giovedi` 21 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






Il Foglio Rassegna Stampa
04.05.2024 Il ‘Bignami’ di chi segue Hamas
Analisi di Giulio Meotti

Testata: Il Foglio
Data: 04 maggio 2024
Pagina: 7
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «Il bignami dei fan di Hamas»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 04/05/2024, a pag. 7, l'analisi di Giulio Meotti dal titolo: "Il bignami dei fan di Hamas".

Informazione Corretta
Giulio Meotti
How the Israel-Hamas war has affected free speech on college campuses
Negli Stati Uniti, e nei paesi occidentali in generale, i paesi arabi hanno sborsato milioni di dollari, per pulire la propria immagine e fomentare l'odio anti-occidentale. Il risultato è che ora gli studenti si ritrovano in piazza per inneggiare al terrorismo, invece di curare la propria ignoranza.

Uno dei grandi dibattiti americani alla fine degli anni Ottanta riguardava il corso di “cultura occidentale”. Jesse Jackson nel 1988 aveva guidato una protesta a Stanford con il famoso canto, “Hey, hey, ho, ho, Western Culture’s got to go” (“la cultura occidentale deve sloggiare”). Ancora nel 1970, dieci delle cinquanta principali università americane avevano un corso obbligatorio di “civiltà occidentale”, mentre trentuno lo offrivano come facoltativo. Oggi, secondo il rapporto “The Vanishing West”, nessuna università offre più simili corsi. La Columbia University offre invece un corso di “civiltà contemporanea”: anticolonialismo, sesso e gender, antirazzismo, climatologia, Frantz Fanon e Michel Foucault, Barbara Fields e il collettivo Combahee River, meditazioni sulla tratta transatlantica degli schiavi e su come il cambiamento climatico sia un “déjà vu coloniale”. Ross Douthat sul New York Times racconta su quali testi si formano gli studenti per Gaza (e per Hamas) che hanno gettato nel caos le università della Ivy League americana (ma anche i dipartimenti di scienze umane in Italia e Francia). “Per il mondo che si preparano a influenzare e guidare, leggono testi che sono davvero importanti solo per comprendere la prospettiva della sinistra contemporanea”, scrive Douthat. “Nelle letture del XX secolo del curriculum della Columbia, l’èra dei totalitarismi semplicemente svanisce, lasciando la decolonizzazione come l’unico grande dramma politico del recente passato. Non c’è Orwell, né Solzhenitsyn; vengono assegnati i saggi di Hannah Arendt sulla guerra del Vietnam e le proteste studentesche in America, ma non ‘Le origini del totalitarismo’ o ‘Eichmann a Gerusalemme’. Il conservatorismo di qualsiasi tipo è naturalmente vietato. Il cambiamento climatico incombe su tutto, ma ci si aspetta che l’attivismo per l’ambiente si fonda in qualche modo con l’azione anticoloniale e antirazzista. Israele diventa l’unico capro espiatorio per i peccati dei defunti imperi europei e dei regimi suprematisti bianchi. Uno degli organizzatori delle proteste della Columbia paragona esplicitamente i ‘sionisti’ ai proprietari di schiavi di Haiti”. La Columbia University, il cui nome dovrebbe evocare Cristoforo Colombo e il viaggio verso un nuovo mondo, ci invita oggi a esplorare uno strano universo in cui occidentali sessualmente e culturalmente confusi, che beneficiano di tutti i privilegi che una società democratica offre, abbracciano slogan e parole d’ordine di Hamas. Radicalizzare gli studenti occidentali è sempre stato un po’ come far inciampare i ciechi. Ma considerarli giovani ingenui che attraversano una fase di ribellione, come un nuovo Sessantotto, come vorrebbe l’ineffabile Alexander Stille su Repubblica, significa nascondere ciò che c’è di nuovo. La natura profondamente inquietante della rabbia dei privilegiati occidentali. Gli studenti per Hamas leggono “I dannati della terra” di Frantz Fanon, la bibbia di una nuova teologia, il terzomondismo e la sua ridistribuzione manichea delle colpe, quelle dell’Europa che derivano dalla sua stessa natura, mentre i torti dei paesi del sud dipendono solo dalle circostanze. La teorizzazione della rivolta dei colonizzati, degli oppressi, si risolve in un’apologia della violenza insurrezionale come esorcismo liberatorio. Il dannato che assurge ad archetipo esistenziale. “The Rebel’s Clinic: The Revolutionary Lives of Frantz Fanon” di Adam Shatz (Farrar, Straus e