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La Repubblica Rassegna Stampa
24.03.2024 Lo Stato Islamico è vivo e vegeto
Commento di Maurizio Molinari

Testata: La Repubblica
Data: 24 marzo 2024
Pagina: 1/25
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «Il ritorno della Jihad»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 24/03/2024, a pag. 1/25, con il titolo "Il ritorno della Jihad" l'editoriale del direttore Maurizio Molinari.

Molinari: “Le sorti dell'Italia sono decisive per quelle dell'Europa” -  Mosaico
Maurizio Molinari

Questa foto ritrae l'Isis al tempo del Califfato. Era stato dichiarato sconfitto nel 2019, ma non era affatto scomparso. E in generale, il terrorismo islamico si è addirittura diffuso in nuovi territori, ha come centro di diffusione l'Iran. Lo alimenta l'odio contro Israele e gli ebrei che sta dilagando, in modo particolare, in tutto l'Occidente 

L’Isis era stato dichiarato sconfitto nel 2019 al termine di una massiccia campagna militare da parte di una coalizione internazionale guidata da Usa, Russia, Paesi europei e musulmani che portò ad espugnare la capitale Raqqa, liberare i territori che occupava in Siria ed Iraq, ed eliminare il suo sanguinario leader, Abu Bakr al Baghdadi. Da quel momento gli stessi Paesi che avevano sconfitto Isis lo hanno derubricato a uno dei tanti gruppi jihadisti che infestano il mondo dell’Islam, dedicando alla lotta contro di lui risorse e impegno in rapida diminuzione. Ma il progetto di Isis della creazione di un Califfato globale non è affatto scomparso, si è solo trasferito: spostando la sua culla da “Bilad al-Sham”, il Medio Oriente, al “Khorasan”, ovvero l’Afghanistan e i territori adiacenti in Pakistan, Iran, Turkmenistan, Tagikistan, Uzbekistan, Kyrgyzistan e Kazakhstan. L’uso della terminologia geografica che evoca la genesi dell’Islam serve a mobilitare e reclutare i seguaci più fondamentalisti attorno al miraggio di Hassan el-Banna, il teologo egiziano che reagì alla decisione del leader turco Ataturk di smantellare il Califfato dopo la fine della Prima Guerra Mondiale lanciando la sfida di ricostruirlo al fine di sconfiggere la modernità occidentale causa di ogni male.

Il ritiro della Nato da Kabul e il ritorno al potere dei talebani hanno riportato l’Afghanistan nella condizione di terra ove i jihadisti possono operare e la “Provincia del Khorasan” di Isis — fondata nel 2015 da un gruppo di talebani pakistani — ha così trovato una nuova piattaforma da cui operare, anche contro gli stessi mullah di Kabul, nell’indifferenza dei più.

L’attentato di gennaio a Kerman, in Iran, ed ora quello contro il concerto a Mosca ci dicono dunque che Isis non è affatto sconfitto ma — come spesso avviene per i gruppi jihadisti — ha solo cambiato pelle al fine di continuare a colpire, perseguendo un obiettivo secolare. Ed è interessante a tale riguardo come nella rivendicazione della strage di venerdì Isis parli di attacchi “contro i cristiani” rilanciando la sfida jihadista alla Russia proprio sul terreno che a Putin è più caro: i valori fondamentali del cristianesimo. È una maniera per fare appello alla notte della Storia, al fine di innescare un domino di violenze contro Mosca da parte dei gruppi terroristi islamici dell’Asia Centrale.

Si tratta di una sfida brutale che ha colto di sorpresa Putin all’indomani del plebiscito che lo ha confermato al Cremlino e che chiama in causa la scelta strategica da lui fatta dopo la caduta di Raqqa: archiviare la fase di cooperazione anti-jihadista con l’Occidente, iniziata a seguito degli attacchi dell’11 settembre 2001 di Al Qaeda contro gli Stati Uniti, per scegliere invece la sfida aperta alle democrazie al fine di modificare a proprio vantaggio l’equilibrio disicurezza in Medio Oriente, nel Mediterraneo, in Africa ed anche in Europa. È la convinzione di aver battuto Isis, di aver domato i jihadisti lungo i propri confini asiatici, che ha spinto Putin a dedicarsi al confronto aperto contro Usa e Ue, portandolo ad aggredire l’Ucraina il 24 febbraio 2022.

Ma l’assalto di Isis al concerto di Mosca svela che Putin ha commesso un grave errore — non degno di un abile giocatore di scacchi — nel ritenere la Jihad un mostro oramai domato.

Ed a ben vedere a confermare l’entità dell’errore compiuto ci sono le non rare complicità operative fra i mercenari della Brigata Wagner ed i gruppi jihadisti in Sahel in chiave antioccidentale così come la scelta del Cremlino di schierarsi con Hamas dopo il pogrom del 7 ottobre scorso contro i villaggi israeliani nel Negev Occidentale. Appena due giorni fa Mosca ha rifiutato di approvare all’Onu la risoluzione Usa sul cessate il fuoco a Gaza per non condannare esplicitamente le violenze commesse da Hamas. Insomma, Putin ha creduto che Isis fosse sconfitta e che i gruppi jihadisti — dal Sahel a Gaza, fino al Mar Rosso — potessero diventare pedine del suo gioco strategico contro le democrazie dell’Occidente ma adesso deve fare i conti con una Jihad globale che — come Marco Minniti spiega nell’intervista che pubblichiamo su queste pagine — rialza la testa su più fronti e vede Isis mettere a segno un atto eclatante contro Mosca per riconquistare il centro del palcoscenico del terrore. Anche perché se oggi è il Cremlino la grande potenza percepita come più influente dal Nord Africa all’Afghanistan è contro di lei che i jihadisti misurano il loro terrore.

Tutto ciò è un evidente campanello d’allarme per le democrazie occidentali: immaginare che Isis sia in declino è l’abbaglio più grande così come pensare di venire a qualsiasi tipo di patti con Stati, gruppi o individui portatori del terrorismo jihadista significa mettere a rischio la nostra sicurezza. Come osserva Dina Porat, accademica dell’ateneo di Tel Aviv, “l’errore più grave commesso da Israele prima del 7 ottobre è stato immaginare di poter convivere con Hamas lungo i propri confini”. Perché la Jihad resta la maggiore minaccia alla sicurezza collettiva dell’intera comunità internazionale, a cominciare dai Paesi arabi e musulmani che finora hanno pagato a questi terroristi il più alto prezzo di sangue. Saranno i prossimi giorni e settimane a dirci se Putin comprenderà che l’Occidente resta il suo migliore alleato contro i jihadisti — come, d’altra parte, conferma l’allarme che Washington gli ha dato a inizio mese sull’attentato Isis in arrivo — ma intanto la decisione del Cremlino di accusare l’Ucraina di complicità con i terroristi della Crocus City Hall va in tutt’altra direzione: sfruttare la strage per spingere la Russia a moltiplicare risorse e impegno nella guerra per sconfiggere Kiev. È una scelta tattica che conferma la volontà di Putin di vincere con le armi il conflitto ucraino ma non risolve la vulnerabilità russa al ritorno della Jihad.

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