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Il Foglio Rassegna Stampa
13.07.2024 Hamas: vittime e carnefici a Gaza
Analisi di Roberto Volpi

Testata: Il Foglio
Data: 13 luglio 2024
Pagina: VIII
Autore: Roberto Volpi
Titolo: «Non chiedete alla Striscia di rivoltarsi contro Hamas. E' sua complice»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 13/07/2024, a pag. VIII, con il titolo "Non chiedete alla Striscia di rivoltarsi contro Hamas. E' sua complice", l'analisi di Roberto Volpi.

L'odio per Israele è un odio di popolo. I palestinesi sostengono attivamente Hamas. E non si tratta di un odio estemporaneo, politico o emotivo, ma è profondamente radicato nella cultura islamica.

Forse la colpa delle durezze e delle crudeltà alle quali assistiamo oggi è dovuta al fatto che l’America non l’hanno scoperta i musulmani. Non gli mancavano i porti affacciati sull’Oceano Atlantico, non gli mancavano le flotte e nemmeno i navigatori esperti come Cristoforo Colombo. Sarebbe cambiato il corso della storia e probabilmente anche il destino della Striscia di Gaza, messa a ferro e fuoco da Israele dopo che i terroristi di Hamas, annidati nelle sue viscere, hanno scatenato la barbarie del 7 ottobre e hanno rinchiuso nei tunnel sotterranei gli ostaggi. Già, perché non sono sbarcate le caravelle dei musulmani nella spiaggia di San Salvador? L’interrogativo non aleggiava certo sugli storici incontri di Camp David; eppure quegli incontri in qualche modo ne erano le lontane e, verrebbe quasi da dire, inevitabili conseguenze.

Nel luglio e poi ancora nel dicembre del 2000 il leader dell’Olp Yasser Arafat rifiutò la soluzione bistatuale (quella comunemente indicata come “due popoli due stati”) proposta dal primo ministro israeliano Ehud Barak e dal presidente americano Bill Clinton che offriva ai palestinesi la sovranità statale sul 100 per cento della Striscia di Gaza, sul 94-96 per cento della Cisgiordania e su metà di Gerusalemme: un rifiuto che ha dato la spinta e l’avallo politico, da allora, all’opposizione radicale da parte palestinese all’ipotesi dei due stati. Ehud Barak era il leader socialdemocratico di un governo di centrosinistra, Bill Clinton il presidente democratico degli Stati Uniti che, ormai allo scadere del suo secondo mandato, non intendeva lasciar niente di intentato per sanare la più sanguinosa ferita di quella regione e passare alla storia come il grande tessitore della pace tra Israele e i palestinesi. Mai né prima né dopo le condizioni geopolitiche per un accordo definitivo sono state a tal punto favorevoli. Ma Arafat non voleva nessun accordo. Non c’era né ci sarebbe mai stata, in realtà, una subordinata, da parte arabo-palestinese, a una soluzione monostatuale, ovvero a uno stato palestinese che andasse dal Giordano al Mediterraneo, dal fiume al mare. Che quella soluzione comporti la cancellazione di Israele è pacifico, praticamente un corollario. Non per niente i palestinesi non intendono riconoscere Israele, né lo faranno mai – a meno che non siano con l’acqua alla gola, nella condizione di non potersi sottrarre a un negoziato peggio che stringente. Questo gli israeliani lo hanno capito benissimo, da allora. In un modo, oltretutto, che non lascia spazio a dubbi. Nel 2000 il numero medio di figli per donna era di 5,44 in Palestina e di 2,95 in Israele. Oggi la differenza si è quasi azzerata: 3,5 contro 3. Il conflitto ha anche un versante demografico, nient’affatto secondario. Continuando il dislivello nei tassi di fecondità che si è protratto fino al 2000 la popolazione israeliana non solo si sarebbe vista sopravanzare da quella palestinese in men che non si dica, ma di quest’ultima sarebbe diventata insopportabilmente più vecchia.