Giroux) traccia i legami tra gli scritti di Fanon, l’abbraccio accademico della teoria anticolonialista e il sostegno alla violenza e al terrore da parte della sinistra universitaria. Shatz racconta come Fanon sia diventato un’icona della sinistra con “I dannati della terra”, pubblicato poco prima di morire di leucemia a trentasei anni nel 1961. Il libro di Fanon non è passato inosservato, ma tradotto e citato con devozione da movimenti radicali, tra cui le Pantere nere, la guerriglia latinoamericana, i rivoluzionari islamici dell’Iran e i terroristi palestinesi. Nato in Martinica nel 1925, Fanon combatté contro i nazisti nel 1944 come cittadino francese. Studiò medicina a Lione ed esercitò la psichiatria nella colonia algerina. Vedeva un mondo manicheo diviso tra il bene e il male, senza alcuna possibilità di compromesso, comprensione reciproca o convivenza pacifica. Il colonizzatore è “l’elemento corrosivo che distrugge tutto ciò che gli si avvicina”. In queste condizioni, la violenza è una reazione naturale e logica ai colonialisti. La biografia di Shatz mostra che Fanon credeva veramente nel potenziale rigenerativo della violenza e nell’uccisione di massa degli europei come medicina benefica per i colonizzati. Nella sua famosa introduzione a “I dannati della terra”, Jean-Paul Sartre sostenne la necessità della violenza, dicendo: “Abbattere un europeo significa prendere due piccioni con una fava: restano un uomo morto e un uomo libero”. Applicando Fanon alla Palestina, gli emuli dello psichiatra vedono oggi il sionismo come il nuovo colonialismo bianco. “Jews have Poland”, dice Jill Stein alla Columbia. “Tornatevene in Polonia”, le fanno eco gli studenti. L’osservazione di Fanon secondo cui “il colonizzato è un perseguitato che sogna continuamente di diventare persecutore” sembra il programma del 7 ottobre. Nelle guerre coloniali, scrive Fanon, “il bene è semplicemente quello che a ‘loro’ fa del male”. “La decolonizzazione non è una metafora”, hanno intonato i fan occidentali del “Diluvio di Al Aqsa”. In un mondo diviso tra nazioni colonizzate e postcolonizzate, la violenza è accettabile e giustificata dopo che Fanon ha fornito, se non il suo permesso, una motivazione per la distruzione indiscriminata. In Canada, l’incendio di dozzine di chiese è stato riportato dai media come una reazione naturale alle voci (false) di fosse comuni di bambini della Prima Nazione nelle scuole residenziali. Gli studenti pro Gaza si abbeverano anche a Herbert Marcuse, che a Berkeley annunciò che viviamo in un regime di falsa tolleranza. “Marcuse è il progenitore del progressismo woke”, scrive Damon Linker su The Week. Della stessa opinione Joseph Epstein sul Wall Street Journal: “Il sogno di Marcuse si è avverato”. Il “mercato delle idee”, sentenziò Marcuse, è in mano a coloro che hanno interesse a perpetuare una politica repressiva, da qui il diritto naturale alla resistenza per le minoranze oppresse. Siamo in piena cancel culture, l’idea che la libertà di parola sia semplicemente una forma di discriminazione. Non solo. In chiusura al suo bestseller del 1967 “L’uomo a una dimensione”, Marcuse immagina il “Grande Rifiuto” provenire da “coloro che formano la base della piramide sociale – gli outsider e i poveri, i disoccupati, le razze perseguitate, i detenuti delle carceri e degli istituti psichiatrici”. Oggi si chiama “intersezionalità”. Nel bignami dello studente pro Hamas c’è un altro nome: Paulo Freire, marxista brasiliano e pedagogista scomparso nel 1997, che con la sua “Pedagogia degli oppressi” ha permeato completamente le scuole di formazione degli insegnanti occidentali. Dal 2016, Freire è il terzo autore accademico più citato di tutti i tempi nel campo delle scienze sociali. E uno degli uomini più influenti di cui non abbiamo mai sentito parlare. L’obiettivo di Freire era quello di creare una “rivoluzione perpetua” in tutta la società indottrinando i giovani con il desiderio utopico di “trasformare il mondo”. Ciò doveva essere fatto abbandonando il vecchio modello di apprendimento in cui gli studenti venivano istruiti su fatti, cifre e date da una figura autoritaria adulta che stava in prima fila nella classe. La conoscenza è una sorta di capitale, accumulato dai ricchi e dai potenti, e deve quindi essere ridistribuito tra i poveri. In