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Libero Rassegna Stampa
16.06.2024 Parla Alain Finkielkraut
Intervista di Rodolfo Casadei

Testata: Libero
Data: 16 giugno 2024
Pagina: 1/24
Autore: Rodolfo Casadei
Titolo: «Essere di destra non è solo conservare, ma salvarci dal progresso sfrenato»

Riprendiamo da LIBERO di oggi, 16/06/2024, a pag. 1/24, con il titolo "Essere di destra non è solo conservare, ma salvarci dal progresso sfrenato", l'intervista di Rodolfo Casadei ad Alain Finkielkraut

Rodolfo Casadei
Alain Finkielkraut

Nel libro "Noi altri, i moderni" lei esprime il suo dispiacere di fronte all’impossibilità di veder nascere un’Internazionale. Pubblichiamo ampi stralci dell’intervista realizzata da Rodolfo Casadei per il settimanale Tempi allo scrittore e filosofo Alain Finkielkraut al quale oggi verrà consegnato il “Premio Luigi Amicone - Premio cultura città di Caorle 2024” in occasione del festival di tre giorni organizzato dalla rivista Tempi nella cittadina lagunare.
Alain Finkielkraut, accademico di Francia, autore di una ventina di libri che esaltano l’attualità di scrittori e pensatori come Charles Péguy, Hannah Arendt, Martin Heidegger, Walter Benjamin, Emmanuel Lévinas, Philip Roth, Milan Kundera, è una delle personalità più originali e dibattute del panorama intellettuale contemporaneo, sostenitore di un pensiero conservatore capace di collocarsi al di là dell’usurata dicotomia destra-sinistra.


Le disposizioni dell’Unione Europea in materia di “sviluppo sostenibile” come il Green Deal. Di quale ecologia avremmo bisogno oggi, e di quale ecologia invece dovremmo avere paura?
«L’ecologia di cui abbiamo bisogno non è quella di Greta Thunberg e del suo “Come osate!” furibondo. L’ecologia ufficiale ci spiega che abbiamo bisogno di un’alternativa alle energie inquinanti. Essa preconizza l’installazione e la diffusione degli impianti eolici, questi generatori aerei che hanno ricevuto il loro nome dalla mitologia greca. Ed è vero: gli impianti eolici riescono a rallentare il riscaldamento globale, attraverso la diminuzione delle emissioni a effetto serra. Soltanto, c’è un problema che gli ecologisti hanno dimenticato: i numeri non sono tutto. Gli impianti eolici trasformano le campagne in paesaggio industriale. L’uomo si ritrova circondato: nessuna via di fuga, nessuna trascendenza, egli è incarcerato. Si salva il pianeta per farne una sinistra galera. Questi mastodonti sono l’emblema dell’annientamento dell’uomo. Non conosciamo più la natura, ma la biosfera, la biodiversità, il bilancio del carbonio. Bisognerebbe che l’ecologia ridiscendesse sulla terra, che non si preoccupasse più del pianeta, ma di rendere abitabile la terra. Una terra imbruttita, atrocemente imbruttita, non è più abitabile.