Il rifiuto del riconoscimento di Israele si trascina di leadership in leadership arabopalestinese. Secondo l’articolo 22 della Carta nazionale palestinese – una sorta di Costituzione emanata nel 1968, e mai emendata, dal Consiglio nazionale palestinese (Cnp) – “Il sionismo è un movimento politico organicamente associato all’imperialismo internazionale e antagonista a tutte le azioni di liberazione e ai movimenti progressisti nel mondo. E’ razzista e fanatico nella sua natura, aggressivo, espansionista e coloniale nei suoi obiettivi e fascista nei suoi metodi. Israele è lo strumento del movimento sionista, e base geografica per l’imperialismo mondiale collocato strategicamente in mezzo alla patria araba per combattere le speranze della nazione araba per la liberazione, l’unità e il progresso. Israele è una costante fonte di minaccia nei confronti della pace in medio oriente e nel mondo intero”. Stando così le cose secondo la Carta nazionale palestinese, appare del tutto conseguente che, come recita l’art. 9, “la lotta armata è l’unico modo per liberare la Palestina” e che, come pleonasticamente indicato nell’art. 15, “la liberazione della Palestina mira all’eliminazione del sionismo in Palestina”. Perché, ed ecco finalmente la parte propositiva, in positivo, costituita dall’art. 16, “la liberazione della Palestina, dal punto di vista spirituale, fornirà alla Terra Santa un’atmosfera di sicurezza e tranquillità, che a sua volta salvaguarderà i santuari religiosi del paese e garantirà la libertà di culto e di visita a tutti, senza discriminazioni di razza, colore, lingua o religione. Di conseguenza, il popolo palestinese guarda a tutte le forze spirituali del mondo per il sostegno”.

Gli ebrei sono ricordati nella Carta nazionale palestinese solo e soltanto per sottolineare, come recita l’art. 20, che “rivendicazioni di legami storici o religiosi degli ebrei con la Palestina sono incompatibili con i fatti della storia e la vera concezione di ciò che costituisce lo stato (…) Né gli ebrei costituiscono un’unica nazione con una propria identità; sono cittadini degli stati a cui appartengono”. E con questo il discorso, mai davvero aperto, è chiuso a doppia, triplice mandata. Anche perché un’analisi statistica della Carta nazionale palestinese mette allo scoperto il vero sentimento, che per la verità è già assai scoperto di per sé, che la percorre tutta da cima a fondo: fare la festa a Israele, detto in soldoni. E infatti il sostantivo “democrazia”, in questa che è pur sempre una sorta di Carta costituzionale a tutti gli effetti, ricorre zero volte. Idem per l’aggettivo democratico: zero. Come dichiarazione di intenti di quello che vuole essere lo stato palestinese, non è male. In compenso “liberazione” è il lemma che compare più volte nei 33 normalmente assai esigui articoli della Carta: 29 volte, poco meno degli articoli stessi (alle quali andrebbero però aggiunte anche le 3 volte in cui compare il verbo “liberare”), 19 delle quali con la specificazione “della Palestina”; le altre con quella “del proprio paese”. Liberazione che comporta, ed ecco il punto che merita una energica sottolineatura: una “rivoluzione armata” (6 volte), una “lotta armata” (4 volte), e perfino, senza altre aggettivazioni, dal momento che il vocabolo in sé già le racchiude tutte, una “guerra” (3). O pur anche, senza aggettivi affiancati ma pur sempre inequivocamente: una “lotta” (6) o una “rivoluzione” (2). Dopo “liberazione”, “popolo” – che del resto è quasi sempre l’oggetto, specificato anche quando non ce ne sarebbe bisogno, della stessa liberazione – è il vocabolo più frequentemente usato nella Carta. Un popolo ch’è sì 19 volte il popolo della Palestina o palestinese, ma le altre 9 è ancora più puntualmente specificato come arabo- palestinese – vera dichiarazione di appartenenza a un campo che comunque non riconosce Israele, quando non ne vuole o non ne auspica la cancellazione dalle carte geografiche.