un’inversione del famoso motto di Francis Bacon “la conoscenza è potere”, la conoscenza è oppressione, dalle cui catene gli studenti devono essere liberati. Freire è uno dei padri dell’ideologia “decolonizzare il curriculum”, in cui vedeva l’alfabetizzazione stessa semplicemente come uno strumento in più di cui la classe dirigente erede degli europei aveva abusato per imporre un sistema alieno di capitalismo sui lavoratori nativi sfruttati dell’America Latina. L’educazione diventa così una sorta di antieducazione. A Newark, nel New Jersey, è stata aperta una “scuola superiore Paulo Freire”, dedicata a istruire i ragazzi sfortunati del posto attraverso i suoi metodi. I punteggi dei test dei bambini erano così bassi che anche le autorità locali hanno sentito il bisogno di intervenire e chiudere la struttura, citando la sua mancanza di “rigore didattico”. Poi ci sono gli scritti di Walter Rodney, l’intellettuale radicale della Guyana pubblicato dalla Columbia University Press, che sentenziava: “La violenza mirata al recupero della dignità umana e all’uguaglianza non può essere giudicata con lo stesso metro della violenza mirata al mantenimento della discriminazione e dell’oppressione”. Ecco il cuore del relativismo radicale della Ivy League che si salda alle idee di Kimberlé Crenshaw, che ha teorizzato l’“intersezionalità” nella svolta del postmodernismo, in cui il progressismo si rivolta contro sé stesso e lottare contro ogni “gerarchia binaria” è non solo legittimo, ma doveroso. Si passa da una richiesta di uguaglianza a una richiesta di gerarchia opposta, dove il “dominato” diventa il “dominante”. E alla Columbia insegnava Edward Said, l’altro nome nel pantheon degli studenti filo Hamas. Said era la quintessenza dell’intellettuale occidentale e, al tempo stesso, l’esponente più prestigioso del “fronte del rifiuto” palestinese. E’ l’autore di “Orientalismo”. Celebre fu la foto in cui si fece ritrarre, nel Libano meridionale, a lanciare sassi ai soldati israeliani che si ritiravano. Nacque in una casa di ricchi commercianti, anche se fu tutta la vita un corsaro dei sofferenti. Nacque da un padre palestinese cristiano con passaporto americano e da una madre palestinese fiera della sua cultura anglicana. Fu battezzato con il nome inglese di Edward, i genitori erano fieri di quel nome vittoriano. Crebbe tra due mondi in conflitto, consapevole di appartenere a entrambi e a nessuno. Poco dopo la nascita di Israele, Edward fu mandato a perfezionare la sua istruzione negli Stati Uniti. La sua peggiore eredità, oggi dominante nei campus americani, fu un sillogismo che lo rese celebre in tutto il mondo: l’“orientalismo”, il razzismo occidentale nei confronti dell’oriente arabo, è antisemitismo perché gli arabi sono semiti; il sionismo ha assimilato gli ebrei all’occidente e quindi hanno perso il loro semitismo, sono divenuti “orientalisti”, cioè antisemiti; i palestinesi sono i nuovi ebrei e gli ebrei di oggi sono i nuovi nazisti. In questa nuova cosmologia accademica, Hamas è la punta della liberazione collettiva contro l’occidente, il nord del mondo, i “colonizzatori”. E’ un mondo magico in cui tutta la politica e gli affari mondiali, visti attraverso il prisma woke, sono appiattiti in una visione neo gnostica. Quello che sta uscendo dalle nostre università è un’estensione del disgusto per la civiltà che è stato inculcato ai giovani in molti anni. Tutto ciò che resta loro è il richiamo della barbarie, la convinzione demenziale che la ferocia sia lodevole se il suo obiettivo è colpire “l’occidente”. Questa ideologia ha portato all’assunto che tutti i paesi poveri siano automaticamente buoni e tutti quelli ricchi intrinsecamente cattivi. Europa e America sono super oppressori. La Cina è trattata con indifferenza o indulgenza. Il regime iraniano è visto come un alleato, poiché si oppone al “Grande Satana”. Hamas è, per definizione, una “vittima”. Israele, una democrazia multireligiosa, è l’oppressore. “La vita può sorgere solo dal cadavere in decomposizione del colono” scrisse Fanon. In occidente c’è stata un’ondata di giubilo alla vista di mille cadaveri israeliani.

Per inviare al Foglio la propria opinione, telefonare: 06/5890901, oppure cliccare sulla e-mail sottostante


lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT