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Il Foglio Rassegna Stampa
06.08.2003 Israele non può nè deve fare ulteriori concessioni
l'articolo di Emanuele Ottolenghi ne spiega il motivo

Testata: Il Foglio
Data: 06 agosto 2003
Pagina: 2
Autore: Emanuele Ottolenghi
Titolo: «Il barometro del mondo arabo non segna ancora schiarite di pace»
Riportiamo l'articolo di Emanuele Ottolenghi pubblicato su Il Foglio mercoledì 6 agosto 2003.
La caduta di Saddam Hussein avrebbe, a detta di molti, creato una nuova "finestra di opportunità" per la pace in Medio Oriente. Superficialmente, esistono importanti analogie tra il 1991, quando una
coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti e sotto l’egida dell’Onu liberò il Kuwait dalla brutale occupazione irachena, e il 2003. Anche allora israeliani e palestinesi erano impantanati in una guerra d’attrito. Anche allora l’attivo sostegno e partecipazione dei paesi arabi appariva come essenziale alla pacificazione della regione. Anche allora la guerra, rimuovendo
un fattore di instabilità nella regione e una minaccia esistenziale per Israele, avrebbe favorito una iniziativa diplomatica americana dove Israele potesse permettersi di prendersi dei rischi in cambio di una pace con il mondo arabo circostante. Legittimo dunque fare un paragone tra 1991 e 2003. Ma accanto alle analogie che invogliano i più a sperare nella svolta, le differenze che esistono tra 1991 e 2003 invitano alla cautela.
Innanzitutto la caduta del regime di Saddam non ha fondamentalmente modificato
gli equilibri strategici della regione a favore di Israele. Mentre l’esercito iracheno del ’91 era la più formidabile macchina da guerra mediorientale e la sua capacità non convenzionale rappresentava una minaccia esistenziale per Israele, quell’esercito non era che l’ombra di se stesso nel 2003. La riduzione del potenziale offensivo iracheno nel ’91 e il suo successivo contenimento nella decade successiva attraverso sanzioni e ispezioni avevano permesso a Israele di prendere un rischio calcolato in un ambiente regionale strategicamente meno minaccioso. Ma a parte che il processo negoziale emerso dalla sconfitta di Saddam nel 1991 non ha comunque prodotto gli sperati
risultati, non si può notare un significativo mutamento strategico negli equilibri regionali dopo il 9 aprile 2003. Non si spiega allora l’ottimismo di chi crede che la caduta di Saddam riduca i rischi per Israele e gli permetta di fare concessioni politiche e territoriali ai palestinesi che potevano risultare più rischiose prima della guerra.

L’effetto domino richiede tempo e non è certo.
La rimozione di Saddam ha certamente eliminato un elemento simbolico, ma non
ha sostanzialmente indebolito le forze ostili a Israele e all’Occidente da un punto di vista militare o persino economico. Saddam finanziava il terrorismo palestinese offrendo una pensione alle famiglie dei "martiri" – gli assassini suicidi che il mondo arabo ammira anche dopo il 9 aprile – ma il sussidio iracheno non era che una goccia nell’oceano di sostegni finanziari ricevuti
da Hamas e dalle altre organizzazioni coinvolte nella lotta contro Israele. I soldi continuano ad arrivare, soprattutto da Iran e Arabia Saudita, per non parlare dei fondi europei e degli aiuti privati provenienti da tutto il mondo, il cui flusso è lungi dall’essere sospeso. L’impatto della caduta di Saddam tuttavia non è soltanto militare e strategico, ma anche e soprattutto
politico e psicologico.
Si spera che la teoria del domino elaborata in circoli neoconservatori a Washington sia corretta e che il successo che tutti ci auguriamo di un nuovo Iraq libero e rappresentativo, possa propagare nell’area un vento di moderazione che spinga i regimi autoritari a cambiare strada e a perseguire
cambiamento interno e cooperazione con l’Occidente, pace con Israele e lotta dura contro il radicalismo islamico. Ma l’effetto domino richiede tempo e non è garantito. In parte dipenderà dal successo dell’avventura americana in Iraq. Ma in parte esso sfugge a ogni previsione. Gli effetti sistemici di un evento così traumatico si manifesteranno solo nel giro di anni, e se la storia
insegna qualcosa, gli eventi traumatici nella regione – come la perdita della Palestina nel ’48, la sconfitta panaraba del ’67, la pace tra Israele ed Egitto nel ’79, l’invasione sovietica dell’Afghanistan nello stesso anno e persino la pace di Oslo del ’93 – non hanno avuto l’effetto benefico auspicato.
Fatta salva la pace tra Egitto e Israele (dettata dalla realpolitik, non da una genuina accettazione araba di Israele), tali eventi hanno piuttosto finito con il rafforzare gli estremismi panarabo e islamico. E se ci sono segnali incoraggianti, in Siria come altrove, a indicare come il messaggio americano sia stato ricevuto nelle capitali arabe, arrivano altrettante indicazioni che
il 2003 non è il 1991.
Nel 1991 Saddam aveva minacciato l’ordine regionale e lo status quo arabo. Poiché Saddam rappresentava una minaccia ai regimi, non risultò difficile ai regimi schierarsi con gli americani. L’alleanza tra America e mondo arabo permise un quid pro quo sulla questione palestinese che viene ancora erroneamente rappresentato come una concessione americana agli arabi. Invece, il processo diplomatico emerso da "Tempesta nel deserto" non costituì soltanto
una concessione americana al mondo arabo sulla questione palestinese in
cambio di un intervento arabo contro Saddam. Esso comportò anche un riconoscimento arabo dell’esistenza di Israele e un’accettazione della pax americana da parte dei regimi in cambio di una garanzia americana alla loro sopravvivenza. Quello che sfugge ai più è che il riconoscimento di Israele derivava da una constatazione di debolezza intrinseca araba che per il momento
non permetteva di sconfiggere il nemico sionista. Il mondo arabo nel ’91 si rassegnava a negoziare questa accettazione in cambio della garanzia americana di proteggere lo status quo regionale che Saddam aveva cercato di alterare. Fondata quindi sulla debolezza del mondo arabo, la pace proposta e mancata negli anni 90 si basava sul presupposto che questa debolezza fosse permanente.

Baghdad libera spaventa i regimi vicini.
Le condizioni per una ripresa dei negoziati mancano nel 2003 perché sono venute
meno sia la garanzia americana di protezione dello status quo sia la convinzione di debolezza insormontabile del mondo arabo nei confronti di Israele. Nel 2003 non era l’Iraq a minacciare l’ordine costituito del mondo arabo. Sono stati gli americani a farlo e continuano ancor di più nel dopoguerra. Il successo della ricostruzione irachena mina le fondamenta dell’ordine arabo regionale. In più, l’alternativa islamica e la scelta strategica di perseguire la strada della della guerra asimmetrica nella lotta contro Israele e l’Occidente che il terrorismo oggi offre, costituiscono insieme un motivo di riscossa che presenta un’alterazione degli equilibri strategici a sfavore di Israele e America. L’America vince sul campo di battaglia, ma una sconfitta nel lungo periodo prodotta da una logorante guerra di posizione promossa da guerriglia e terrorismo potrebbe spingere gli americani a ritirarsi prima di avere ottenuto i risultati sperati. E un ritiro proietterebbe un’immagine di debolezza che metterebbe in discussione il dominio americano nella regione, mettendo in pericolo anche Israele.
La pax americana che offriva protezione ai regimi negli anni 90 oggi si è trasformata in un’arma a doppio taglio. Dalle capitali arabe si sono levate critiche feroci alla creazione del governo provvisorio iracheno, definito collaborazionista da al Jazeera e da al Arabiya e bollato come privo di
legittimità democratica dal segretario della Lega Araba Amr Mussa, dal ministro degli Esteri siriano Farouk Al Shara, e dai dittatori sudanese e libico. Chi ride del fatto che i critici del nuovo governo iracheno esigano una legittimità democratica di cui loro stessi sono privi farebbero bene a capire il senso vero della critica: essa esprime paura per la stabilità dei regimi stessi e quindi aperta opposizione al successo del tentativo americano di trasformare l’Iraq in uno Stato libero, moderato, pacifico e rispettoso di diritti umani e minoranze. Difficile dunque aspettarsi la stessa volontà di cooperazione che il mondo arabo offrì nel 1991 a un’America vittoriosa. L’ottimismo è quindi malposto e la strada da percorrere per portare progresso, stabilità e moderazione in Medio Oriente rimane ancora lunga e tortuosa.
