Il terrore che l’Occidente non combatte Commento di Micol Flammini
Testata: Il Foglio Data: 27 marzo 2024 Pagina: 1/4 Autore: Micol Flammini Titolo: «Il terrore che dobbiamo combattere»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 27/03/2024, a pag. 1/4, con il titolo "Il terrore che dobbiamo combattere" l'analisi di Micol Flammini.
Micol Flammini
Israele ha richiamato gran parte dei suoi negoziatori da Doha, dopo che Hamas ha rifiutato un’altra delle proposte su un accordo per il cessate il fuoco che comprendeva, secondo le notizie di Keshet 12, la liberazione degli ostaggi e la scarcerazione di ottocento palestinesi, tra cui cento condannati per omicidio. Israele aveva accettato, Hamas ha rifiutato e la sua risposta negativa all’accordo era stata preparata già prima della risoluzione dell’Onu di lunedì sul cessate il fuoco che è passata grazie all’astensione di Washington nonostante non contenesse una condanna di Hamas. Sono tanti i rifiuti del gruppo di terroristi e il risultato del voto presso le Nazioni Unite contribuisce a far sentire loro più forti e Israele più isolato. Le condizioni di Hamas sono: prima un cessate il fuoco, che sia permanente, poi la liberazione degli oltre cento prigionieri israeliani che tiene in ostaggio dal 7 ottobre, da sei mesi. Nessuna garanzia.
Il gruppo è indebolito militarmente dentro alla Striscia, ma non per questo ha intenzione di fermarsi, lasciare Gaza o andare in esilio. La pressione internazionale su Israele rimane la più grande occasione di non alterare il suo potere nella Striscia. L’invasione di Rafah, dove rimangono quattro battaglioni che ricevono ancora le armi tramite il contrabbando molto attivo nel sud al confine con l’Egitto, è diventata una questione mediatica che ha portato Israele e Stati Uniti a discutere dell’opportunità di entrare in un territorio densamente popolato: Washington dice di no, ma crede ci siano alternative; Israele risponde che è l’unico modo per sconfiggere Hamas, ma si può fare con cautela. Poi, come ha detto una fonte dell’esercito israeliano al Foglio, quando il gruppo sarà disarmato, bisognerà fare in modo che la Striscia torni ai palestinesi: quando Gaza non sarà più Hamastan. Israele si oppone al ritorno dell’Autorità palestinese a Gaza perché è già debole a Ramallah, non controlla il suo territorio, e affidarle la politica della Striscia, la costruzione delle sue istituzioni vorrebbe dire partire con un piano pronto a collassare e a farsi infiltrare da altri gruppi come Hamas, se non lo stesso Hamas che sta cercando di sopravvivere politicamente.
Ismail Haniyeh è tra i leader del gruppo della Striscia, ormai risiede a Doha da anni, ha iniziato delle trattative parallele con l’Autorità nazionale palestinese per assicurarsi un futuro a Gaza, ha una visione diversa della guerra rispetto a Yahya Sinwar, l’altro leader che invece è rimasto nella Striscia e finora ha dimostrato di avere più potere decisionale riguardo ai negoziati con Israele. Ieri, assieme ai capi del Jihad islamico, Haniyeh era a Teheran, dove ha incontrato la Guida suprema Ali Khamenei e il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian. E’ stato ripreso il suo arrivo a Teheran, sono state scattate foto dei suoi incontri, ha tenuto una conferenza stampa e anche se non aveva più al suo fianco Saleh al Arouri – ucciso da un drone in Libano a inizio gennaio e presenza assidua negli incontri con gli iraniani – la visita è stata esposta come un successo, messa in mostra per indicare che mentre il rapporto tra Israele e Stati Uniti inciampa, il loro va avanti e fa progetti. La guerra in medio oriente è costruita su vari fronti che sono tutti attorno a Israele: c’è Gaza, c’è il Mar Rosso, c’è il Libano. Ognuno di questi conflitti è nelle mani di gruppi che si coordinano con l’Iran e gli israeliani hanno un’espressione per definire questa strategia di Teheran che mira a impantanare Gerusalemme: l’anello di fuoco. Questo anello è gestito da vari gruppi armati dagli iraniani.
Poi c’è il fronte della pressione internazionale, che rende agitata anche la politica interna dello stato ebraico. Lunedì si è dimesso un ministro del governo, Gideon Sa’ar, ex membro del partito del premier, Benjamin Netanyahu, che era entrato nel governo di unità nazionale dopo il 7 ottobre. E’ il primo ad abbandonare questa coalizione nata dalla necessità di rispondere insieme, al di là degli odi politici, all’attacco di Hamas. La divisione dentro al governo, ma anche nell’opposizione, non riguarda se portare a termine o meno l’operazione a Rafah, su questo sono tutti d’accordo, ma sui tempi e su come farlo senza che venga usata per mostrificare Israele.
Ieri sui giornali israeliani non si parlava tanto di Biden e del suo rapporto con Gerusalemme, ma a fare notizia erano le parole dell’altro candidato alle presidenziali negli Stati Uniti, Donald Trump, che in un’intervista ha esclamato: è ora che Israele si fermi. L’ex ambasciatore israeliano a Washington, Michael Oren, ha detto alla radio che Biden sta pagando un prezzo alto e le sue decisioni non hanno nulla a che fare con la sua antipatia per Netanyahu. Non è lui che odia Bibi, ha detto l’ambasciatore, è l’altro, è Trump, che non ha mai perdonato al primo ministro israeliano di essersi congratulato con Biden dopo le elezioni del 2020.
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