Testata: Il Foglio Data: 27 aprile 2024 Pagina: 8 Autore: Andrea Minuz Titolo: «Il grande bluff»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 27/04/2024, a pag. 8, con il titolo "Il grande bluff" l'articolo di Andrea Minuz.
Si sa che come specchio e laboratorio di isteria italiana, il 25 aprile è secondo solo a Sanremo. E come Sanremo, ormai anche il 25 aprile inizia una settimana prima. Quindi lunghissimo, faticoso e quest’anno completamente scuratizzato. Non le solite “polemiche e tensioni”, ma video, appelli, reading, flashmob, denunce, smentite, martiri letterari, commissioni di vigilanza, il più classico e sguaiato dei frittatoni Rai spacciato per censura, e “retweet spacciati come lotta partigiana sulle montagne” (copyright Guia Soncini). E si era solo al 22, 23 aprile. Perciò al 25 ci siamo arrivati spompati (ma c’è anche “l’after” sul Nove, l’inevitabile antifascismo in purezza di Scurati da Fazio, format che ormai vive di cadaveri sul fiume: vediamo-questa-settimana-che-merdone-pesta-la-Rai, e invitiamolo qui). Però quanti momenti impareggiabili in questo 25 aprile! Quante istantanee del “crazy country but beautiful” sballottato tra fasci e antifa’! Non si sa più se abbiamo sognato o visto per davvero un presentatore costretto a dichiararsi presentatore antifascista su Instagram, spiegando che “a L’Eredità non c’è nessun elogio del fascismo”. Non si sa più se abbiamo visto o sognato il/la premier che posta subito su Facebook un monologo estromesso dalla Rai (ma che m’aa chiami censura questa? Tiè!). Non si sa più se abbiamo visto o sognato uno scrittore Premio Strega che in un’escalation di identificazione massima coi suoi libri e in un trip davvero molto donchisciottesco si sente minacciato dagli squadristi, forse spiato dall’Ovra, dice che gli hanno messo “un bersaglio in faccia”. E poi il funzionario Rai, forse responsabile dell’estromissione, che la butta sul compenso, poi ritratta, poi meglio se vieni gratis, quindi tira fuori la spiegazione che resta per me la più bella di tutte: “C’è una fiction sulla trilogia di ‘M’ in uscita per Sky e poteva essere considerata promozione”. E qui davvero non si riesce a immaginare una promozione migliore di quella mandata in scena dalla Rai. A Sky si brinda con fiumi di champagne. Il più formidabile piano marketing (e pure gratis) dai tempi dei busti di polistirolo dei boss di “Romanzo criminale”, piazzati tra l’Eur e la Magliana. Ogni dramatis parsonae era perfetta in questa dilatazione allucinata dell’unità antifascista. Perché prima ancora di ricordarci la fatidica Liberazione, il 25 aprile ci ricorda che non c’è niente di più surreale e impenetrabile della realtà italiana. La censura di Scurati come il fatidico “sparo di Capodanno”. Cosa è successo davvero? Non si sa. Non lo sapremo mai. La verità si sfalda, si entra in un buco nero, tra guizzi degni della nostra commedia più fiammeggiante. Situazioni, gag, dialoghi che uno sceneggiatore cerca invano di immaginare per conto suo, finendo come al solito superato dalla cronaca (altro che minaccia dell’intelligenza artificiale!). Poi ci sono le foto di Scurati. Una delle parti più belle della storia. Non dico sorridente, gioioso, pimpante, come in vacanza in crociera, ma almeno un po’ rilassato. Niente. Invano questa settimana ho cercato una foto di Scurati che non sembrasse progettata, costruita, insomma pensata in funzione del suo martirologio antifascista. Non c’è. In tutte le immagini Scurati sembra votato al martirio. Un condannato a morte in attesa della fucilazione, le mani legate dietro la schiena, lo sguardo fisso verso l’orizzonte, prima di lanciare l’ultimo grido, “Viva l’Italia! Viva la libertà!”, e poi pum! Giustiziato da un plotone di funzionari sul sagrato di Viale Mazzini, vicino al cavallo. Avete presente la foto che è uscita sulle agenzie, quella che accompagnava la notizia dell’orrenda censura? Sembrava un busto del Pincio. Una statua di cera esposta al Madame Tussauds, sezione “scrittori antifascisti”, gli occhi rivolti al cielo in accettazione dolce e remissiva del supplizio. Anche la luce era perfetta. A poche ore dal fattaccio, Scurati si era già trasformato nel monumento a Scurati. Un martire della Resistenza, corona d’alloro, fascia tricolore, inno di Mameli e targa su Lungotevere “Antonio Scurati”, dopo ponte Giacomo Matteotti. Ammetto che questa cosa delle immagini di Scurati mi ha ossessionato per qualche giorno. Mi ricordava la storia del contratto di Buster Keaton con la Mgm, che aveva tra le clausole il divieto di ridere in pubblico. Non dovevano circolare foto di Keaton sorridente, perché avrebbero smontato l’effetto “Pierrot Lunaire” del