Abu Mazen deve affrontare o no il terrorismo palestinese? due opinioni a confronto
Testata: Il Foglio Data: 22 agosto 2003 Pagina: 2 Autore: Danny Rubinstein - Maria Giovanna Maglie Titolo: «Perchè non si può chiedere ad Abu Mazen di fare una guerra civile»
Riportiamo i due seguenti articoli a confronto sulla possibilità di fare la guerra civilie ai gruppi terroristici palestinesi.
Il primo è firmato da Danny Rubinstein: "Perchè non si può chiedere ad Abu Mazen di fare una guerra civile" Neppure il sanguinoso attentato suicida di Gerusalemme porterà il primo ministro palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) a perseguire inesorabilmente gli attivisti di Hamas e della Jihad islamica. Né lui né i suoi ministri all’interno del governo palestinese useranno la forza per contenere i fanatici islamici; non confischeranno neppure le loro armi. Abbas e il suo ministro agli affari della Sicurezza, Mohammed Dahlan, sono senza dubbio sotto forte pressione da parte degli americani, che si aspettano un’azione di questo tipo; anche il governo israeliano insiste su questo punto, ma nella presente situazione, nella West Bank e nella striscia di Gaza, semplicemente non è possibile. A Gaza, apparentemente, non dovrebbe essere un problema per Abbas e Dahlan mettere a tacere Hamas e Jihad con la linea dura. Là, le forze di sicurezza pagano circa cinquantamila persone. Molte di queste portano armi e, quantitativamente, sono molto più numerose di quelle che possiedono armi nelle organizzazioni islamiche. Fonti di intelligence, sia israeliane sia palestinesi, stimano che i membri dei gruppi armati di Hamas e Jihad (le brigate al Qassam e le brigate al Quds) siano diverse centinaia, forse migliaia. Quindi non dovrebbero esserci problemi per l’Autorità palestinese nell’affrontarli. Ma la questione non riguarda soltanto il numero di soldati presenti nei due schieramenti. L’opinione pubblica è molto importante, e a Gaza ci sono segni che indicano che il livello del sostegno pubblico alle organizzazioni islamiche non è inferiore a quello del supporto all’Autorità palestinese. Inoltre, se Abu Mazen decidesse di usare la forza contro i musulmani radicali, quasi sicuramente la percentuale di sostegno a loro favore aumenterebbe, e Abu Mazen sarebbe considerato un traditore, al servizio di Israele nel favorire una guerra civile. Gli attivisti di Hamas e Jihad hanno spesso provato di non dare segni di cedimento. Circa un anno fa, per esempio, alcuni membri di Hamas, del clan di al Aql, del campo profughi di Nuseirat, uccisero Rjah Abu Lehiyya, un ufficiale superiore delle forze di sicurezza palestinesi. Lo rapirono in una strada principale di Gaza e lo giustiziarono perché l’anno prima aveva aperto il fuoco per disperdere degli studenti sostenitori di Hamas, uccidendone tre. Gli agenti della sicurezza palestinese che andarono al campo profughi di Nuseirat ad arrestare gli assassini, furono attaccati da centinaia di abitanti del luogo e fuggirono. Per molti mesi, rappresentanti dell’Autorità palestinese negoziarono con il clan di al Aql e con Hamas per calmare le cose. Un altro incidente è avvenuto poche settimane fa, quando un missile è stato lanciato sull’ufficio del generale Moussa Arafat, il capo dell’intelligence militare, che si è miracolosamente salvato. Questi sono esempi della determinazione dei fanatici musulmani, il cui portavoce, Abed al Aziz al Rantisi, ha dichiarato con grande cinismo, dopo l’attacco terroristico a Gerusalemme, che questo episodio non dovrebbe essere visto come la fine della hudna. "La hudna continua, ma anche la nostra risposta ai crimini del nemico sionista continua", ha detto Rantisi, che ha completamente giustificato l’attacco terroristico. (Ieri, dopo la risposta militare israeliana all’attentato di martedì, Hamas e Jihad hanno proclamato la fine della tregua, ndr).