E dunque, in estrema sintesi, la Carta nient’altro rappresenta che la dichiarazione della volontà del popolo palestinese di liberarsi dal sionismo con le armi in pugno e ricorrendo a tutte le forme possibili di opposizione violenta (lotta, rivoluzione, guerra), giacché gli ebrei non possono rivendicare legami di alcun tipo con la Palestina, mentre Israele è quella fonte di minaccia per la pace in medio oriente e nel mondo intero che occorre togliere di mezzo affinché torni in “Terra Santa un’atmosfera di sicurezza e tranquillità, che a sua volta salvaguarderà i santuari religiosi del paese e garantirà la libertà di culto e di visita a tutti, senza discriminazioni di razza, colore, lingua o religione”.

Benny Morris, il capofila dei nuovi storici israeliani, si chiede al riguardo, senza tanti giri di parole, nel suo “Due popoli una terra. Quale soluzione per Israele e Palestina?”: “Quale società arabo-musulmana dell’epoca moderna ha trattato con tolleranza o come eguali i cristiani, gli ebrei, i pagani, i buddhisti o gli induisti? Perché mai dovremmo credere che i musulmani arabo-palestinesi si comporterebbero diversamente?”. Niente, in effetti, non un atto, una dichiarazione, un’iniziativa garantisce che una volta tolto di mezzo Israele la Palestina diventerebbe questa conclamata oasi di pace. La Striscia di Gaza, che avrebbe potuto rappresentare un esperimento di autogoverno palestinese da quando nel 2005 gli israeliani si sono ritirati da quei luoghi, racconta un’altra storia, apre a possibilità ben diverse da quelle così spudoratamente ireniche prospettate nella Carta.

Ecco, questo è il retroterra di quel che (non) succede oggi nella popolazione stipata negli striminziti 360 chilometri quadrati della Striscia di Gaza. Che non una voce, una critica, una protesta si alza da Gaza e dalla sua popolazione per spingere Hamas a fare la sua parte per arrivare almeno a una seria trattativa di pace dopo l’incendio provocato il 7 ottobre 2023, giorno di un pogrom che ha pochi precedenti nella pur sterminata storia dei pogrom contro gli ebrei per crudeltà, efferatezza, sadismo. Indicatore di un odio che sbaglieremmo a definire viscerale, aggettivo che ha qualcosa di troppo umorale e immediato, troppo legato al presente, mentre l’odio di Hamas verso Israele e gli ebrei è odio di lunga lena che viene da molto lontano, da ben prima che Hamas nascesse, figlia proprio di quell’odio, un odio ch’è incistato nella sua stessa natura di organizzazione islamista fondamentalista. Un odio nient’affatto dissimile da quello del popolo palestinese che non a caso assegnò ad Hamas la vittoria nelle elezioni del 2006, le prime e ultime dopo l’evacuazione della Striscia da parte israeliana, e spianò la strada alla presa violenta del potere assoluto da parte di Hamas nel 2007. “Solo gli sciocchi e i bambini potevano essere convinti”, ragiona Morris, “che Hamas avesse battuto Fatah soltanto perché aveva un’immagine non segnata dalla corruzione o distribuiva aiuti ai poveri. Entrambi questi aspetti hanno certamente contribuito al successo elettorale di Hamas, ma le ragioni alla base della sua vittoria sono state di carattere religioso e politico: la crescente religiosità delle masse palestinesi e il loro riconoscimento che Hamas ‘incarna la verità’ e, con l’aiuto di Allah, le condurrà alla vittoria finale sugli infedeli”.

