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Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 01/06/2024, a pag. 43, con il titolo "Arriverà una contro-mobilitazione. Gli attivisti ignorano tutta la verità", l'intervista di Chiara Comai a Dario Peirone. «Sessantotto? Macché. Capisco la nostalgia, ma questa non è una protesta generazionale». Dario Peirone è uno dei 12 docenti dell'università di Torino titolari di accordi con atenei israeliani. Secondo lui «le collaborazioni con altri atenei sono linfa vitale. E gli accordi di UniTo sono scambi di mobilità tra professori, studenti e ricercatori». Peirone è anche presidente del Cei, il Centro Estero per l'Internazionalizzazione, un soggetto attraverso cui diverse startup estere - anche israeliane - investono in Piemonte e a Torino. All'interno dell'Università, Peirone insegna giurisprudenza. Professore, sulla questione della preghiera in ateneo è intervenuta anche Meloni. Cosa ne pensa? «Non ho capito cosa c'entrasse la questione religiosa. Il suo intervento non mi è sembrato completo, anche perché non ha parlato dei contenuti della preghiera. Quelli sì che erano gravi. Un megafono della propaganda di Hamas». Ieri il rettore Stefano Geuna ha deciso di incontrare gli studenti. Ha fatto bene? «L'importante è che tutti capiscano che accettare di incontrarsi non significa obbedire. E finalmente il Senato si è potuto svolgere senza interruzioni. Spostarlo in streaming è stata una risposta sufficientemente moderata». Moderata? «Nessuno ha chiamato la forza pubblica per chiedere uno sgombero. L'attitudine del rettore è ascoltare la voce di chi dissente». La trova d'accordo? « Non credo sia una debolezza. Lo scontro rischierebbe di favorire gli occupanti». Occupanti che dicono di voler continuare a oltranza. «Sgomberare non è una decisione semplice. Chi la prenderebbe, il rettore da solo? La soluzione è tenere aperto il dialogo restando fermi su alcune posizioni». Per esempio? «La richiesta di interrompere gli accordi. Non ha senso e dimostra grandissima ignoranza. Le università israeliane sono luoghi indipendenti». I pro Palestina contestano agli atenei israeliani di essersi «schierati con il governo». «Non sta né in cielo né in terra. Molti ricercatori sono ostili con Netanyahu, da ben prima del 7 ottobre. Sono luoghi aperti e liberi». È d'accordo con i motivi della protesta studentesca? «Ripetono slogan che si sentono da vent'anni. Una narrazione solo ideologica e antisionista, che non ha a che fare con la realtà. Queste persone non concepiscono che Israele possa esistere come Stato». Diverse persone hanno però parlato di una «necessità di agire di fronte agli orrori che accadono a Gaza». «Se fosse così le manifestazioni sarebbero oceaniche. Siamo tutti sconvolti da quello che sta accadendo in tutto il mondo. Invece questa protesta è su un unico conflitto. E non credo che si occupi per difendere i civili, altrimenti dovrebbe esserci un appello anche a rilasciare gli ostaggi». Qual è il futuro dell'occupazione secondo lei? «Ci saranno mobilitazioni da parte degli studenti che vogliono tornare a studiare. Hanno già incominciato: lettere, messaggi, appelli. Anche i docenti che all'inizio erano dialoganti adesso non condividono più questa modalità. Prima o poi arriverà una spinta dal basso». Per inviare alla Stampa la propria opinione, telefonare: 011/65681, oppure cliccare sulla e-mail sottostante lettere@lastampa.it |
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