Riprendiamo da SHALOM online l'articolo di Claudia De Benedetti "Un minyan sull’Everest. Charly Taieb racconta la spedizione con una dedica per la liberazione degli ostaggi".
Claudia De Benedetti
Un minyan, un gruppo di dieci uomini ebrei adulti, ha scalato per il secondo anno consecutivo l’Everest con un Sefer Torà; Charly Taieb, carismatico e brillante comunicatore, tra gli artefici della spedizione, è rientrato da qualche giorno a Parigi e ha accolto l’invito di Shalom di raccontare il profondo significato spirituale di una settimana indimenticabile.
Come è nata l’idea?
Quando ho compiuto 60 anni ho deciso di regalarmi una esperienza fuori dal comune. Mi sono allenato per molti mesi ed ho compiuto con altri tre amici l’ascensione del Kilimangiaro. Quando sono rientrato ho pensato che avrei voluto condividere con un minyan una sfida estrema. Così è nato il minyan completo, non un uomo di più, non un uomo di riserva, per far sì che ognuno di noi sentisse su di se l’onere del progetto, fosse pienamente consapevole della sua unicità e della sua necessità per poter recitare le tefillot e per la lettura della Torà.
Come vi siete preparati?
Nessuno di noi è particolarmente sportivo, abbiamo età diverse, un allenamento eterogeneo, ma fin da subito ciò che ci ha accomunato è stato il desiderio di raggiungere un obiettivo comune.
Fede, resistenza e una dedica speciale?
Cominciamo dalla dedica: nei mesi successivi al 7 ottobre abbiamo deciso di dedicare la spedizione ai nostri fratelli israeliani vittime dei massacri di Hamas. Speravamo con tutto il cuore che gli ostaggi venissero liberati prima della nostra partenza. Con il passare dei giorni abbiamo avuto la certezza che purtroppo non sarebbe accaduto. Abbiamo portato con noi le fotografie dei due fratellini Bibas e di altri ostaggi per chiederne l’immediata liberazione, dal tetto del mondo abbiamo pregato per il rilascio immediato degli uomini, delle donne e dei bambini prigionieri.
Abbiamo sempre recitato le tefillot con il minyan fino a che alcuni di noi non hanno più avuto la resistenza fisica per proseguire, hanno dovuto fermarsi a 5500 metri di altezza malgrado la loro volontà di ferro.
Come avete trascorso lo Shabbat?
Durante le tappe che ci hanno condotto al campo base abbiamo incontrato molti israeliani, il venerdì li abbiamo invitati per condividere con loro la cena, eravamo in 35, l’atmosfera era meravigliosa, le storie personali di chi aveva amici o parenti in cattività ci hanno accompagnato i giorni successivi. Uno dei nostri ospiti ci ha colpito profondamente: era molto religioso ma si era allontanato dall’ortodossia, camminava tra India e Nepal, la settimana precedente si era sentito male, in quel momento aveva deciso di voler ritornare all’osservanza delle mitzvot, aveva chiesto ad Hashem di dargli ‘un segno’. Non scendo nei dettagli della storia ma ho la certezza che quello Shabbat è stato per lui il segno. Abbiamo riflettuto sul profondo legame che unisce il popolo ebraico alle montagne: da Abramo, con la sua salita sul monte Morià, a Mosè, con l’ascesa al Monte Sinai, al profeta Elia.
E Yom HaAtzmaut?
Nel nostro viaggio abbiamo portato la bandiera d’Israele sia lo scorso anno sia quest’anno, l’abbiamo mostrata con orgoglio prima di interrompere l’ascesa per il maltempo. Quest’anno, come per tutti noi ebrei, è stato difficile festeggiare. Abbiamo osservato un minuto di silenzio per Yom HaZikharon. Israele è con noi in ogni momento della nostra impresa, non ci abbandonerà mai.
Progetti per il futuro?
Tornare a scalare l’Everest, compiendo le mitzvot che ci rendono uomini migliori e celebrando il ritorno a casa di ognuno degli ostaggi.
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