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Ben Cohen
Antisemitismo & Medio Oriente
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Essere alla deriva a Parigi e a Londra 30/06/2024

Essere alla deriva a Parigi e a Londra
Commento di Ben Cohen
(Traduzione di Yehudit Weisz)
https://www.jns.org/down-and-out-in-paris-and-london/

Negozio di ebrei vandalizzato a Londra. Un gruppo di studenti ebrei è stato aggredito da una gang antisemita a una stazione del treno a Londra. E a Parigi è ancora forte il trauma per lo stupro "punitivo" di una 12enne ebrea. Le due grandi capitali europee alla deriva.

Nel mio ultimo articolo avevo scritto dello stupro di una ragazzina ebrea di 12 anni avvenuto a Parigi per mano di tre ragazzi di appena un anno più grandi di lei, che l'hanno inondata di insulti antisemiti mentre compivano un atto di violazione fisica che ricordava i peggiori eccessi del pogrom di Hamas del 7 ottobre nel Sud di Israele. Questa settimana mi aggancio ad un altro atto di violenza, meno terrificante e meno traumatico, ma che analogamente suggerisce che la maggior parte degli ebrei d’Europa  ormai si trova in evidente pericolo.

La settimana scorsa un gruppo di giovani ragazzi ebrei che frequentano la rinomata Hasmonean School di Londra è stato aggredito da una gang di teppisti antisemiti. L'attacco è avvenuto alla stazione di Belsize Park  della metropolitana di Londra, in un quartiere con una demografia e una sensibilità simili all'Upper West Side di New York, in quanto ospita una numerosa e consolidata popolazione ebraica con negozi, bar e sinagoghe al servizio di quella comunità. Secondo la madre di uno dei ragazzi ebrei, un undicenne, la gang “ha superato mio figlio e ha preso a calci uno dei suoi amici buttandolo a terra. Stavano cercando di spingere un altro ragazzo verso i binari. L'hanno portato fino alla linea gialla.” Quando il figlio della donna ha coraggiosamente cercato di intervenire per proteggere i suoi amici, è stato inseguito e colpito con una gomitata in faccia, che gli ha staccato un dente. “Vai via dalla città, ebreo!” gli ha detto la gang. Da dopo l'aggressione, suo figlio ha dei problemi a dormire. “Mio figlio è molto scosso. Non è riuscito a dormire la notte scorsa. Lui mi ha detto: 'Non è giusto. Perché ci fanno questo?', ha riferito. “ Noi amiamo questo Paese”, ha aggiunto la Signora, " ne facciamo parte e diamo il nostro contributo, ma ora siamo presi di mira esattamente nello stesso modo in cui lo furono gli ebrei nel 1936 a Berlino. E per la prima volta nella mia vita, sono terrorizzata all'idea di usare la metropolitana. Cosa sta succedendo?” La donna e la sua famiglia potrebbero non restare a Londra abbastanza a lungo per scoprirlo. Secondo The Jewish Chronicle , stanno pensando di "fuggire" dalla Gran Bretagna, un verbo che speravamo di non sentire ripetere mai più  in un contesto ebraico, dopo lo sterminio di massa che abbiamo subito nel secolo scorso. Ed invece eccoci qui. Quando ero uno studente a Londra, avevo un insegnante di storia che ci diceva sempre che non esistono due situazioni esattamente uguali. “Ragazzi, i paragoni sono odiosi” diceva ripetutamente alla classe. E’ stata un'informazione su cui ho a lungo riflettuto e che credo sia tuttora valida. Ci sono ragioni strutturali che spiegano perché gli anni ’20 del 2000 sono diversi dagli anni ‘30 del 1900 in modi significativi. Per prima cosa, le società europee sono più prospere e meglio attrezzate per affrontare conflitti sociali e lotte economiche rispetto a un secolo fa. Anche le leggi sono più esplicite nelle protezioni che offrono alle minoranze, e sono più punitive per i crimini d'odio e per l'incitamento all'odio. Forse però la cosa più importante è che esiste uno Stato ebraico che ha appena 80 anni, dove tutti gli ebrei possono stabilirsi se lo desiderano.  