Sarebbe un suicidio, forse non solo politico In contrasto con la determinazione islamica a Gaza, la fiacchezza e la titubanza delle organizzazioni di sicurezza palestinesi sono evidenti. Tornando indietro, quando le televisioni palestinesi filmarono gli arresti degli attivisti di Hamas a Gaza, i poliziotti palestinesi furono ripresi con il viso coperto. Non si trattava della polizia segreta, ma di agenti regolari. Forse nascosero le loro facce per l’imbarazzo di quello che stavano facendo e forse perché avevano paura che gli arresti venissero poi vendicati. Questa è la situazione a Gaza, dove le organizzazioni di sicurezza sono state duramente danneggiate. Nella West Bank, tuttavia, il sistema di sicurezza palestinese è stato quasi completamente spazzato via nell’operazione Muro di difesa della primavera del 2002. L’eliminazione del sistema di sicurezza palestinese nella West Bank ha nei fatti trasferito la responsabilità della sicurezza nelle città della regione dalle mani dell’Autorità palestinese a quelle delle forze di difesa israeliane. Di conseguenza, è persino difficile criticare Abu Mazen e Dahlan perché non stanno sopprimendo con forza le organizzazioni islamiche a Nablus, Jenin, Hebron. Abu Mazen può, quindi, mettere in guardia Hamas, essere in collera con gli attivisti e interrompere i contatti con loro. Ma se proverà ad affrontarli sarà, per quanto lo riguarda, un atto di suicidio politico, e forse non soltanto politico. E il secondo, "Perchè si deve chiedere ad Abu Mazen di affrontare una guerra civile", è firmato da Maria Giovanna Maglie. La luna di miele per Abu Mazen e il suo fido, dipinto come molto cattivo ma molto tenero rivelatosi alla prova dei fatti, Mohamed Dahlan, è finita, essendo durata ben più del ragionevole, spiegabile solo con la convinzione autentica del moderato Ariel Sharon di trovare un compromesso di pace anche a caro prezzo, e con la convinzione pure autentica dell’Amministrazione Bush, un po’ tirata per la giacchetta dall’ottimista segretario di Stato, Colin Powell, che un frutto di negoziato, a Saddam sconfitto, fosse costruibile sia pur con fatica. La bomba del "martire" – non li chiama così anche il premier palestinese, non ha inaugurato scuole dedicate agli stragisti suicidi – del bus di mercoledì a Gerusalemme era prevedibile già da qualche settimana, resa possibile da un allentamento dei controlli del quale ora Ariel Sharon rischia di pagare il prezzo politico, resa possibile dalla mancata reazione israeliana ad altri attentati, che avevano fatto meno vittime, resa possibile da gesti unilaterali di buona volontà, la liberazione di centinaia di prigionieri, la distruzione di avamposti, scambiati da gesti di debolezza. Non è in una fase facile il primo ministro di Israele, uno scandalo finanziario nel quale è coinvolto suo figlio lo tartassa, e tutta la sua credibilità si stava giocando sulla road map, e sulla voglia di pace di un popolo e di uno Stato esausti di terrorismo; non è in una fase facile Sharon, ma è stato ai patti, ha rispettato l’impegno preso a giugno al vertice di Aqaba. Abu Mazen, o se preferite Mahmoud Abbas, non sarà un caso se il nome di battaglia gli resta ostinatamente appiccicato addosso anche ora che indossa giacche sartoriali, i patti pur presi ad Aqaba non li ha onorati mai, se non a parole, a chiacchiere. Infatti Abu Mazen non ha mai non solo intrapreso, ma nemmeno inteso intraprendere una campagna politica e una campagna di polizia per disarmare e smantellare le cellule terroristiche che già da qualche tempo non sono divisibili l’una dall’altra, anzi che di concerto decidono e delinquono, e se non hanno l’esplicito appoggio e il comando in Yasser Arafat, circostanza della quale chi scrive è convinta, certo hanno nel vecchio rais che l’Europa ha continuato ad allisciare, nuocendo così ad Abu Mazen, un osservatore compiaciuto. Arafat si sente talmente tanto il presidente di un popolo che aspira alla pace e a uno Stato che ogni colpo dato al nuovo governo, che lui non voleva e che gli Stati Uniti hanno imposto insieme a qualche paese arabo di migliore volontà, è per lui una gioia pura. Qualche giorno fa, al senatore americano John McCain in visita, che gli chiedeva se il rais non fosse per lui un impedimento, Abu Mazen ha risposto a mezza bocca che sì, certo che sì, ma ai governanti, ai negoziatori che lo hanno visitato, soprattutto ai palestinesi, il coraggio di dire la verità non lo ha avuto. Anzi, lui e Dahlan giù a dire che la guerra civile mai, che i terroristi, i compagni che sbagliano, sarebbero stati convinti dal dialogo, dalla persuasione, e dalla nuova condizione che Israele avrebbe contribuito a creare. Ora, la road map, il percorso di pace messo su dal Quartetto, Stati Uniti, nella persona di Powell, Unione europea, Russia e Nazioni Unite, a ben leggerla resta una Oslo dei poveri, una dichiarazione di intenti piuttosto che un progetto forte e autorevole, ma su una cosa il testo è chiaro, si fanno passi avanti ogni volta che una delle condizioni base è stata onorata. Come a Monopoli. La condizione di base per i palestinesi era ed è il famoso "crackdown" dei terroristi, insomma la promessa mantenuta di farli fuori, a ogni costo, tanto peggiore di così la situazione non può essere. Così s’era detto ad Aqaba, e Abu Mazen aveva parlato in arabo. Poi non ha fatto niente, e pure la pantomima di tregua appena infranta è frutto della mediazione degli egiziani, non della sua autorevolezza. Scrive su The New Republic, Yossein Alevi, uno dei più acuti e dolenti osservatori di Israele, che l’uomo è sempre stato così, un codardo, che anche a Oslo, dov’era negoziatore in capo, quando era il momento di prendere una decisione, coraggiosa, lui, parola di testimone, aveva sempre qualcosa d’altro da fare, il figlio da andare a vedere, una vacanza prevista da tempo. Adesso che la luna di miele è finita, gli toccherà prenderla una decisione, o di road map in pochi giorni non si parlerà più, troppo alta la sproporzione fra quel che si chiede a Israele e quel che non si chiede ai palestinesi. Il vero suicidio lo commette non facendo niente. Non servono in questo momento opinioni rinunciatarie come quella di Rubinstein. Per due mesi, accecato dall’amor di opposizione e dall’odio per Sharon, anche Haaretz ha sostenuto che la hudna fosse una cosa seria. Un abbaglio. Invitiamo i lettori di informazionecorretta.com ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. 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