Cosa resta in questa estate del 7 ottobre Commento di Daniela Santus
Testata: Il Foglio Data: 22 luglio 2024 Pagina: IV Autore: Daniela Santus Titolo: «Cosa resta in questa estate del 7 ottobre»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 22/07/2024, a pag. IV, il commento di Daniela Santus dal titolo: "Cosa resta in questa estate del 7 ottobre".
Daniela Santus
In Italia è scoppiata l’estate. Le scuole hanno chiuso i battenti e il mare è a portata di mano. Sui social impazzano i discorsi sul caro ombrelloni e sul caldo, anche se in realtà ci sarebbe ben altro di cui parlare. La situazione internazionale resta più che tesa: circa due settimane fa Putin ha bombardato un ospedale pediatrico nella capitale ucraina, anche se Ghali era distratto. Negli Stati Uniti si è consumato un fallito attacco alla vita di Trump che, uscitone illeso, ha nominato Vance quale suo vice in caso di vittoria. Sì, proprio quel Vance che nel 2016 definiva Trump come “un Hitler americano”, ma di cui poi si è trasformato in fedele scudiero. Sarà il caldo, saranno gli eventi, resta il fatto che la situazione in Israele e a Gaza sembra preoccupare meno gli italiani: un flebile segnale di ciò che è stata l’intifada studentesca la respiriamo nei circoli Arci torinesi dove Giorgia, Lune, Grace e Olli vengono invitate a raccontare le imprese dei due mesi di occupazione.
Nonostante ciò, vorrei proporre alcune riflessioni. Il 7 ottobre 2023 non è venuto meno con l’estate; le immagini di terrore e orrore sono onnipresenti, anche se Facebook ha cominciato a cancellare il video Screams before Silence ovunque fosse stato condiviso, affermando che il contenuto “viola gli standard in materia di spam”. Non so se ci si rende conto della gravità: è come se all’indomani del 27 gennaio 1945 ci fosse stato chi avesse provveduto a cancellare deliberatamente tutte le fotografie dei sopravvissuti ai campi di sterminio. Forse che l’orrore non debba essere visto per assolvere chi l’ha compiuto?
Siamo in estate, tempo per i nostri studenti di gavettoni e grigliate, mentre i giovani soldati israeliani muoiono ogni giorno e gli ostaggi restano intrappolati a Gaza senza che nessuna Croce o Mezzaluna Rossa abbia mai preteso di visitarli. Decine e decine di migliaia di israeliani (ebrei e arabi) sono stati sradicati dalle loro case e hanno dovuto abbandonare scuola e lavoro, soprattutto nel nord del paese, a causa dei continui attacchi di Hezbollah. Il trauma è profondo: la promessa storica di poter vivere finalmente in sicurezza nello Stato ebraico d’Israele è stata ed è nuovamente messa a repentaglio. Può non piacere sentirselo ricordare, ma Israele sta combattendo ancora una volta per la sua sopravvivenza: questo è ciò che determina le sue azioni.
Dopo il 7 ottobre, Israele ha dichiarato che l’obiettivo della sua risposta militare era la distruzione delle infrastrutture politiche e militari di Hamas. Si tratta di un obiettivo non ancora pienamente raggiunto, soprattutto a causa delle circostanze estremamente difficili che i soldati devono affrontare: alta densità di popolazione, tunnel, mine, uso da parte di Hamas della stessa popolazione e delle strutture civili come scudi. Recentemente, al di sotto del cosiddetto Philadelphi Corridor, tra la Striscia e l’Egitto, Tsahal ha scoperto un tunnel a tre piani!