A proposito di immigrazione extracomunitaria in Europa, lei ha affermato: «Se l’immigrazione prosegue al ritmo attuale (più di 500mila arrivi sul territorio francese nel solo 2022), il richiamo al vivere-insieme non sarà che una foglia di fico, e la disintegrazione diventerà ineluttabile». La quantità è un problema, ma non è l’unica fonte della disintegrazione. Quali sono le altre?
«Constato anzitutto che oggi la sinistra e il padronato sono d’accordo; condividono la stessa filosofia, la stessa ontologia: gli uomini sono intercambiabili. Ecco cosa vorrebbero farci credere. La sinistra ragiona in questo modo in nome del bel principio dell’universalità del simile.
Questo principio è stato attaccato, combattuto nel corso del XX secolo da parte di coloro che volevano installare al posto dell’umanità stessa la gerarchia delle razze. La memoria comanda dunque di riaffermare l’universalità del simile.
Questo ha condotto oggi a negare tutte le distinzioni fondatrici delle comunità politiche.
La differenza fra l’autoctono e (...) dei conservatori. In Italia il dibattito sul conservatorismo è vivo da quando la principale forza dell’attuale governo ha dichiarato il suo legame con questa corrente di pensiero. Ma al di là della divisione politica destra-sinistra, di che tipo di conservatorismo avremmo bisogno oggi?
«Paul Valéry ha questa frase magnifica: “A rovinare i conservatori è stata la cattiva scelta delle cose da conservare”. Il conservatorismo si è a lungo tempo identificato con la riproduzione dell’ordine sociale, col mantenimento dei privilegi, col rigido rifiuto dell’equalizzazione delle condizioni. Questo tipo di conservatorismo non ha più seguaci, anche la destra ha cessato di considerarlo proprio. Con ciò, non abbiamo ancora finito con l’idea di conservazione. Il progresso è effettivamente in crisi. Sorge un nuovo paradigma, definito molto bene dal filosofo Hans Jonas: Al principio di speranza, fondatore della modernità a partire da Cartesio e Bacone, succede, a poco a poco, il principio di responsabilità. E all’idea di cambiare il mondo quella di salvare ciò che può essere salvato. Certamente la terra, che soffre più che mai, ma anche la lingua, la cultura, la bellezza del mondo. Abbiamo bisogno di un’ecologia generale: “salvare” è diventato il verbo politico per eccellenza; salvare e non più cambiare».
Il voto alle elezioni europee è stato influenzato dallo straniero è rimessa in discussione, l’idea di preferenza nazionale è criminalizzata.
Quando i paesi europei cercano di riprendere il controllo delle loro frontiere, sono censurati dalle varie corti costituzionali. Ci parlano di un’Europa dell’ospitalità, contro tutto ciò che assomiglierebbe a una politica di chiusura. L’inferno è lastricato di buone intenzioni. Alcune settimane fa una sinagoga è stata incendiata a Rouen. L’autore di questo atto criminale è un algerino sottoposto a decreto di espulsione. Aveva fatto ricorso, e questo ha bloccato l’espulsione. Ma questo avvenimento ci mostra che l’antisemitismo che infuria qui da noi è un articolo d’importazione, anche se è appoggiato dalle formazioni politiche che vogliono trarre il miglior profitto elettorale dal cambiamento demografico. Quindi l’ospitalità si rivolta contro se stessa, l’Europa dell’ospitalità rischia di diventare domani un’Europa dell’antisemitismo. Però attenzione, non fatemi dire quello che non dico: non tutti gli immigrati provenienti dal Medio Oriente, dal Maghreb o dall’Africa sub-sahariana sono antisemiti: al contrario.
Ma i nuovi antisemiti, gli antisemiti attivi, vengono reclutati fra di loro. Per molto tempo ci è stato detto che non dobbiamo far subire agli immigrati la stessa sorte riservata agli ebrei che negli anni Trenta volevano sfuggire alle persecuzioni, ma bisogna dire che gli immigrati non sono i nuovi ebrei, e che gli ebrei sono i più esposti alla grande mutazione demografica di cui è teatro l’Europa. Perciò dobbiamo uscire dalle nostre illusioni, svegliarci, e soprattutto ricordarci che non è perché gli uomini sono simili che sono intercambiabili. Gli uomini hanno una genealogia, un’appartenenza, e di tutto questo occorre saper tenere conto perché la convivenza non sia una menzogna ridicola e pericolosa».

Nel suo ultimo libro, Pescatore di perle, ha scritto: «La democrazia, giunta al suo stadio ultimo, non sopporta alcuna forma di trascendenza. Dopo la fuoriuscita dalla religione, ecco giunto il tempo della fuoriuscita dalla cultura». Per salvare la cultura classica, la letteratura, la stessa trascendenza, è necessaria una rivalutazione sociale della religione, oppure lei vede altre vie?
«Il ritorno alla religione non si decreta. Dio si è ritirato. Egli non governa più le nostre esistenze. Ma ciò che oggi ci minaccia è il ritiro della cultura nel senso che l’umanesimo europeo ha saputo dare a questo termine. Vorrei citare a questo proposito un grande pensatore italiano, Eugenio Garin, e il suo libro L'educazione in Europa 1400-1600. Ecco cosa scrive: “Ogni affermazione umana si situa in relazione ad altre affermazioni. Soltanto i barbari ricominciano sempre facendo tabula rasa. La cultura rappresenta questo instradamento verso un’opera personale attraverso il tesoro delle opere altrui. L’educazione umanistica è fedele al principio secondo il quale si educa l’uomo mettendolo in contatto con gli uomini, perché grazie al tesoro della memoria, nel colloquio con gli altri, nel confronto con parole precise, e non false e banali, lo spirito è praticamente obbligato a ritrovare se stesso, a prendere posizione, a pronunciare a propria volta delle parole adeguate e precise. Secondo l’espressione lapidaria di Angelo Poliziano, ’alla scuola di Cicerone si impara non a essere ciceroniano, ma a essere se stessi’”. Dunque, si dice spesso che la modernità è il passaggio dall’eteronomia – la legge viene da Dio – all’autonomia – l’uomo fissa la sua propria legge. Le cose sono un po’ più complesse: per essere autonoma, l’autonomia stessa ha bisogno in qualche modo di eteronomia: l’eteronomia della cultura, un altro regime di eteronomia. Ecco cosa ci propone l’umanesimo, ed ecco cosa sparisce lentamente sotto i nostri occhi a vantaggio del nichilismo sfrenato e spaventoso del “tutto è uguale”».