personaggio, quel volto impassibile, malinconico, surreale, cifra e segno impareggiabile della sua comicità. Non credo che Scurati abbia un contratto simile con Bompiani (anche alle ossessioni c’è un limite). Non è insomma una cosa preparata. Anche perché tutte le foto di Scurati sono un po’ così. Sembra un condannato a morte anche in quelle dello Strega, mentre beve l’amaro calice e spiega che il suo romanzo è una “palestra di antifascismo”. Chissà, forse in questi anni, di sicuro dopo il successo di “M”, ha coltivato questa posa da scrittore tormentato, sempre serissimo, angosciato, attonito, alle prese con “quella forma di conoscenza superiore che è la letteratura” (sempre Scurati), forse intuendo che prima o poi, dai e dai, sarebbe arrivato il momento “questo dolore ti sarà utile”. E quel momento è arrivato domenica scorsa. Tutto ciò non ha molto a che fare con la libertà d’espressione, il 25 aprile, l’antifascismo. Avete ragione, ma ci arriviamo alla fine. Il fatto è che in questa storia c’entra parecchio anche l’immagine degli scrittori, i “professionisti dell’antifascismo”. La difesa del loro desiderio di status e riconoscimento. La comprensibile rivalsa dopo tutti quei martiri televisivi che, da Fazio ad Amadeus, gli sono passati davanti, fregandogli la ribalta. Ecco quindi il “medley Scurati”, la catena di letture, il monologo che diventa orazione pubblica e collettiva. Nicola Lagioia lancia l’assist su “Lucy”, che è un po’ il canale Nove degli scrittori, una rivista multimediale, multiculturale, molto giusta, molto “reticolare” (“siamo un gruppo di lavoro che esprime un’intelligenza collettiva attraverso una struttura reticolare: un luogo vitale e di trasformazione”, quindi non persone ma “soggettività”, non rapporti causa-effetto, ma varianti decostruzioniste dell’“arabesco” di Flaiano, “rizomi”, “reticoli”, “chiasmi”, avete capito). Da qui si leva il grido in difesa della libertà. Cioè un montaggione di scrittori e scrittrici che si passano il testimone dolente, frase dopo frase, come staffette partigiane. Un “We are the World” antifascista, con Lagioia Quincy Jones che apre infatti il reading e conduce il coro (e come davanti al video di “We are the World”, “toh guarda Sandro Veronesi”, “ah c’è anche Raimo!”, “e questo chi è?”, mentre sciorinano insieme il delitto Matteotti in versione Scurati). Il monologo diventa virale. Scurati ovunque. Casa per casa, strada per strada. Sui palchi di Napoli, di Milano, nelle piazze, a scuola, all’università, Scurati traccia della maturità, “porto il monologo di Scurati”,“C’è ancora Scurati”, à la Cortellesi, “C’è sempre Scurati”, à la Ennio Doris. Anche la stampa estera com’è ovvio s’è indignata. Però come già con Berlusconi non coglie il punto. Son cose complicate da spiegare dopo Chiasso. Una Rai che censura tanto per cominciare avrebbe un progetto, un disegno, una qualche politica editoriale anche perentoria. Qualcuno che decide, altri che eseguono, invece come sempre tutto è faide, correnti, controcorrenti, scollamento tra reparti, apparato contro apparato, schiuma quantistica mascherata da rigida burocrazia, “non è che censurano, è che non sanno censurare”, come dice Ferrara – e poi alla stampa estera andrebbe prima spiegato il complicato assetto delle feste nazional-identitarie, una di sinistra (25 aprile), una di destra (4 novembre), una di centro (2 giugno), una di cui non frega niente nessuno (17 marzo): una lottizzazione perfetta. Ma la libertà non sente ragioni. Gli studenti leggono il monologo in aula perché “il contrasto alla censura e alla repressione deve ripartire dai luoghi del sapere”. Gli stessi luoghi dove a Molinari è stato impedito di parlare, con una censura che diciamo ha funzionato meglio di quella di Scurati, e neanche uno scrittore che alzava il sopracciglio per dire “mah”. Ecco poi un #MeToo dei censurati. “E’ successo anche a me, ma molti hanno taciuto”, dice Saviano. Poi a cascata un po’ tutti. Ovunque scrittori censurati (anche io ripensandoci ho presentato tempo fa un libro su RaiPlay, ma la puntata non c’è, non ho avuto il coraggio di denunciare, ho taciuto). A quanto pare si censura soprattutto a “Chesarà…”, nuova “casamatta” della sinistra, con Serena Bortone che ora gira per festival e teatri a promuovere il suo libro, con un po’ di Scurati addosso. E chissà che tripudio al Salone! Scurati “protagonista di un dialogo con Annalisa Cuzzocrea che guarda al suo ultimo libro ‘Fascismo e populismo. Mussolini oggi’, uscito nell’autunno 2023 per Bompiani, in cui offre una risposta a interrogativi come: Che cosa accomuna il fascismo ai sovranismi di oggi? Qual è la cattiva lezione che Mussolini lascia in eredità?”