Testata: La Repubblica Data: 28 aprile 2024 Pagina: 13 Autore: Thomas Friedman Titolo: «Il dilemma di Israele: Sferrare l’attacco a Rafah o allearsi con Riad»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 28/04/2023, a pag.13 con il titolo "Il dilemma di Israele: Sferrare l’attacco a Rafah o allearsi con Riad" l'analisi di Thomas Friedman.
Thomas Friedman
Per porre fine alla guerra nella Striscia di Gaza e forgiare una nuova relazione con l’Arabia Saudita, la diplomazia statunitense si sta concentrando nelle ultime settimane nel porre un’unica gigantesca alternativa a Israele e al premier Netanyahu: che cosa volete di più, Rafah o Riad?
Volete organizzare un’invasione su larga scala di Rafah per tentare di eliminare Hamas - ammesso che sia possibile - senza offrire alcuna strategia di uscita da Gaza né aprire un orizzonte politico per una soluzione a due Stati con i palestinesi non guidati da Hamas? Se seguirete questa strada, non farete altro che aggravare l’isolamento globale di Israele e provocherete una vera e propria rottura con l’amministrazione Biden.
Oppure volete una normalizzazione con l’Arabia Saudita, una forza di pace araba per Gaza e un’alleanza per la salvaguardia della sicurezza guidata dagli Stati Uniti contro l’Iran? Questo avrebbe un prezzo diverso: un impegno da parte del vostro governo a lavorare per uno Stato palestinese con un’Autorità palestinese riformata, ma con il vantaggio di inserire Israele nella più ampia coalizione di difesa tra Stati Uniti, arabi e israeliani di cui lo Stato ebraico abbia mai goduto, e di creare il più grande ponte verso il resto del mondo musulmano che sia mai stato offerto a Israele, creando al tempo stesso almeno una speranza che il conflitto con i palestinesi non debba essere una “guerra eterna”.
Questa è una delle scelte più fatidiche che Israele abbia mai dovuto fare. E trovo inquietante e deprimente che oggi non ci sia nessun leader israeliano di rilievo nella coalizione di governo, nell’opposizione o nelle forze armate che aiuti coerentemente gli israeliani a capire questa alternativa – ridursi a paria globali o essere un partner in Medio Oriente - , né che spieghi perché dovrebbero scegliere la seconda.
All’inizio della guerra, i leader militari e politici israeliani ci dicevano che i leader arabi moderati volevano che Israele spazzasse via Hamas, una propaggine dei Fratelli Musulmani detestata da ogni monarca arabo. Certo, avrebbero voluto che ciò avvenisse in poche settimane e con poche vittime civili. Ma è ormai evidente che non è possibile, e prolungare la guerra non è nell’interesse degli Stati arabi moderati, in particolare dell’Arabia Saudita.
Dalle conversazioni che ho avuto sia qui, a Riad, che a Washington, descriverei così l’opinione che il principe ereditario Mohammed bin Salman ha sull’invasione israeliana di Gaza oggi: andatevene il prima possibile. Israele, attualmente, non fa altro che uccidere sempre più civili, inimicarsi i sauditi che avevano favorito la normalizzazione con Israele, creare più reclute per Al-Qaeda e l’Isis, dare potere all’Iran e ai suoi alleati, fomentare l’instabilità e allontanare dalla regione gli investimenti stranieri di cui c’è grande bisogno. L’idea di eliminare Hamas “una volta per tutte” è una chimera, secondo la visione saudita. Se Israele vuole continuare a fare operazioni speciali a Gaza per prendere la leadership, nessun problema. Ma niente occupazione militare permanente. Giungete al più presto a un cessate il fuoco totale e al rilascio degli ostaggi e concentratevi, invece, sull’accordo per la normalizzazione della sicurezza tra Stati Uniti, Arabia Saudita e Palestina.
Questa è l’altra strada che Israele potrebbe percorrere in questo momento, quella che nessun leader dell’opposizione israeliana sostiene come priorità assoluta, ma per cui l’amministrazione Biden e i sauditi, gli egiziani, i giordani, i bahreiniti, i marocchini e gli emiratini fanno il tifo. Il suo successo non è affatto scontato, ma non lo è nemmeno la “vittoria totale” promessa da Netanyahu.
Quest’altra strada inizia con la rinuncia da parte di Israele a qualsiasi invasione militare totale di Rafah, che si trova proprio a ridosso del confine con l’Egitto ed è la via principale attraverso la quale gli aiuti umanitari entrano a Gaza con i camion. È un’area che conta più di 200.000 residenti permanenti e dove ora si trova più di un milione di rifugiati provenienti dal nord di Gaza. Ed è anche il luogo in cui si dice che si troverebbero gli ultimi quattro battaglioni di Hamas più integri e, forse, il suo leader Yahia Sinwar.
L’amministrazione Biden ha detto pubblicamente a Netanyahu che non deve intraprendere un’invasione su larga scala di Rafah senza un piano credibile per non coinvolgere più di un milione di civili, e Israele non ha ancora presentato un piano in proposito. Ma in privato sono più schietti e dicono a Israele: no all’invasione massiccia di Rafah, punto.
