Netanyahu: un ritratto, ma Biden si vergogni Analisi di Ron Kampeas, David Horovitz, J.J Gross
Testata: israele.net Data: 26 marzo 2024 Pagina: 1 Autore: Ron Kampeas, David Horovitz, J.J Gross Titolo: «In Israele la popolarità di Netanyahu è crollata, ma non per le ragioni per cui viene attaccato in Occidente»
Riprendiamo dal sito www.israele.net - diretto da Marco Paganoni - una raccolta di articoli pubblicati sul Times of Israel a firma di Ron Kampeas, David Horovitz, J.J Gross, dal titolo "In Israele la popolarità di Netanyahu è crollata, ma non per le ragioni per cui viene attaccato in Occidente".
Nella loro crescente critica alla guerra di Israele contro Hamas a Gaza, i leader del partito democratico americano puntano tutto contro un uomo: il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
Il presidente Joe Biden ha affermato che il modo in cui Netanyahu sta conducendo la guerra “danneggia Israele più di quanto aiuti Israele”. Il senatore Bernie Sanders, portabandiera della sinistra a Washington, ha dichiarato che “gli Stati Uniti non dovrebbero fornire un centesimo in più alla macchina da guerra di Netanyahu”. L’altra settimana il senatore Chuck Schumer, leader della maggioranza, è andato anche oltre quando ha chiesto che si tengano nuove elezioni in Israele, affermando esplicitamente che “la coalizione di Netanyahu non soddisfa più le esigenze di Israele dopo il 7 ottobre”. Dicendo che il primo ministro israeliano “ha smarrito la strada”, Schumer ha enumerato Netanyahu come uno dei principali “ostacoli alla pace” (insieme a Hamas e i palestinesi che la sostengono, gli estremisti israeliani di destra e il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen ndr).
Per tutta risposta, Netanyahu ha ribadito più e più volte che, quando si tratta della guerra, la sua politica ha il sostegno di una sostanziale maggioranza di israeliani. “Puoi prendere qualsiasi taxi, entrare in qualunque centro commerciale, camminare per strada e parlare con la gente, e la grande maggioranza ti dirà che sostiene gli obiettivi che il governo ha fissato – ha detto Netanyahu al consiglio direttivo di AIPAC, l’American Israel Public Affairs Committee – La descrizione secondo cui c’è un primo ministro emarginato, che guida la politica con alcuni gruppi estremisti marginali, è falsa”.
Stando a tutti i sondaggi, Netanyahu ha ragione. Sui principali punti di contesa tra Biden e Netanyahu riguardo alla guerra, la maggior parte degli israeliani sostiene le politiche del proprio primo ministro rispetto a quelle del presidente degli Stati Uniti.
Ma è anche vero che la maggior parte degli israeliani concorda con Schumer sul fatto che in Israele si dovrebbero tenere elezioni anticipate. E solo perché gli israeliani sostengono gli obiettivi generali che Netanyahu ha fissato per la guerra a Gaza non significa che sostengano lui personalmente: l’indice di gradimento di Netanyahu in Israele è crollato e tutti i sondaggi confermano costantemente che, se si dovessero tenere elezioni anticipate, il suo partito perderebbe molti seggi alla Knesset e la sua coalizione di governo ne uscirebbe nettamente sconfitta.
Non basta. I sondaggi mostrano che gli israeliani non sono necessariamente d’accordo con il modo in cui Netanyahu sta perseguendo la vittoria a Gaza, né hanno fiducia che lui sia il più adatto curatore dell’interesse nazionale. “E’ in atto un vasto stringersi attorno alla bandiera a favore dello sforzo bellico – dice Dahlia Scheindlin, analista dell’opinione pubblica per la Century Foundation, un think tank progressista – Ma c’è un profondo risentimento contro il governo. Abbiamo molte ricerche che mostrano molto chiaramente che la maggioranza degli israeliani pensa che le valutazioni di Netanyahu riguardo alla guerra e il suo processo decisionale siano inquinati da considerazioni politiche”.
Nelle ultime settimane Biden e Netanyahu si sono scontrati su due questioni principali. La prima è se Israele debba invadere Rafah, la città nel sud di Gaza che è piena di sfollati ma nella quale, secondo Netanyahu e i vertici militari, Israele deve entrare se vuole debellare Hamas. L’altro punto riguarda un antico disaccordo tra Netanyahu e i presidenti democratici americani: e cioè se Israele debba accettare o meno la creazione di uno stato palestinese.
