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Il Foglio Rassegna Stampa
19.07.2003 Parole chiare sulla tregua, Arafat e l'Europa
Hamas è un ostacolo al dialogo e all'attuazione della Road Map

Testata: Il Foglio
Data: 19 luglio 2003
Pagina: 4
Autore: Emanuele Ottolenghi
Titolo: «La Tregua che non c'è»
Lucido e chiaro come sempre, Ottolenghi ci spiega perchè il momento è difficile e delicato. Sul Foglio di sabato 19 luglio 2003.
Dalla firma della hudna (la tregua) palestinese
a fine giugno il numero di attentati
contro civili israeliani è sceso: che
sia la fine dell’Intifada? Occorre cautela,
perché già in passato l’estremismo palestinese
sfruttò la situazione per riarmarsi e
riorganizzarsi e solo rispettando la tregua
Hamas può sperare di poter riaprire efficacemente
efficacemente
le ostilità in futuro. Questa strategia,
adottata da Hamas già dieci volte dal
1994 a oggi, nasce dall’attuale debolezza
dell’organizzazione e dalla necessità di evitare
un confronto – con Israele in questo
caso – che gli potrebbe essere fatale. Certo,
si può auspicare un ripensamento dell’agenda
politica di Hamas che riconosca
finalmente la necessità di un compromesso
territoriale con Israele – ma quel ripensamento
rimane per ora l’illusione di alcuni
eurocrati – o sperare che l’Autorità palestinese
rispetti i termini della road map.
Tuttavia per ora i palestinesi hanno solo ridotto
il livello retorico di incitamento alla
violenza nei loro mezzi di informazione –
controllati dal governo, quindi facili da addomesticare.
Manca ancora un’azione capillare
che raccolga le circa 25 mila armi
illegali presenti nei territori e la loro distruzione
da parte di terzi, lo smantellamento
delle fabbriche di esplosivi e missili
Kassam, l’arresto, processo e condanna
dei membri delle organizzazioni terroristiche,
lo smantellamento di queste: l’efficace
attività di antiterrorismo che in passato
occasionalmente i servizi palestinesi hanno
dimostrato di saper fare. Solo se ciò avvenisse
si può sperare di trasformare la
tregua in cessate-il-fuoco permanente e
passare dalla prima alla seconda fase della
road map. E la domanda da porsi è: è la
debolezza politica o la mancanza di volontà
politica che impedisce all’Autorità
palestinese di passare all’azione?
L’Autorità palestinese non ha fretta di
adempiere agli obblighi che derivano dalla
road map, che nella sua prima fase richiede
una cessazione incondizionata della
violenza da parte palestinese. Il corollatrovarsi
rio di quest’obbligo sarebbe il disarmo di
Hamas, della Jihad Islamica, e degli altri
gruppi armati legati a al Fatah, il movimento
di Arafat, con le buone (negoziando)
con le cattive. Il disarmo invece, per il
momento almeno, non avverrà. Il capo dei
servizi preventivi di sicurezza palestinesi a
Ramallah ha detto chiaro e tondo che la
consegna è di non combattere Hamas. La
disponibilità di Abu Mazen a dialogare con
Hamas piuttosto che cercare il confronto è
la più chiara indicazione politica di quale
percorso la leadership palestinese abbia
per ora scelto di seguire, visto che Abu Mazen
stesso ha detto che non farà guerra a
Hamas anche se la tregua non tenesse.
La relativa calma non deve quindi illudere
nessuno sulle chance di successo della
road map, perché potrebbe durare poco.
La diminuzione di attacchi terroristici contro
contro
obiettivi civili israeliani è per il momento
soltanto temporanea. Esistono importanti
segnali che Hamas si stia riorganizzando
e si prepari a una nuova fase della
lotta contro Israele. Nella prima intervista
rilasciata da Abd el Rantisi dopo il fallito
attacco israeliano contro di lui a metà
giugno, il portavoce di Hamas ha chiarito
come la tregua serva a dimostrare come solo
la lotta armata sia la strada per liberare
la Palestina. Il messaggio è chiaro: il processo
politico fallirà perché gli scopi che si
prefigge Hamas non potranno mai essere
raggiunti attraverso una trattativa. Fallito
il momento diplomatico, ricomincerà la stagione
violenta. Il significato di tutto questo
è che Hamas si rivelerà un ostacolo alla ripresa
del dialogo diplomatico e alla sua
eventuale attuazione nei termini stabiliti
dalla road map. Soltanto un confronto tra
Autorità palestinese e Hamas che ne porti
allo smantellamento potrà sbloccare l’impasse.