Qualche settimana fa lei è stato in Israele. Con quali sentimenti di amarezza è tornato in Europa?
«Sono stato in Israele in aprile, impaziente di essere vicino agli israeliani e capire meglio i loro sentimenti dopo il 7 ottobre e le questioni legate alla guerra di Gaza. Ho voluto anzitutto affermare la mia solidarietà. Strano paese, Israele, aggredito in proporzioni monumentali il 7 ottobre, che fa la guerra e che non può nemmeno conoscere il conforto dell’unione nazionale, dell’essere tutti insieme.
Questo paese in guerra è anche allo stesso tempo un paese fratturato. Hamas è il nemico, il nemico che vuole non solo la sconfitta di Israele, ma la scomparsa di Israele e la morte degli israeliani. È questo il messaggio genocida del 7 ottobre. Al nemico bisogna rispondere con la guerra, ma Netanyahu è il problema perché chiude tutte le vie di uscita, fa sabotaggio a tutte le soluzioni. Allora ho compreso la profondità della lacerazione che Israele vive. Si tratta di due giudaismi che si affrontano, e non soltanto di due visioni politiche del mondo. Due giudaismi: un giudaismo della giustizia, quello del dono della Torah e del Sinai, e un giudaismo della promessa: questa terra è nostra, Dio ce l’ha promessa. Fra questi due giudaismi non c’è o non c’è più alcuna conciliazione possibile. Dunque è una questione davvero metafisica. Sono molto impressionato da quello che ho visto, ma allo stesso tempo sono stato affascinato dalla vitalità di questa società che affronta i suoi problemi interni nello stesso momento in cui è costretta a fare la guerra ed è oggetto di un’ostilità mondiale. E al mio ritorno ho visto in cosa consisteva questa ostilità, e cioè che con Israele rinasce un antisemitismo di una violenza inaudita.
Sartre diceva, agli inizi degli anni Sessanta, che ogni anticomunista era un cane. Era l’età dell’oro del radicalismo.
Il mondo si divideva in due forze, due blocchi, persino due umanità: quella che schiacciava e quella che non si lasciava schiacciare. Abbiamo creduto che questo semplicismo vertiginoso fosse stato abolito dalla scoperta dell’orrore e dell’impostura totalitaria. Non era vero. Il wokismo gli ha ridato vita. Il wokismo, cioè di nuovo la divisione del mondo fra oppressori ed oppressi, dominatori e dominati. E cosa sono gli ebrei per il wokismo? Sono dei dominatori, sono degli imperialisti, sono dei colonialisti, sono la quintessenza del bianco. E da quel momento passano dallo statuto di vittime a quello di torturatori, a quello di carnefici. E anziché riflettere sulla situazione nella sua complessità, di reclamare contemporaneamente il cessate-il-fuoco e la liberazione immediata degli osatggi, e di solidarizzare con quella parte della società israeliana che vuole girare la pagina, i manifestanti europei non trovano niente di meglio che denunciare Israele come stato genocida! Un nuovo slogan infuria: non più “ogni anticomunista è un cane”, ma “ogni israeliano è una cane, ogni sionista è un cane, ogni ebreo è un cane , a meno che non si unisca ai lupi e urli con loro “morte allo stato genocida!”».