. Non se ne esce. Non se ne uscirà facilmente. Forse i nipoti dei nostri nipoti avranno un giorno a che fare con conservatori, progressisti, riformisti, ecc. Noi altri moriremo impegnati in uno splendido dibattito teologico tra fascismo e antifascismo. Ma il monologo, alla fine, com’era? Il monologo, signori, era brutto. Si può difendere il diritto a leggerlo in tv, e si può criticarlo come operazione disonesta e sciatta. Scurati ha fatto un compitino di storytelling tipo Scuola Holden nella prima parte, quella su Matteotti, usandola di fatto come scudo per dare poi della “neofascista” a Meloni (neofascista sarebbe un reato, una cosa tremenda, roba da mandante di stragi, trame occulte, piste nere). Non era un monologo sul 25 aprile. Non era un monologo sull’antifascismo. Era un discorsetto politico da aula occupata di Lettere, che fa il paio con il “neonazista nell’anima” di Luciano Canfora. Lo stesso errore che ritorna, dopo vent’anni di antiberlusconismo, sempre identico: delegittimare l’avversario e i suoi elettori come feccia dell’umanità, gente che non dovrebbe stare neanche all’opposizione, ma in galera, perché non ha letto i nostri libri (lo ha detto benissimo Augias andando via dalla Rai, “voglio stare con persone che mi somigliano e che hanno letto i miei stessi libri”). Ma “se il fascismo è cattivo, perché c’è chi si oppone all’antifascismo?”. Ho letto questa domanda in un un thread su “Quora”, dove si commentava il caso Scurati, probabilmente tra ragazzini. La risposta dei professionisti dell’antifascismo sarebbe perentoria: “Perché è fascista”. E’ come in quel racconto di Dick, “Gli occhi nel cielo”. Dopo un’avaria del bevatrone di Belmont, otto persone restano ferite. Vengono portate all’ospedale. Tutto sembra rientrato. Poi pian piano si rendono conto di essere ancora nel bevatrone, svenute, intrappolate a turno nell’universo mentale di ognuno di loro, un fondamentalista religioso, un veterano di guerra, una pittrice depressa, una giovane paranoica, eccetera. Ogni mondo è peggiore del precedente, e a un certo punto eccoli nel mondo di un militante comunista: “Capitalisti con le mani sporche di sangue, milizie fasciste, neri linciati a ogni angolo di strada, città popolate di gangster, barboni disperati”. In un mondo del genere, se non dici a comando “antifascista!” sei un fascista. Se non scrivi “antifa” nella bio sei sospetto. Se tentenni, come in un’intervista delle “Iene” di quelle che ti inseguono per strada, “dai forza dillo, anti-fa-scis-ta! Dillo!”, sei fascistissimo. Oggi il livello è questo. Vent’anni di social hanno riportato il dibatitto sul fascismo a prima degli studi di De Felice. Regredito alla coppia “ha fatto anche cose buone” vs “Male assoluto”, categoria emotiva e minchiata davvero perfetta per i social. Se però non scrivo “antifa’” nella bio su Twitter, se però non chiudo ogni frase con “antifascista”, potrei avere altre ragioni. Potrei essere allergico all’antifascismo pacchiano della cover di Vanity Fair con Serena Bortone, “io sono antifascista”. All’antifascismo grottesco di Scurati che si sente un bersaglio mobile, mentre gli danno la caccia solo festival letterari, giornali, televisioni. C’è l’antifascismo istituzionale di Mattarella, quello del dovere della memoria. Ma c’è anche un uso politico dell’antifascismo davanti al quale si può preferire lo sciopero bianco. Un antifascismo che sa di canto del cigno della vecchia sinistra, e ti vuole vendere il pacchetto completo, antiamericanismo, anticapitalismo, antisemitismo, tutto sotto copertura dell’antifascismo. Un antifascismo fermo e risoluto coi fascismi di cento anni fa, impappinato davanti a quelli di oggi. Un antifascismo che da Feltrinelli commemora senza imbarazzo il centenario della morte di Lenin (Lenin, cazzo!), con torretta di libri in bella mostra, vicino allo stand coi libri sul povero Matteotti. Ci sono un sacco di antifascisti dell’Illinois, quelli che fischiano e umiliano la Brigata ebraica, ogni 25 aprile che Dio comandi, e convinti campioni di antifascismo erano senz’altro le Br. Un liberale, nel 2024, 25 aprile a parte, non ha bisogno di chiudere le frasi con “antifascista”. E’ già incluso nel prezzo. Grazie alla Rai, il monologo di Scurati ha capitalizzato al massimo questa parodia antifascista, ultima stella polare della sinistra intellettuale. Ha trasformato un monologo fatto apposta per dividere in uno splendido momento di fusione delle anime belle, con un promo perfetto per la serie “M”. E mi piace pensare che almeno ora se la stia ridendo. Naturalmente stando attento a non farsi fotografare.
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