Su entrambe le questioni al momento gli israeliani sono d’accordo con Netanyahu. Un sondaggio condotto il mese scorso dall’Israel Democracy Institute ha rilevato che quasi due terzi degli israeliani sostengono che Israele dovrebbe “ampliare le sue operazioni militari a Rafah”. Analogamente, un altro sondaggio di febbraio condotto dall’Israel Democracy Institute ha rilevato che oggi il 55% degli israeliani è contrario alla nascita di uno stato palestinese, rispetto al 37% che è favorevole. Shira Efron, direttrice della ricerca politica per l’Israel Policy Forum, un gruppo statunitense che sostiene l’esito a due stati, afferma che una campagna per uno stato palestinese senza condizioni non avrebbe chance, in questo momento in Israele, paese dove lei risiede. “Agli israeliani, oggi il discorso su una soluzione a due stati suona totalmente stonato e rappresenta solo una ricompensa per il terrorismo”, spiega Efron alla Jewish Telegraphic Agency.
Scrive David Horovitz: “Molti israeliani, forse la maggior parte, erano e sono aspramente contrari al tentativo di Netanyahu di sottomettere la magistratura alla maggioranza politica. Molti israeliani, verosimilmente una grande maggioranza, trovano inconcepibile che un pericoloso razzista sia il nostro attuale ministro della polizia e un altro sia il nostro ministro delle finanze. Molti israeliani, probabilmente la maggior parte, ritengono Netanyahu il principale responsabile, insieme ai suoi capi della sicurezza, per l’ incomprensibile incapacità di riconoscere i segni evidenti di un attacco imminente e impedire l’invasione di Hamas”. D’altra parte, “il mostruoso massacro perpetrato da Hamas, il vasto sostegno a quell’attacco tra i palestinesi di Gaza e Cisgiordania, il diffuso rifiuto nel mondo arabo e islamico di denunciare quella barbarie, le oceaniche manifestazioni anti-israeliane in tutto il mondo, l’accanita contraffazione, negazione e fulminea cancellazione dalla storia di ciò che è realmente accaduto il 7 ottobre: tutto questo e altro ancora ha portato gli israeliani a diffidare, in una misura forse senza precedenti, di compromessi e concessioni verso i palestinesi.
(Da: Times of Israel, 20.3.24)
Schumer, il più autorevole congressista ebreo, da sempre sostenitore delle ragioni di Israele, sa che la sua posizione a favore dei due stati oggi non è quella degli israeliani. Nel suo discorso ha sì affermato che un controllo perpetuo israeliano sui palestinesi “garantisce guerra certa per sempre”, ma ha anche riconosciuto che oggi molti israeliani temono che uno stato palestinese, seppure smilitarizzato, “potrebbe tollerare o fare da trampolino per ulteriore terrorismo contro lo stato ebraico”, e ha aggiunto: “Capisco queste paure”.
Schumer è stato attaccato in particolare per il suo appello per elezioni israeliane anticipate, un appello che molti gruppi ebraici e molte personalità israeliane, compresi molti avversari di Netanyahu, hanno visto come una indebita ingerenza negli affari interni di un alleato democratico.
E tuttavia, secondo i sondaggi questo è proprio ciò che vogliono gli israeliani. Un sondaggio di gennaio dell’Israel Democracy Institute, che rispecchiava il dato di altri sondaggi, ha rilevato che il 71% degli israeliani vuole che le elezioni vengano anticipate: la divisione semmai è tra coloro che le vorrebbero tenere a guerra ancora in corso e quelli che le vorrebbero a guerra finita. Soltanto il 21% degli intervistati desidera che le elezioni si svolgano alla loro scadenza naturale, ovvero alla fine del 2026.
In una recente intervista a Netanyahu, la conduttrice della CNN Dana Bash ha citato i sondaggi che mostrano che gli israeliani vogliono le elezioni “appena finirà la guerra”. Netanyahu, solitamente a suo agio nelle interviste televisive americane, è apparso esitante, è rimasto in silenzio per alcuni secondi e poi ha detto: “Vedremo, quando vinceremo la guerra”.
La popolarità di Netanyahu stava già scemando prima della guerra a causa del controverso tentativo di indebolire il sistema giudiziario israeliano. Efron afferma che la débâcle di fronte all’invasione di Hamas del 7 ottobre ha aggravato la sua impopolarità e ha eroso la fiducia degli israeliani nella sua capacità di garantire la sicurezza, uno dei messaggi centrali di tutta la sua carriera politica.
