti proteste, in particolare dopo la morte di Mahsa Amini, la donna arrestata e uccisa due anni fa per essersi opposta all’obbligo del velo.
Le ha represse con la violenza dei pasdaran, i «guardiani della rivoluzione». In questo modo, però, ha fatto crescere ulteriormente la rabbia della popolazione, acuita dalla situazione economica: inflazione al 40% annuo, alta disoccupazione giovanile e gli effetti delle sanzioni occidentali che pesano. Non è un caso che nel suo discorso Netanyahu abbia insistito sul tenore di vita delle famiglie, proprio come il suo predecessore americano.
Chi può, scappa all’estero e organizza l’opposizione da lì. La diaspora iraniana conta tra i 6 e gli 8 milioni di individui, la maggior parte dei quali vive in Europa e Stati Uniti. Monarchici che sognano la restaurazione dello scià, i “mujaheddin del popolo” fautori di un Iran più o meno laico e democratico, gruppi nazionalisti, gruppi socialisti, i curdi e altre minoranze etniche: divisi tra loro, ma abituati alla democrazia e alla libertà. Tra gli emigrati di seconda e terza generazione, c’è chi ha ruoli apicali in aziende multinazionali o incarichi istituzionali negli Stati nordamericani ed europei. L’embrione di una possibile classe dirigente, il giorno in cui la cricca degli ayatollah dovesse fare la fine di quella del Pcus.
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