I funzionari statunitensi sono convinti che se Israele distruggesse totalmente Rafah, come ha fatto con gran parte di Khan Younis e Gaza City, senza avere un partner palestinesecredibile che lo sollevi dall’onere della sicurezza per governare una Gaza distrutta, commetterebbe lo stesso errore che gli Stati Uniti commisero in Iraq e finirebbe col dover affrontare un’insurrezione permanente, oltre che una crisi umanitaria permanente. Ma ci sarebbe una differenza fondamentale: gli Stati Uniti sono una superpotenza che ha potuto fallire in Iraq e riprendersi. Per Israele, un’insurrezione permanente a Gaza sarebbe paralizzante, soprattutto senza avere più amici.
Ecco perché i funzionari statunitensi mi hanno detto che se Israele dovesse organizzare una grande operazione militare a Rafah, nonostante le obiezioni dell’amministrazione americana, Biden prenderebbe in considerazione la possibilità di limitare alcune vendite di armi a Israele.
Questo non solo perché vuole evitare altre vittime civili a Gaza per motivi umanitari, che infiammerebbero ulteriormente l’opinione pubblica mondiale contro Israele e renderebbero ancora più difficile per la squadra di Biden difendere Israele, ma perché l’amministrazione americana ritiene che un’invasione israeliana su larga scala di Rafah comprometterebbe le prospettive di un nuovo scambio di ostaggi, sul quale i funzionari nutrono nuovi barlumi di speranza, e distruggerebbe tre progetti vitali su cui sta lavorando per migliorare la sicurezza a lungo termine di Israele.
Il primo è una forza di pace araba a Gaza. Diversi Stati arabi hanno discusso l’invio di truppe per sostituire le truppe israeliane, che dovrebbero andarsene - a condizione che ci sia un cessate il fuoco permanente -. E la presenza delle truppe sarebbe formalmente benedetta da una decisione congiunta dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Gli Stati arabi insisterebbero molto probabilmente anche su una certa assistenza logistica militare statunitense. Non è stato ancora deciso nulla, ma l’idea è presa in attenta considerazione.
Il secondo è l’accordo diplomatico tra Stati Uniti, Israele e Palestina sulla sicurezza, che l’amministrazione sta per concludere con il principe ereditario saudita. L’accordo ha diverse componenti, ma le tre principali tra Stati Uniti e Arabia Saudita sono: 1) Un patto di mutua difesa tra gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita che toglierebbe ogni ambiguità su cosa farebbe l’America se l’Iran attaccasse l’Arabia Saudita. Gli Stati Uniti verrebbero in difesa di Riad e viceversa. 2) Semplificare l’accesso saudita alle armi statunitensi più avanzate. 3) Un accordo sul nucleare civile strettamente controllato che consentirebbe all’Arabia Saudita di riprocessare i propri depositi di uranio per utilizzarlo nel proprio reattore nucleare civile.
In cambio, i sauditi frenerebbero gli investimenti cinesi in Arabia Saudita, così come qualsiasi legame militare, e costruirebbero i loro sistemi di difesa di prossima generazione interamente con armi statunitensi, il che sarebbe una manna per i produttori americani nel settore della difesa e renderebbe i due eserciti completamente interoperativi. I sauditi, con la loro abbondanza di energia e spazio fisico a basso costo, vorrebbero ospitare alcuni degli enormi centri di elaborazione dati richiesti dalle aziende tecnologiche statunitensi per sfruttare l’intelligenza artificiale, in un momento in cui i costi energetici e lo spazio fisico interni agli Stati Uniti stanno diventando un ostacolo alla costruzione di nuovi centri dati in patria. L’Arabia Saudita normalizzerebbe anche le relazioni con Israele, a condizione che Netanyahu si impegni a lavorare per una soluzione a due Stati con un’Autorità Palestinese rinnovata.
Infine, gli Stati Uniti riunirebbero Israele, Arabia Saudita, altri Stati arabi moderati e i principali alleati europei in un’unica architettura di sicurezza integrata per contrastare le minacce missilistiche iraniane contro Israele. Questa coalizione non si riunirà in modo continuativo senza che Israele esca da Gaza e si impegni a lavorare per la creazione di uno Stato palestinese. Non si può pensare che gli Stati arabi proteggano permanentemente Israele dall’Iran se Israele occupa permanentemente Gaza e la Cisgiordania. I funzionari statunitensi e sauditi sanno anche che senza Israele nell’accordo, gli accordi di sicurezza statunitensi e sauditi non passerebbero mai al Congresso.
Il team di Biden vuole completare la parte statunitense-saudita dell’accordo in modo da poter agire come il partito di opposizione che Israele non ha in questo momento e poter dire a Netanyahu: puoi essere ricordato come il leader che ha presieduto alla peggiore catastrofe militare di Israele il 7 ottobre, o come il leader che ha guidato Israele fuori da Gaza e ha aperto la strada alla normalizzazione tra Israele e il più importante Stato musulmano. A te la scelta.
(New York Times, traduzione di Luis E. Moriones)
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