Resta la speranza che l’effetto domino si senta almeno a Ramallah, se non a Damasco e Riad, nel breve periodo. Ma anche qui l’analogia con il 1991 lascia a desiderare. La convinzione che la rimozione di una minaccia esistenziale a Israele permettesse a Israele di rischiare per la pace valeva forse per il 1991 ma oggi non tiene conto di due fattori: il primo, già enunciato, è che l’Iraq dopo il 1991 non rappresentava più una minaccia significativa a Israele. L’eliminazione del regime di Saddam non comporta quindi un sostanziale mutamento degli equilibri strategici a favore di Israele. Il vero
nemico oggi per Israele è l’Iran, e semmai la guerra in Iraq ha motivato il regime iraniano ad accelerare il suo progetto di armi nucleari. Il secondo fattore è il più importante ed è legato alla deterrenza che Israele mantiene contro i suoi avversari. Mentre alla vigilia della guerra del 1991 Israele godeva di una forte superiorità strategica convenzionale e non nella regione,
oggi quella superiorità è stata erosa drammaticamente dallo sviluppo di missili balistici e dalla nuclearizzazione prossima dell’Iran, dal ritiro israeliano dal Libano del Sud e dal terrorismo suicida palestinese. La mancata rappresaglia israeliana agli attacchi missilistici iracheni nel 1991 aveva
creato l’impressione nel mondo arabo che Israele avesse perso la capacità di reagire efficacemente alle provocazioni e a un tipo di violenza non convenzionale, mirata non alla distruzione fisica del nemico ma alla sua demoralizzazione attraverso forme di terrore psicologico. La precipitosa ritirata israeliana dal Libano nell’estate del 2000 ha rafforzato quell’impressione di debolezza, dovuta all’incapacità del nemico sionista di sopportare a lungo il dolore causato dallo stillicidio di perdite umane che Hezbollah gli aveva saputo infliggere.

Lo spettro nucleare iraniano
Il terrorismo suicida perfezionato dai palestinesi durante la nuova Intifada ha
rafforzato quella percezione nel mondo arabo, convinto oggi di essere non lontano dalla vittoria contro i sionisti proprio in virtù della strategia non convenzionale offerta dal terrorismo. Quello stesso terrorismo ha colpito duramente anche l’Occidente, producendo almeno in Europa una rinnovata volontà di dialogo e una disponibilità alle richieste politiche dei palestinesi
che rappresenta agli occhi del mondo arabo una conferma di come la strategia del terrore paghi. Lo stesso discorso vale per la road map. Concessioni
israeliane, senza prima una chiara rinuncia al terrorismo da parte dei palestinesi che si materializzi in azione contro Hamas e chi ha adottato il terrorismo come strategia, non farà altro che rafforzare quell’immagine di debolezza che ha eroso il potenziale deterrente israeliano. Ne sia conferma il fatto che Abu Mazen non ha alcuna intenzione di affrontare Hamas, e che la sua popolarità quale leader che ha sconfessato la lotta armata sia pateticamente
ancorata al 3 per cento.
A questo si aggiunge lo spettro nucleare del regime iraniano. Tutte le armi che agli occhi del mondo arabo hanno indebolito Israele e potrebbero mandare all’aria il progetto americano in Iraq sono armi non convenzionali, il cui ruolo è di instillare un senso di insicurezza esistenziale allo Stato ebraico. E sono la guerriglia, gli attacchi suicidi e il modello asimmetrico di lotta utilizzato in Iraq dai fedeli di Saddam a offrire la speranza che gli americani prima o poi se ne vadano, come già fecero a Beirut nell’83 e a Mogadiscio nel ’93. Europa e America sbagliano a credere che occorra risolvere il conflitto arabo-israeliano costringendo Israele a nuove concessioni. La
non del tutto valida considerazione del ’91. secondo cui Israele usciva rafforzato dalla guerra e poteva quindi correre rischi strategici in nome della pace, non si applica al 2003. Perché la road map abbia successo occorre che il mondo arabo creda di aver perso e di non poter vincere in futuro. Finché
perdura la convinzione che un missile iraniano o un terrorista palestinese possano fare ciò che 50 anni di guerre convenzionali non riuscirono a fare, Israele otterrà solo ulteriore violenza dalle concessioni che farà. Esse verranno lette come risultanti dalla pressione esercitata dalla violenza e come risposta occidentale al terrorismo che ha procurato l’11 settembre. Il
1991 e il 2003 non offrono dunque un’analogia, né l’analogia, se ci fosse, sarebbe motivo di speranza. Semmai, essa garantisce ancora violenza e instabilità, che soltanto la determinazione di Israele e dell’Occidente a combattere il terrorismo e senza concessioni politiche potrà ribaltare.
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