A proposito di questo pogrom, ecco come presenta i fatti, alla voce Hamas, Wikipedia: “Nell’ottobre 2023, Hamas ha lanciato una massiccia offensiva militare anche all’interno dei confini israeliani, durante la quale sono stati accusati di aver commesso diversi crimini di guerra”. Ma nel suo sgrammaticato e ipocritamente compassato incedere (mai pogrom così feroce fu chiamato “offensiva militare”, mentre l’espressione “sono stati accusati di aver commesso” lascia che una cortina d’incertezza oscuri la più che documentata realtà criminale di stampo, essa sì, genocidario), la stessa Wikipedia sembra volersi unire a una disinformatia alla Putin che, segnatamente in Italia, ne ha fatta di strada. Non si paga dazio a sparlare d’Israele, ecco quanto. Questa era anche l’intima convinzione di Arafat, quando rifiutò la proposta dei due stati di Barak e Clinton. Arafat diede infatti il gran rifiuto in quanto sapeva che non avrebbe pagato dazio, anzi; che ad aspettarlo avrebbe trovato al suo ritorno non semplicemente luogotenenti, militari e clientele ma, fatte le debite approssimazioni, un popolo intero che si sarebbe riconosciuto nella fierezza che aveva dimostrato non piegandosi ad alcun compromesso, rifiutandosi sdegnosamente di scendere nei dettagli di quella soluzione definitiva della quale pure i palestinesi ancora ricordano ossessivamente al mondo i nodi centrali: i profughi, Gerusalemme, il Monte del Tempio, e non soltanto i confini territoriali in se stessi – in relazione ai quali c’è peraltro da aggiungere che per quel 4-6 per cento della Cisgiordania che sarebbe rimasto agli ebrei, in quanto ormai occupato dagli stanziamenti dei coloni, erano previste, nella proposta di accordo Barak-Clinton, compensazioni prese dal territorio israeliano.

L’atteggiamento di Arafat in quell’ultimo scorcio del 2000 diventa così la perfetta cartina di tornasole che ci suggerisce ancora oggi, con Hamas imperante nella sua plumbea vocazione terroristica, come non ci sia da aspettarsi nulla dalla Striscia in termini di opinione pubblica palestinese capace di esercitare una qualche pressione affinché l’atteggiamento di Hamas sia più duttile e disponibile a intavolare vere trattative di pace e, più in generale, a un diverso atteggiamento verso Israele. Il dato di fatto puro e semplice è che non c’è alcuna opinione pubblica nella Striscia, tra i palestinesi. “Una semplice occhiata alla Cisgiordania e alla Striscia di Gaza oggi”, è ancora Morris che parla, “rivela un panorama dominato dai minareti delle moschee che si moltiplicano a vista d’occhio [mentre] per le strade riecheggiano richiami alla preghiera dei muezzin e i vicoli sono pieni di donne che indossano l’hijab”. Non è precisamente una realtà che si presti allo sviluppo di una qualche (libera) opinione pubblica, questo.

E così la fierezza che maschera l’irragionevolezza di Arafat ha radici profondissime che, da allora, non sono state minimamente intaccate. Che, anzi, se possibile, sono sprofondate con Hamas ancor più nel terreno circostante da far sembrare ogni tentativo non si dica di estirparle – impresa fuori dalla possibilità – ma di indebolirne e rendere più malleabile la presa un obiettivo che ha sparute probabilità di essere raggiunto.

L’impossibilità dell’opinione pubblica “A volte si sostiene che la causa del mutato rapporto tra oriente e occidente non stia nel declino del medio oriente, ma piuttosto nell’ascesa dell’occidente: le grandi scoperte, il progresso scientifico, la rivoluzione tecnologica, industriale, politica che hanno trasformato l’occidente e accresciuto enormemente la sua ricchezza e la sua potenza. Ma questo argomento non è una risposta: è solo un invito a riformulare la domanda: perché chi scoprì l’America salpò dalla Spagna e non dai porti musulmani sull’Atlantico, da cui infatti erano partiti analoghi tentativi in passato?”.

Bernard Lewis, a conclusione del suo “Il suicidio dell’Islam. In che cosa ha sbagliato la civiltà mediorientale” riassume in questo interrogativo, tanto all’apparenza semplice quanto problematico nella sostanza, la necessità per i musulmani di passare dalla domanda: che cosa ci hanno fatto gli altri? (l’occidente, il capitalismo, l’imperialismo, gli ebrei, l’America, i non musulmani, il mondo non islamico), a quella ben più pertinente: che cosa abbiamo fatto noi musulmani (all’islam e a noi stessi)?

