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La Repubblica Rassegna Stampa
07.04.2024 Israele e i suoi nemici, come nel 1948
Cronaca di Fabio Tonacci

Testata: La Repubblica
Data: 07 aprile 2024
Pagina: 8
Autore: Fabio Tonacci
Titolo: «La paura di Israele circondata da nemici»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 07/04/2024, a pag. 8, con il titolo "La paura di Israele circondata da nemici 'In gioco c'è l'esistenza così come nel 1948' " la cronaca di Fabio Tonacci


Fabio Tonacci

Israele commemora il 7 ottobre. E pianifica nuove comunità a sud | il  manifesto
C’è un Israele prima del 7 ottobre e c’è un Israele dopo il 7 ottobre

Ai tavoli del Café Noir servono pita drusa riempita di agnello, vino rosso delle alture del Golan e l’illusione della normalità. A shabbat appena finito, i ristoranti attorno al mercato storico di Tel Aviv si stanno popolando. La serata è tiepida. Il fucile d’assalto appeso alla sedia di una donna che ha portato a cena i figli piccoli è scena abituale, nella città dove si passeggia con gli infradito e l’M16 a tracolla. Qui e ora, una macchina fotografica scatterebbe l’istantanea di un sabato qualunque. Sembra tutto come prima. Ma niente è davvero come prima. «Una volta ci sentivamo sicuri nel nostro Stato, pur essendo circondati da nemici», dice Yael, 39 anni, la mamma col fucile. «Vivevamo nella convinzione che l’esercito ci avrebbe protetto. Il 7 ottobre non lo abbiamo visto arrivare, ha infuso in noi tutti il senso di insicurezza». A quanto pare, sono convinti che pistole e fucili siano un buon antidoto alla paura: centomila le nuove licenze di porto d’armi rilasciate dopo l’attacco di Hamas, a fronte di 299 mila domande pervenute. Si sono formate 900 ronde cittadine armate, 12.500 volontari hanno seguito un breve addestramento della polizia. Parlando, discutendo, talvolta litigando al Café Noir si apprende un fatto inoppugnabile: c’è un Israele prima del 7 ottobre e c’è un Israele dopo il 7 ottobre. Due paesi che non si somigliano molto. I concetti base della convivenza coi palestinesi si sono ribaltati, il futuro si è fatto fosco. «Hezbollah ci attaccherà dal Libano», è la convinzione generale, irrobustita da altri nove razzi piovuti sul Nord nelle ultime ore. «Anche l’Iran ci colpirà, forse non direttamente». Nella mente di ogni israeliano sono impressi due numeri, 1.200 e 133. Aiutano a capire lo stato d’animo di un’intera nazione. Il primo indica le vittime del massacro dei kibbutz, quando l’odio di Hamas è esondato dalla Striscia: era esattamente sei mesi fa, un sabato. «Equivale a un decimo di una giornata ordinaria ad Auschwitz, dove nelle camere a gas morivano in diecimila ogni 24 ore». Il secondo numero segnala gli ostaggi tuttora nelle mani dei miliziani. Erano 134 fino a venerdì, prima che venisse rivelata la morte di Elad Katzir trovato cadavere a Khan Yunis. Milleduecento e centotrentatré, cifre che ancora questa sera spingono centomila persone in piazza per urlare a Netanyahu la sua colpa: non aver protetto gli ebrei e non aver salvato i sequestrati. Vogliono elezioni anticipate, ora le chiede anche Benny Gantz. Le brutalità dell’esercito a Gaza, che rischiano di isolare Israele a livello internazionale, non sono però all’ordine del giorno della protesta. «Per la prima volta non mi interessa cosa il mondo pensa di noi», ragiona chi, reggendo un manifesto con la faccia di Bibi sovrapposta a quella del narcotrafficante Escobar, si dichiara di sinistra. «È in gioco la nostra esistenza».
I sondaggi più recenti dell’Israel democracy institute raccontano cosa pensano gli israeliani: il 66 per cento ritiene che Netanyahu non debba cedere alla richiesta degli americani di ridurre i bombardamenti sulle aree abitate della Striscia; l’80 per cento crede che il governo non debba prendere in considerazione le sofferenze della popolazione palestinese nel pianificare il proseguimento delle operazioni militari; il 63 per cento non è d’accordo con uno stato palestinese indipendente e smilitarizzato. Ma solo il 32 per cento giudica positivamente il premier. Una società unità nell’intento, spaccata politicamente. E che si sente incompresa.
«Voi europei non capite il nostro dramma», ripete Yael. «Vi concentrate solo sulle vittime palestinesi e sottovalutate l’antisemitismo dilagante ». La guerra contro Hamas è la più lunga sostenuta dallo Stato ebraico dopo quella del 1948, in difesa dell’Indipendenza. Durò più di 20 mesi. Settantasei anni fa, come oggi, gli attacchi provenivano da sei fronti. I cinema di Tel Aviv sono aperti e sul lungomare si fa jogging al sole, ma è un altro riflesso dell’illusione. L’economia soffoca. La guerra finora è costata al bilancio pubblico 150 miliardi di dollari, il tasso di disoccupazione e assenza dal lavoro è al 5,9 per cento (era al 3,6 per cento a settembre), i turisti sono spariti e i tassisti arrotondano accompagnando a tariffa ridotta i bambini a scuola. Inoltre 135 mila israeliani sono ancora sfollati negli hotel e nelle case dei parenti. Chi è voluto rimanere vicino al confine col Libano, si getta a terra con le mani sulla testa quando sente la sirena. Reot Non, una residente del kibbutz Kfar Blum, ha appena messo sui social una fotografia che ritrae i due figli stesi sul pavimento. «Questa, da sei mesi, è la nostra triste realtà».

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