Quei pochi abitanti di Gaza che hanno provato a protestare contro Hamas sono stati arrestati e torturati nell’indifferenza di tutti. Hamza Howidy, che è riuscito a scappare, su newsweek.com ha recentemente scritto: “Noi abitanti di Gaza abbiamo tentato più volte di rimuovere Hamas. Nel 2019 e nel 2023, la popolazione ha partecipato a marce pacifiche: per questo ‘crimine’ siamo stati brutalmente aggrediti dai miliziani. Dal 7 ottobre, centinaia di abitanti di Gaza sono stati uccisi dai falliti lanci di razzi di Hamas, oltre al fatto che ci hanno anche confiscato cibo, carburante e medicine. Ahmad Breka, di 13 anni, è stato colpito alla testa da Hamas a Rafah mentre cercava di raccogliere aiuti umanitari. Altri sono stati fortunati perché sono stati semplicemente colpiti alle gambe mentre cercavano di prendere gli aiuti che Hamas aveva rubato e teneva nelle proprie strutture. Questi atti disumani hanno spinto molti a manifestare a Khan-Younis davanti alla casa di Yahya Sinwar. Altri hanno protestato nel nord di Gaza, chiedendo a Hamas di liberare i sequestrati e porre fine alla guerra. Hanno ricevuto da Hamas la stessa risposta che ho ricevuto io: gli hanno sparato contro. E ancora una volta, i media globali hanno ampiamente ignorato questi crimini”.
La conduzione della guerra, da parte d’Israele, è stata invece aspramente criticata sin dall’inizio e poi in un costante crescendo, soprattutto nelle strade, nelle scuole, nelle università, in tribunale. Hamas ha utilizzato con un certo successo le immagini della sofferenza umana, di cui era ed è responsabile e di cui ha cinicamente tenuto conto, per la sua propaganda, trasformando i carnefici in vittime. Perché, altrimenti, non permettere almeno a donne, bambini, anziani e malati di rifugiarsi nei tunnel? Perché adoperare scuole, università e ospedali come basi militari? Perché attaccare le postazioni israeliane dalle case dei civili?
E’ ovvio che, come esseri umani, non possiamo esimerci dal riconoscere la sofferenza personale di entrambe le parti. Proprio per questo motivo – e per evitare il ripetersi di quelle sofferenze – non possiamo non porci il problema della responsabilità. Fermorestando il fatto che il numero delle vittime civili, a Gaza, non può essere verificato in quanto Hamas deliberatamente fa in modo di rendere indistinguibili “combattenti” e civili, credo che quello palestinese sia l’unico conflitto così ignominioso in cui i leader vivono nel lusso, registrando video dove spudoratamente affermano che il sangue di donne e bambini li porterà alla vittoria.
Dovrebbe anche essere ormai noto, a quanti continuano a chiedere il cessate il fuoco, che da varie settimane, se non mesi, sono in corso negoziati per ottenerlo, a patto che si liberino gli ostaggi. Tra le varie proposte, una degli Stati Uniti – discussa con Israele – era stata adottata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Tuttavia a quanto pare anche questa, come tutte le altre, è stata definitivamente respinta da Hamas, che ha posto la condizione di un completo e definitivo ritiro di Israele da Gaza prima della consegna di tutti gli ostaggi in vita o dei loro corpi. Una condizione, questa, difficilmente accettabile da Israele: in che modo si potrebbe avere la certezza che qualcuno tra gli ostaggi non continui a essere trattenuto da Hamas per ottenere altro in futuro? Va comunque ricordato che non ci sarebbe stata nessuna guerra, se il 7 ottobre Hamas non avesse deciso di compiere il più brutale attacco di sempre con uccisioni, stupri, torture, mutilazioni e presa di ostaggi.
D’altra parte quando affermiamo che Israele sta di nuovo combattendo per la sua esistenza, non ci riferiamo soltanto a Gaza. Un pericolo enorme proviene dagli attacchi di Hezbollah nel nord del paese. Le opinioni divergono sul fatto che la Repubblica islamica dell’Iran abbia avuto un’influenza diretta sui tempi e sulla natura del massacro del 7 ottobre. Di certo ha garantito il suo sostegno, se non altro perché questo ha distolto l’attenzione del mondo dal suo programma nucleare. Tuttavia la dipendenza diretta di Hezbollah dall’Iran è nota e indiscussa. In Italia si parla (troppo) poco del nord di Israele e, quando lo si fa, predomina la narrazione di “attacco e contrattacco”, “violenza a spirale” ecc. Eppure la minaccia di Hezbollah è reale e persino più virulenta di quella di Hamas: leggiamo su israele.net che l’accademico Sadek Al-Naboulsi, affiliato a Hezbollah, in un’intervista ha dichiarato che il gruppo terroristico libanese non smetterà di attaccare Israele nemmeno quando gli israeliani cesseranno le loro operazioni a Gaza in quanto il loro scopo è quello di portare Israele verso “la distruzione, l’annientamento e l’estinzione”.
Una minaccia realistica: attualmente Hezbollah dispone di un enorme arsenale di missili, droni ecc. con cui attacca quotidianamente Israele. Per essere aggiornati, dal momento che i media non lo riportano, installate l’app RedAlert e il telefono vi manderà tutte le allerta circa i missili lanciati nel momento esatto in cui avvengono i lanci. A voi servirà per informazione, agli israeliani serve per correre nei rifugi e provare a salvarsi la vita nel caso Iron Dom facesse cilecca. A chi osserva la situazione dall’esterno, con gli occhi della geopolitica, le azioni di Hezbollah risultano estremamente preoccupanti, soprattutto nel momento in cui minaccia apertamente una “guerra senza regole” nel caso in cui Israele riuscisse a difendersi e a rispondere agli attacchi. Come dimenticare che, senza ottenere neppure la riprovazione europea, proprio i terroristi di Hezbollah sono giunti a minacciare addirittura Cipro? Neppure va relativizzato il sostegno iraniano, soprattutto dopo che l’Iran, davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ha minacciato una “guerra di annientamento” se Hezbollah verrà danneggiato. Pertanto cosa accadrà se gli attacchi di Hezbollah continueranno ad intensificarsi? Davvero il mondo si aspetta che Israele, uno stato per ampiezza più piccolo del Piemonte, si lasci colpire e annientare senza difendersi? Israele si difenderà e la sua difesa dovrà essere efficace per poter continuare a esistere: così come ha fatto Hamas, anche Hezbollah avrà messo in conto e accettato la perdita di vite libanesi e ancora una volta verranno adoperate le immagini di guerra per cercare di mettere alla gogna Israele.
In autunno magari torneranno le tende in università e i professori invocheranno la pace, senza volersi sporcare, non dico le mani ma almeno le menti, per provare a capire che Israele è in pericolo, ma potrebbe anche essere una risorsa. Anzi, è proprio di questi giorni l’uscita di vari bandi per borse di studio rivolte esclusivamente a studenti palestinesi. Come se non fosse necessario, per la pace, avere opportunità di collaborare e vivere fianco a fianco con “l’altro”. E così, messo nel cassetto il progetto di un gruppo di docenti ostinatamente aggrappati a una visione di pace da costruirsi attraverso contatti e interscambi tra studenti e studiosi israeliani e palestinesi (si veda la lettera inviata al ministro Bernini, sul Foglio del 10 giugno scorso), le università paiono voler procedere a senso unico: Siena e Padova a fare da apripista. Da non dimenticare poi il Cnr che, nell’ambito dell’iniziativa “Tavolo per la pace”, offre borse di studio anche ai libanesi. Inutile cercare risposte circa la selezione dei candidati: l’Università di Siena, da quel che leggiamo sul sito, accetta persino autocertificazioni del titolo di diploma o di laurea triennale, nel caso in cui il documento originale non fosse rintracciabile. Nessuno poi esplicita in quale modo si potrà garantire che le attività svolte promuoveranno effettivamente la pace. Personalmente ritengo che, pensando a percorsi rivolti alla pace, sia una scelta sbagliata quella di non offrire le medesime opportunità agli studenti israeliani. Almeno a quelli del nord, che vivono sotto costante attacco da parte degli Hezbollah libanesi.
D’altra parte l’esistenza di Israele è minacciata di continuo. Pensiamo alla Repubblica islamica dell’Iran, il cui obiettivo mille volte dichiarato è la distruzione di Israele come “cancro nel mondo islamico”. Da decenni l’Iran arma e sostiene Hamas, Hezbollah, gli Houthi ed è il burattinaio che, a quattro mani con la Russia, tira i fili della destabilizzazione di Siria e Iraq. Non dimentichiamo poi il massiccio e diretto attacco missilistico del 13 aprile. Quegli accademici che parlano di dual use per quel che riguarda Israele, ma senza alcun problema vanno nelle università iraniane a collaborare per gli studi di fisica nucleare, non si sono mai interrogati sui continui tentativi dell’Iran di costruire una bomba nucleare con un razzo vettore?