Ma è proprio lì che sta il problema. Dal 1948, Israele ha permesso agli ebrei dentro e fuori lo Stato ebraico di stare a testa alta e di sentirsi come se fossero un partner nel sistema delle relazioni internazionali, piuttosto che un gruppo vulnerabile e soggiogato alla mercé degli Stati in cui vivevamo come minoranza spesso odiata. L'esistenza di Israele è il fiore all’occhiello dell'emancipazione ebraica, che suggella quello che credevamo essere il nostro nuovo status, in cui siamo trattati come pari e dove l'antisemitismo che ha tormentato i nostri nonni e bisnonni è diventato un tabù. Se Israele rappresenta la più grande conquista del popolo ebraico negli ultimi 100 anni, non c'è da meravigliarsi che sia diventato l'obiettivo principale degli antisemiti di oggi. E se dopo le atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre una cosa è chiara, è che l’esistenza di Israele non è qualcosa che gli ebrei - con l’eccezione di quella piccola minoranza di antisionisti che eseguono gli ordini degli antisemiti e che fanno eco alla loro ignoranza e fanatismo - sono disposti a scendere a compromessi. Ciò che è cambiato è che è sempre più difficile per gli ebrei rimanere nei Paesi in cui vivono e allo stesso tempo esprimere le proprie simpatie sioniste.  A causa di queste simpatie veniamo attaccati sui social media, nelle manifestazioni e sempre più nelle strade da persone prive di senso morale, che considerano i nostri figli come obiettivi legittimi. Pertanto, è difficile evitare la conclusione che, anche se gli anni ’20 del 2000 potrebbero non essere gli anni ’30 del 1900, di sicuro sembra di vivere  nel 1930. E così ritorna l’annosa questione: gli ebrei, soprattutto quelli in Europa, dove devono confrontarsi con la manovra a tenaglia delle crescenti popolazioni musulmane e con una rinascente estrema sinistra schiava della causa palestinese, dovrebbero restare dove sono, o dovrebbero alzare i tacchi e trasferirsi in Israele? Dovremmo pensare, vista l’ondata di antisemitismo degli ultimi mesi, di rinunciare anche all’America? Ero solito avere una visione chiara di tutto questo. Aliyah è il più nobile degli obiettivi sionisti e dovrebbe essere incoraggiato, ma ho sempre resistito all’idea che ogni ebreo dovrebbe vivere in Israele: in primo luogo, perché un Israele forte ha bisogno di comunità della diaspora attive, vivaci e che possano sostenerlo nei corridoi del potere; e in secondo luogo, perché trasferirsi in Israele dovrebbe idealmente essere un atto positivo motivato dall’amore, non un atto negativo spinto dalla paura. La mia visione in questi giorni non è più chiara come un tempo. Credo ancora che un Israele forte abbia bisogno di una diaspora forte, e penso che sia troppo presto per rinunciare agli Stati Uniti, un Paese in cui gli ebrei sono prosperati come non hanno mai fatto altrove nella diaspora. Eppure la situazione in Europa mi ricorda sempre di più l'osservazione del sionista russo Leo Pinsker in “Auto-emancipazione”, un saggio carico di sventura che scrisse nel 1882, durante un altro periodo oscuro della storia ebraica: “Non dovremmo convincerci che l'umanità e la mente illuminata saranno mai rimedi radicali per la malattia del nostro popolo.”  L'antisemitismo con cui abbiamo a che fare ora si presenta come “illuminato”, e si basa su una sconfinata simpatia per una nazione araba che si considera espropriata dai coloni ebrei. Quando i nostri figli ne sono vittime, questo antisemitismo cessa di essere una mera contestazione intellettuale e diventa una questione di vita o di morte. Come ebrei e come esseri umani, siamo obbligati a scegliere la vita, che, in ultima analisi, quando le sfumature scompaiono e il terrore ci perseguita, significa Israele.

Ben Cohen Writer - JNS.org
Ben Cohen, scrive su Jewish News Syndacate 


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