Ritardare quel momento potrebbe
non soltanto aumentare il costo umano e
politico della guerra civile palestinese, ma
anche risultare fatale alla road map.
Hamas vede la tregua come un momento
di pausa utile per riarmarsi e riprendere
forze, non come un passo avanti sulla strada
della legittimazione politica e dell’accettazione
del processo di pace fondato sulla
visione dei due Stati per i due popoli. Il
rispetto del cessate-il-fuoco negoziato faticosamente
tra le fazioni palestinesi deriva
più dall’intrinseca debolezza operativa di
Hamas che non da una decisione strategica
di adottare metodi non violenti di lotta. Oltre
che a ricostituire le capacità offensive,
la tregua serve a rafforzare Hamas politicamente
all’interno della società palesti-
nese: che questo stia avvenendo lo si vede
nel recente sondaggio d’opinione condotto
da Khalil Shikaki e dal suo istituto di Ramallah
(www.pcpsr.org): Hamas sale nei
consensi e Abu Mazen rimane fermo al poco
lusinghiero 3 per cento di sostegno. Se il
sondaggio non bastasse, il segno più chiaro
della forza di Hamas e della debolezza
di Abu Mazen lo si vede nell’impossibilità
dell’Autorità palestinese di adempiere all’aspetto
più importante della prima fase
della road map, e cioè di smantellare la
struttura terroristica. E’ stato Abu Mazen
in fondo ad andare a Gaza – roccaforte di
Hamas – e non il contrario, per negoziare
la tregua. Lo scenario che si prospetta da
queste considerazioni è dunque poco propizio
alla trasformazione della hudna in
processo diplomatico sostanziale. Abu Mazen
potrebbe ulteriormente indebolirsi e
dal pubblico, ostacolato da Arafat, e sotto
pressione israeliana e americana a rispettare
gli impegni presi.
La possibilità che questa situazione cambi
si basa su due presupposti: il primo è
che Abu Mazen si rafforzi, il secondo che la
riduzione almeno temporanea del terrorismo
israeliane che migliorino le condizioni di
vita nei territori e rafforzino quindi il sostegno
popolare per il governo palestinese
e l’iniziativa diplomatica. Che la seconda
cosa avvenga e che Abu Mazen consolidi
dunque il suo controllo del potere dipende
in certa misura dalla volontà politica degli
europei di riconoscere come per rafforzare
Abu Mazen e il processo di pace occorra
isolare Arafat. Non a caso infatti le violazioni
della tregua finora sono venute da
gruppi vicino al rais, non da Hamas. La possibilità
che Israele faccia ulteriori concessioni
dipende invece dalla continuazione
della calma e quindi dal rafforzamento della
linea moderata e non violenta sostenuta
dal primo ministro palestinese. Che poi
Abu Mazen capitalizzi sul suo rafforzamento
per affrontare Hamas una volta per tutte
rimane da vedere.
L’opinione pubblica palestinese oggi è
stanca: con un’economia in ginocchio dopo
tre anni di lotta senza risultati politici esiste
oggi la possibilità che un graduale allentamento
della pressione israeliana porti
negoziale.
Occorre dunque che sia Abu Mazen
la sua linea moderata, non Arafat e Hamas,
a beneficiarne. Questo comporta un ripensamento
– tardivo ma necessario – da
parte degli europei della loro insistenza a
dialogare con Arafat e Hamas. Occorre isolare
entrambi in questo cruciale momento
per dare forza ad Abu Mazen. Solo così si
può sperare che il primo ministro palestinese
trovi la forza politica per adempiere ai
suoi obblighi, sperando che nel frattempo
gli sia anche venuto il coraggio per farlo.

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