La differenza fra una tregua e una farsa Analisi di Micol Flammini
Testata: Il Foglio Data: 07 maggio 2024 Pagina: 1/4 Autore: Micol Flammini Titolo: «La differenza fra una tregua e una farsa»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 07/05/2024, a pag. 1/4, con il titolo "La differenza fra una tregua e una farsa" l'analisi di Micol Flammini.
Roma. Il pasticcio è stato credere a Hamas, all’entusiasmo con cui il gruppo aveva comunicato di aver accettato la proposta di accordo di Egitto e Qatar. All’annuncio, Israele aveva fatto sapere che non si trattava della stessa proposta su cui nei giorni scorsi le delegazioni stavano lavorando al Cairo, ma di un piano diverso che lo stato ebraico non aveva neppure visionato. L’entusiasmo è svanito: Hamas aveva organizzato un imbroglio comunicativo, dando l’annuncio di aver accettato una bozza di accordo che non era mai stata sul tavolo e mettendo Israele nelle condizioni di diffidare dai mediatori egiziani e qatarini – con i secondi i rapporti sono già molto tesi. Il teatro comunicativo di Hamas, con i preparativi per l’attacco israeliano alla città di Rafah, aveva l’obiettivo di creare quella pressione internazionale contro Gerusalemme a cui i terroristi si affidano per ottenere la fine definitiva della guerra alle loro condizioni. Il ministro israeliano Nir Barkat, durante un incontro con i giornalisti a cui il Foglio ha partecipato, ha detto che è impossibile negoziare con Hamas senza “puntargli il coltello alla gola”, è a questo che servono i preparativi per l’attacco contro la città di Rafah, di cui ieri Israele ha iniziato a evacuare la parte orientale, quella più vicina al suo confine. Tsahal ha calcolato che sono circa centomila le persone che dovranno lasciare quella parte della città che si trova nel sud della Striscia di Gaza, in cui si nascondono quattro battaglioni di Hamas e che più che una città ormai è diventata il suono di una minaccia. Quando sui tavoli negoziali si sente pronunciare il nome “Rafah”, vuol dire che tutto potrebbe cambiare. Il problema è che la parola “Rafah” è stata detta e ridetta, sussurrata e urlata e adesso che Israele si prepara a iniziare l’offensiva il gruppo voleva fermarla con il suo annuncio senza mai però aver accettato davvero l’accordo. La farsa di Hamas era iniziata domenica: il primo atto c’era stato mentre le delegazioni erano al Cairo per trattare, e il gruppo aveva colpito il valico di Kerem Shalom, che collega Israele alla Striscia di Gaza e da cui entrano gli aiuti umanitari. L’attacco ha ucciso quattro soldati e Hamas sapeva che lo stato ebraico avrebbe reagito preparandosi per andare a Rafah, mostrando che esiste un piano per evacuare i civili e per colpire le postazioni dei terroristi. L’operazione a Rafah non è ancora partita, è in fase di preparazione, Tsahal dice di essere pronto, ha lanciato dei volantini per comunicare agli abitanti della parte est della città come raggiungere la città costiera di al Mawasi e Khan Younis, la città originaria di Yahya Sinwar da cui l’esercito israeliano si è ritirato a marzo. Israele ha poi condotto dei bombardamenti contro le postazioni da cui è partito l’attacco contro Kerem Shalom, ma le intenzioni dell’esercito non sono quelle di una grande offensiva, ma di un attacco limitato, in grado di poter far pressione su Hamas al tavolo dei negoziati. Prima che il gruppo facesse il suo falso annuncio, la linea di Israele era quella di usare Rafah per ottenere un accordo. Gli egiziani hanno riconosciuto che a dissipare l’atmosfera ottimistica di sabato, quando sembrava che le posizioni per un’intesa si stessero allineando, sia stato l’attacco di Hamas contro Kerem Shalom, e hanno chiesto a Israele di non creare le condizioni per un’invasione che porterebbe il caos al confine: oltre Rafah c’è la barriera che divide la Striscia con l’Egitto, gli egiziani hanno detto che non accoglieranno profughi e non vogliono l’esercito israeliano troppo vicino alla frontiera. Gli Stati Uniti hanno detto e ripetuto più volte a Israele che non approveranno un’operazione contro Rafah senza un piano di evacuazione dettagliato. Ieri il presidente americano Joe Biden e il primo ministro Benjamin Netanyahu hanno parlato al telefono per trenta minuti. Biden ha chiesto a Netanyahu di riaprire il valico di Kerem Shalom, chiuso dopo l’attacco di Hamas. L’attenzione degli Stati Uniti è ancora sull’evitare una crisi umanitaria, mentre proseguono spediti i lavori per la costruzione del molo che dovrebbe permettere l’arrivo via mare di un numero maggiore di aiuti. Il molo dovrebbe essere pronto a giorni e il suo funzionamento non verrebbe intaccato da un’operazione pesante a Rafah. In tutta la Striscia sono rimasti sei battaglioni di Hamas, due si trovano nella parte centrale, quattro sono a Rafah e sono quelli che hanno subìto meno perdite durante la guerra. Il piano di Israele è di liberare un quartiere alla volta, un’operazione come quella condotta a Gaza city non è più immaginabile e neppure necessaria. In questo momento, nonostante sia indebolito, Hamas ha ancora le capacità di ricostituirsi e lo dimostra l’abilità di tornare nelle zone da cui l’esercito si è già ritirato, di improvvisare postazioni di lancio di missili che sono efficaci. La pressione internazionale e la condanna esplicita contro Israele hanno portato spesso Tsahal a ritirarsi prematuramente dalle zone in cui ha combattuto. Hamas ha risposto disperdendo i suoi battaglioni, li ha trasformati in piccole squadre di pochi uomini, in attesa che l’assalto dell’esercito israeliano finisse. Per debellare Hamas e per scoprire dove sono gli ostaggi Israele avrà bisogno di rimanere più a lungo a Rafah, dovrà fare quello che per esempio non ha fatto a Khan Younis.
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