A questo proposito, che cosa prova davanti alle occupazioni di università in Francia, in Italia, negli Stati Uniti da parte di studenti pro-palestinesi?
«Provo un sentimento di stupore, perché malgrado il mio pessimismo non me l’aspettavo, e di disgusto. Oggi i manifestanti, che sia a Parigi o alla Columbia University, strappano le foto degli ostaggi: ecco a cosa siamo arrivati. Ci viene detto: “Esprimono le loro emozioni, la loro solidarietà col popolo palestinese”. Ma l’emozione non giustifica la semplificazione, l’emozione non giustifica la stupidità. Criticano l’occupazione. Quale occupazione?
Gli israeliani avevano lasciato Gaza nel 2005. Come ricompensa hanno avuto Hamas e la sua guerra a morte a Israele. Denunciano uno stato dell’apartheid. Nell’aprile di quest’anno, cioè dopo il 7 ottobre, è stata eletta una nuova rettrice alla testa dell’università di Haifa, ed è una neurobiologa araba israeliana, un’araba cristiana maronita. E nella sua università il 45 per cento degli studenti è arabo: dov’è l’apartheid? Denunciano un’intrapresa coloniale. Ma, dopo il 1967, Israele non ha cessato di restringersi. Nel 1980 gli israeliani si sono ritirati dal Sinai, smantellando la colonia di Yamit. In quel caso effettivamente hanno ottenuto la pace con l’Egitto. Nel 2002 gli israeliani si sono ritirati dal Sud del Libano, e a sostituirli è arrivato Hezbollah, coi suoi razzi e i suoi missili. Nel 2005 si ritirano da Gaza col risultato che sappiamo.
Da qui viene l’estrema difficoltà di un ritiro da quella che in Israele è chiamata la Giudeo-Samaria. Non ci sono solamente ragioni di ordine storico, c’è soprattutto l’angoscia per la sicurezza: se ci ritiriamo dalla Cisgiordania, dalla Giudeo-Samaria, saremo esposti alla violenza da ogni lato, perché Hamas rischia di prendere il potere. Bisogna, naturalmente, combattere questo sentimento di assedio, fare di tutto perché un nuovo governo israeliano e un’Autorità palestinese rigenerata ritrovino la strada del negoziato, ma non si può fare che con l’aiuto di una comunità internazionale intelligente e lucida, che conosce la storia e conosce la realtà. La semplificazione può soltanto aggravare le cose. E oggi purtroppo la situazione a Gaza non fa che alimentare l’antisemitismo».

Che tipo di intellettuale pensa di essere? L’intellettuale universalista, che s’impegna occasionalmente, oppure l’intellettuale impegnato sul modello sartiano, ovvero l’intellettuale “specifico”, come lo definisce Michel Foucault?
«Prima di Sartre, un filosofo ebreo tedesco emigrato in Francia, Paul-Louis Landsberg, aveva dato una definizione straordinaria dell’impegno. Aveva scritto: “L’impegno è la decisione per una causa imperfetta”. Purtroppo la personalità di Sartre ha messo in ombra la definizione di Landsberg. E nel dopoguerra si è imposta l’idea sartriana di un impegno per il vero e per il bene. I risultati si vedono ancora ai nostri giorni. Sono favorevole dunque a un ritorno alla modestia di Landsberg. Ma soprattutto sono impegnato perché sono coinvolto, come Landsberg d’altra parte, sono colpito dagli avvenimenti. Ed è questo stupore, questa collera, questo dolore che mi sottraggono al torpore e mi costringono a riflettere. Dunque ho bisogno di questa emozione per pensare e per scoprire quella che credo essere la verità».

Sempre in Pescatore di perle, lei commenta citazioni di intellettuali del passato, lontano o recente. Esistono oggi intellettuali e scrittori viventi che lei ama particolarmente e che meritano di essere letti e riletti?
«Amo Elisabeth de Fontenay, che è amica da una vita.
Ho molta stima per Pierre Manent. Ma con tutto ciò, riconosco che la mia società, la mia compagnia è fatta più di morti che di viventi. Morti recenti, alcuni dei quali ho avuto la fortuna di conoscere di persona e di frequentare: Milan Kundera certamente, e anche Philip Roth. Questi due grandi scrittori che hanno molti punti in comune – in particolare quello di non aver ricevuto nessuno dei due il premio Nobel per la letteratura, cosa che ridicolizza per sempre l’Accademia svedese. Ebbene, per me questi amici sono sempre viventi, e d’altra parte ho il progetto di consacrare una serie di corsi universitari all’opera di Philip Roth per cercare di illuminarla, per mostrare in cosa sono illuminato da essa e in cosa la nostra attualità è illuminata da essa. E comincerò con un suo libro straordinario, La controvita, dove si vede cos’è Israele catturato attraverso il romanzo.
La cultura è l’idea di un’umanità corale e fortunatamente la morte non ha potere sulla cultura».


lettere@liberoquotidiano.it

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