“Il 7 ottobre è l’evento più catastrofico che Israele abbia subito dalla sua nascita, ed è avvenuto sotto Netanyahu – spiega Efron – La dottrina della sicurezza di Israele è fallita ad ogni livello: nessuna deterrenza, nessun allarme o preavviso, nessuna difesa effettiva. Il governo, il governo di Netanyahu, non è stato nemmeno capace di rispondere alle immediate esigenze di coloro che erano stati più colpiti: le vittime del pogrom di Hamas, gli ostaggi e le loro famiglie, le decine di migliaia di persone sfollate dalle loro case”. E’ noto che per molte settimane a queste esigenze hanno sopperito gli enormi sforzi volontaristici di gruppi auto-organizzati della società civile anziché gli enti statali preposti, che si sono rivelati gravemente impreparati.
Un sondaggio di gennaio condotto da Canale 13 ha rilevato che il 55% degli israeliani ritiene che le decisioni di Netanyahu siano guidate principalmente da interessi personali, contro il 33% che confida che dia priorità a ciò che è meglio per il paese.
Tuttavia secondo Michael Makovsky, presidente del conservatore Jewish Institute for the National Security of America, sfidare Netanyahu quando gli restano più di due anni di mandato, cioè abbastanza tempo per riprendersi, è una scommessa sbagliata, nonostante quello che dicono ora i sondaggi. Netanyahu, che è stato primo ministro più a lungo di qualsiasi altro leader nei 75 anni di storia di Israele, dispone al momento di una salda maggioranza alla Knesset, il parlamento israeliano. Per anticipare le elezioni, questa situazione dovrebbe cambiare. “Netanyahu è il primo ministro democraticamente eletto – osserva Makovsky – E finora non mi pare che qualcuno abbia mai vinto scommettendo politicamente contro Bibi Netanyahu. La gente si è fatta questa idea che ci saranno le elezioni subito dopo la fine della guerra. Non sono così sicuro che sia vero”.
(Da: Times of Israel, 22.3.24)
Scrive J.J Gross: Se Biyamin Netanyahu si preoccupasse di cosa è meglio per Israele, si dimetterebbe. Adesso. E non perché abbia torto riguardo alla necessità di proseguire la guerra finché Hamas non sarà debellata. In realtà chiunque lo sostituisse, sia del Likud che di uno qualsiasi dei legittimi partiti d’opposizione, seguirebbe la stessa strategia militare.
In questo momento Israele viene attaccato sia da amici che da nemici. Non possiamo fare molto circa coloro che ci odierebbero in ogni e qualsiasi circostanza. Un paese corrotto e in via di fallimento come il Sud Africa non cambierebbe atteggiamento neanche se ci proclamassimo colpevoli davanti alla Corte Internazionale di Giustizia e chiedessimo perdono all’African National Congress.
Il problema è che ora siamo alle prese anche con i nostri amici a Washington e Londra, e veniamo chiamati in causa da supposti alleati a Parigi e Berlino su politiche di cui danno la colpa esclusivamente a Netanyahu, che è diventato una sorta di paria sia in patria che all’estero. Solo con il suo allontanamento dalla scena i nostri amici capiranno che, per noi, la guerra a Gaza è una guerra per la sopravvivenza, e non una battaglia egoistica per salvare il posteriore, politico e personale, di un uomo.
Se Netanyahu dovesse dimettersi e essere sostituito da un primo ministro meno tossico, il mondo potrebbe iniziare ad ascoltare noi e le nostre autentiche preoccupazioni. Un Benny Ganz, o uno Yair Lapid, o un Naftali Bennet, o anche una delle personalità di secondo piano del Likud verrebbero accolti in modo molto diverso a Washington, senza il sospetto e la diffidenza che Netanyahu genera ogni volta che apre bocca.
Sì, Netanyahu ha ragione su una cosa: dobbiamo combattere Hamas fino alla sua definitiva sconfitta. Ma per raggiungere questo obiettivo senza trasformarlo in una vittoria di Pirro abbiamo bisogno di un leader di cui ci si possa fidare, sia in patria che all’estero. E quel leader non è Binyamin Netanyahu. Se si dimettesse ora, potrebbe salvare ciò che resta della sua credibilità, e la storia potrebbe giudicarlo non solo per ciò che ha fatto di sbagliato, ma anche per le cose giuste che ha fatto un tempo.
(Da: Times of Israel, 21.3.24)
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