Anshel Pfeffer: La missione è liberare gli ostaggi Intervista di Fiammetta Martegnani
Testata: Il Foglio Data: 07 settembre 2024 Pagina: III Autore: Fiammetta Martegnani Titolo: «La missione è liberare gli ostaggi, ma si fanno prove per il post Bibi»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 07/09/2024, a pag. III, l'intervista di Fiammetta Martegnani ad Anshel Pfeffer dal titolo: “La missione è liberare gli ostaggi, ma si fanno prove per il post Bibi”.
Tel Aviv. 700.000 israeliani in piazza, i sindacati che convocano uno sciopero nazionale e la condanna, da parte del presidente americano, di aver abbandonato gli ostaggi nelle mani di Hamas. Tutto avrebbe fatto pensare che, a ormai undici mesi dal 7 ottobre, dopo la perdita di altri sei ostaggi e la sfiducia che sempre più pervade il paese, il primo ministro Benjamin Netanyahu, di fronte a quello che i media internazionali hanno definito un “punto di non ritorno”, si sarebbe trovato costretto a rinunciare al tanto discusso corridorio Filadelfi, pur di garantire il ritorno immediato di tutti gli ostaggi. Invece, lunedì scorso, nel suo discorso alle camere, il premier non ha fatto che ribadire la sua dottrina della “vittoria totale” lasciando, ancora una volta, il paese spaccato in due. Anshel Pfeffer, editorialista per quotidiani israeliani e internazionali, che nel 2018 ha raccontato l’ascesa e le turbolenze del primo ministro nel saggio “Bibi: The Turbulent Life and Times of Benjamin Netanyahu”, ha detto al Foglio: “Dobbiamo prima di tutto ricordare che l’esecuzione dei sei ostaggi è avvenuta per mano di Hamas. Così come è Hamas che, da undici mesi, rifiuta ogni proposta diplomatica che possa portare a un cessate il fuoco permanente” sottolinea l’analista israeliano “tuttavia Netanyahu ha sempre messo al primo posto la carriera politica rispetto alle priorità del paese. Così come, fin dall’inizio di questo conflitto, ha continuato a portare avanti la sua dottrina della ‘vittoria totale’, che prevede la distruzione di Hamas ma mal coincide con l’obiettivo del ritorno degli ostaggi”. Eppure, ai tempi di Gilad Shalit, lo stesso premier era stato disposto a concedere il rilascio di oltre mille terroristi palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, pur di riportare a casa un soldato in ostaggio. Come osserva l’analista anglo-israeliano i tempi, da allora, sono cambiati, ma non è cambiato Netanyahu che, da sempre, agisce in funzione di ciò di cui ha bisogno. Nel 2011, in concomitanza con le proteste che richiedevano “giustizia sociale” liberare Shalit era stato un ottimo stratagemma per riconquistare il consenso perduto. Oggi, invece, il premier sostiene che negoziare con i terroristi significhi ripetere lo stesso errore che ha portato al massacro del 7 ottobre e, per tanto, insiste sulla sua priorità del corridoio Filadelfi. Pfeffer conferma quanto questo snodo sia, sicuramente, il punto principale di accesso alle armi per il gruppo terrorista. Tuttavia, ricorda anche come, nonostante il controllo da parte dell’esercito israeliano fino al disimpegno da Gaza nel 2005, questo, di fatto, non avesse impedito a Hamas di riarmarsi.
Tanto che persino Netanyahu, nel corso degli ultimi quindici anni al governo, non aveva mai ritenuto necessario tornare a controllare il corridoio al confine con l’Egitto. Così come, ancora oggi, sia Tsahal che il ministero della Difesa sostengono che continui a non essere una priorità. Specie se rinunciarvi, potesse garantire il ritorno degli ostaggi. A sostenere questa posizione, per primo, è il ministro della Difesa Yoav Gallant, unico membro del Likud, e del governo, a tenere testa al premier. Una mosca bianca: il resto del partito e dell’esecutivo – nonostante oltre il 60 per cento degli israeliani sarebbero disposti a ogni compromesso pur di portare a casa gli ostaggi – continuano a sostenere il premier all’unanimità. “Anche perché gli uni hanno bisogno degli altri per continuare a governare, inclusi – continua Pfeffer – i due partiti ultraortodossi che sarebbero disposti a negoziare per gli ostaggi ma non a rischiare, qualora Ben-Gvir e Smootrich lasciassero il governo decretando un ritorno alle urne, di perdere i propri privilegi”. Le elezioni sono ancora lontane, tuttavia, stando ai sondaggi forniti dall’emittente televisiva Kan 11, se gli israeliani dovessero votare oggi, il Likud di Netanyahu resterebbe in testa, ma con soli 22 seggi. Come osserva Pfeffer, si tratta di un calo di 10 seggi – e quindi di un terzo dei voti – rispetto ai 32 con cui aveva vinto le elezioni nell’ultima tornata del 2022: “Del resto il numero dei seggi non sono ciò che garantisce il giuramento di un governo, bensì la costellazione di partiti che corrono alle urne quel giorno. Sono moltissimi i fattori che potrebbero cambiare, soprattutto a seconda di chi guiderà il potenziale blocco ‘anti Netanyahu’. E se, come si presume dovesse essere l’ex primo ministro Naftali Bennett a guidarlo, il premier uscente potrebbe avere serie difficoltà a mettere assieme, ancora una volta, una coalizione”. In ogni caso, conclude, è troppo presto per fare pronostici mentre la priorità, per il paese, rimane quella di portare a casa gli ostaggi.
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