I musulmani mostrano un’inscalfibile propensione a sentirsi e atteggiarsi a vittime sempre e comunque, quale che sia il contesto e la questione, degli occidentali e della storia, così da non dovere analizzare criticamente alcunché del proprio passato ma piuttosto assolversi da ogni colpa anche futura – di cui non li sfiora il sospetto, non ritenendo di averne alcuna per il declino dell’islam che non sia, semmai, quella di essersi troppo allontanati dall’insegnamento del Corano.

“Quelli che conosciamo come fondamentalisti islamici attribuiscono gli insuccessi e le carenze che affliggono i paesi islamici moderni all’aver adottato idee e usanze altrui”, continua Lewis. “Questi paesi si sarebbero allontanati dall’autentico islam perdendo quindi la primitiva grandezza. I cosiddetti modernisti o riformatori sono dell’opinione contraria, e individuano la causa di questa perdita non nell’abbandono, ma nel mantenimento di sistemi antiquati, e in particolare nella rigidità e nell’onnipotenza del clero islamico”. Interpretazioni contrapposte che niente e nessuno può tenere insieme, e in ciò sta precisamente la difficoltà – l’impossibilità? – ormai secolare dell’islam di uscire dalla sua arretratezza. Anche perché ad avere concretamente vinto la partita sono almeno fino a questo momento i primi, i fondamentalisti islamici. E questo non secondariamente in quanto il Corano, diversamente dalla Bibbia, non ammette esegesi, interpretazioni, commenti: il Corano semplicemente “è” parola di Allah, trasmessa per il tramite di Maometto, sul rispetto della quale in ogni istante e azione della vita di un buon musulmano sovrintende, onnipresente e rigido, e altresì permeato di fanatismo religioso, il clero islamico. Cosicché si capisce bene come la domanda “perché chi scoprì l’America salpò dalla Spagna e non dai porti musulmani sull’Atlantico?” finisca con l’interessare ben più noi occidentali che i musulmani, più dell’islam il mondo non islamico, più dell’oriente l’occidente. Le masse arabo-palestinesi sono sostanzialmente estranee a questo interrogativo, al quale, semmai vi fossero costrette, troverebbero comunque una risposta che addossa la responsabilità alla prepotenza e alla perfidia occidentali.

La fierezza irragionevole di Arafat, e delle masse che o platealmente o sentimentalmente ne condivisero l’orgoglioso insuccesso del 2000 a Camp David, è solo all’apparenza, e solo per noi, nient’affatto per i musulmani, irragionevole. Il primo grande leader del movimento nazionale palestinese, e maestro di Arafat, l’uomo da cui Arafat più ha preso su tutti i piani, religioso, culturale e politico, Haj Amin al-Husseini – amico personale di Hitler, odiatore degli ebrei da non riuscire a nascondere nemmeno con la fine della guerra la sua profonda amarezza per non essere riuscito il terzo Reich a realizzare l’obiettivo della soluzione finale dello sterminio degli ebrei, impresa alla quale dette pure, assieme ai volenterosi palestinesi di allora, il suo modesto ma spassionato contributo – era un religioso autocratico che governava con le armi in pugno e spingeva continuamente il suo popolo ad agire contro gli “invasori infedeli” ricorrendo a un tipo di linguaggio incendiario che toccava i cuori dei palestinesi, li infiammava fino a traboccarne. Arafat da quell’insegnamento veniva, per quanto l’avesse smussato e aggiornato, da politico consumato quale era, per ingraziarsi i progressisti e gli stessi governi occidentali dei quali sapeva di non poter fare a meno, se non intendeva confinarsi in un ghetto che l’avrebbe costretto alla marginalità. L’irragionevolezza di Hamas oggi è in fondo della stessa pasta di quella di Arafat ieri: nient’affatto irragionevole; una ragionevole doppiezza, piuttosto, che nel mentre prova a decimare quelli che considera gli “invasori” ebrei a suon di missili, strizza l’occhio all’occidente, alle sue élite culturali, le sue avanguardie accademiche, le sue masse studentesche che hanno riportato in auge la kefiah e Frantz Fanon, la sua più generale opinione pubblica (questa sì tale a tutti gli effetti) riflessiva e terzomondista desiderosa di intestarsi una causa, quella palestinese, capace di risollevare ed emendare coscienze intorpidite dai fin troppi accomodamenti con il tanto vituperato potere. Guardate, dice questa strizzatina d’occhi, che noi di Hamas, noi palestinesi, noi arabopalestinesi non possiamo fare meno di così, siamo perfino troppo moderati, troppo buoni, in fondo non vogliamo altro che affermare i nostri diritti sulla nostra terra, quella terra sulla quale gli ebrei non possono muovere “rivendicazioni di legami storici o religiosi incompatibili con i fatti della storia”.