Tuttavia se Israele è in pericolo, lo siamo anche noi. Non intendo parlare dei possibili arrivi di jihadisti, tra i vari studenti talentuosi – libanesi e palestinesi – che per certo le nostre università sapranno accogliere, ma della nostra capacità di comprendere le informazioni ed elaborarle. Agli esami della sessione di giugno, la maggior parte dei miei studenti (corsi universitari triennali e magistrali) ha scritto che il cristianesimo, in Egitto, si è sviluppato nel III secolo a.C.: ecco qual è il problema, non riuscire a capire che una qualsiasi idea/fede non si può sviluppare prima che nasca colui al quale quell’idea, quella fede viene attribuita. Pur essendo convinta che l’ebreo Gesù non avesse alcuna intenzione di far nascere il cristianesimo, è del tutto certo che esso non avrebbe potuto svilupparsi prima della nascita di Gesù, detto il Cristo. Questo triste aneddoto ci permette di capire come possano avere seguito, sui social media, personaggi come Cecilia Parodi, una che afferma “odio gli ebrei, odio gli israeliani” con gli occhi gonfi di pianto. E’ roba da psicoanalisi. Per quale motivo odia gli ebrei? Cosa mai le avranno fatto l’anziana signora ebrea che vive a Marrakech e prepara la challah (il pane intrecciato) per il sabato, o il bimbo di Parigi che, coi suoi amichetti, gioca con le sevivon (trottole) la sera di Hannukkah? E cosa mai le avranno fatto le ragazze pacifiste che si erano trovate a ballare al Nova Festival e si sono ritrovate stuprate, passate da un torturatore all’altro, seviziate, mutilate e ancora stuprate dopo la morte? Siamo in pericolo perché un dittatore qualsiasi potrà approfittare della nostra pochezza di osservazione critica per farci credere qualsiasi cosa. Come sta accadendo a buona parte della sinistra dei paesi occidentali che, come ha recentemente affermato Alan Dershowitz, sempre su israele.net, incredibilmente è rimasta infatuata da un “movimento che iniziò come alleato del nazismo e che oggi è impregnato di sessismo, omofobia, negazione dei diritti umani e intollerante opposizione all’esistenza di uno stato ebraico”. Perché, tra tutte le cause del mondo, i nostri studenti non hanno mai battuto ciglio per i diritti dei curdi, degli uiguri, dei dissidenti iraniani o delle donne ebree vittime di stupro e morte? Ha ragione Dershowitz a dire che “più che pro palestinesi, questi manifestanti sono innanzitutto anti israeliani”. Anti qualcosa che non conoscono, contrari alle politiche (di cui non hanno idea alcuna) di uno stato che immaginano grande e potente, ma del quale sanno niente. Come niente sanno e capiscono i suprematisti bianchi della Virginia che, alcuni anni fa a Charlottesville, gridavano preoccupati: “Gli ebrei non ci sostituiranno”. Uno slogan popolare secondo cui la “razza” bianca è in pericolo di estinzione, sostituita da “razze” non bianche. E gli ebrei, persino quelli ashkenaziti secondo questo modo di pensare, non sono bianchi e pertanto sono meritevoli di esclusione dallo Stato dei bianchi. Mi direte, ma gli ebrei non sono tutti bianchi! Ovviamente no. Tuttavia la cosa interessante, quando si parla di ebrei, è che la destra suprematista li attacca come “non bianchi”, mentre molta sinistra li attacca accomunando quelli di origine europea alla società bianca dominante. Insomma, che siano bianchi o non bianchi, gli ebrei sono sempre colpevoli di esistere. E se questi sono i problemi dell’ignoranza americana cui, chiunque sarà, il nuovo presidente dovrà prestare attenzione, il tema su cui vorrei farvi riflettere, magari sotto l’ombrellone, è piuttosto come arginare la nostrana asineria di chi sogna una Palestina dal fiume al mare, senza sapere di quale fiume e di quale mare sta parlando. Più geografia e meno slogan, sarebbe già un buon inizio.
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