Siamo in piena taqiyya, l’arte della dissimulazione, l’arte di nascondere finanche la propria fede, e di simulare atteggiamenti condiscendenti e perfino amichevoli con il nemico da parte dei musulmani quand’essi si sentano a ciò autorizzati dall’incombenza, secondo il loro sentire, di un pericolo per l’islam e la vera religione. Arte di cui Arafat si è avvalso in lungo e in largo poi lasciandola in eredità ad Abu Mazen e il suo incartapecorito entourage ma ancor più ad Hamas, a cui si deve riconoscere la capacità di averla innalzata a vette altissime per fattura e tenuta. Quell’Hamas che, nel mentre trasforma la Striscia in un’autentica città-stato della guerra e del terrore contro Israele, fortificata nel sottosuolo in anni e anni di finanziamenti e complicità occidentali che hanno pochi precedenti per autorevolezza ed estensione, si erge a paladina dei diritti di un popolo, quello palestinese, che pretende e dipinge come schiacciato da Israele, in realtà prigioniero, ma non contro la sua volontà – questa sì che è una pia illusione tipicamente occidentale – della stessa Hamas, del suo fondamentalismo fanatico che origina in primo luogo da una frustrazione storica di lunga data per aver lasciato che le navi che scoprirono l’America salpassero dalla Spagna e non da uno dei tanti porti musulmani sull’Atlantico e per non riuscire ancora oggi a porsi la domanda: come fu che successe in quel modo? E che la storia da allora virò in direzione dell’occidente lasciando l’islam ad arrancare nelle retrovie?

Già, come fu? “Per alcuni una delle cause principali del progresso occidentale è stata la separazione tra chiesa e stato e la creazione di una società civile governata da leggi laiche”, dice ancora Bernard Lewis. “Per altri, il primo colpevole è il maschilismo musulmano e la riduzione delle donne a uno stato di inferiorità sociale, che priva il mondo islamico delle doti e delle energie di metà della popolazione, e affida i primi anni cruciali di educazione a madri avvilite e analfabete. I prodotti di una simile educazione, è probabile che crescano arroganti o sottomessi, e inadatti a una società libera e aperta”. Inadatti a una società libera e aperta. Lo si vede nell’incapacità stessa della Striscia di Gaza di dar vita – finché continuerà lo strapotere di Hamas e del suo fondamentalismo religioso, del suo complottismo che vede nell’occidente, e segnatamente in Israele e negli Usa, il satana proteso all’umiliazione dell’islam – a una qualche autentica forma di opinione pubblica che sopravanzi culturalmente, ma anche spiritualmente e politicamente, se possibile fino al punto da cancellarla, l’indistinta massa stillante dolore e odio di donne nascoste nell’hijab e maschi armati fino ai denti. Una massa prigioniera di un pensiero sedimentato nella macerazione dei lutti, delle disgrazie e dei pianti, e nell’eredità mai venuta meno dell’odio nei fatti più ancora suicida che omicida per Israele.

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