Stati Uniti e governi occidentali non capiscono cosa significa questa guerra per Israele Articolo di Meir Ben Shabbat
Testata: israele.net Data: 20 marzo 2024 Pagina: 1 Autore: Meir Ben Shabbat Titolo: «Stati Uniti e governi occidentali non capiscono cosa significa questa guerra per Israele»
Riprendiamo dal sito www.israele.net - diretto da Marco Paganoni - un articolo di Meir Ben Shabbat tradotto da Israel HaYom del 17/03/24, dal titolo "Stati Uniti e governi occidentali non capiscono cosa significa questa guerra per Israele".
La posizione del presidente degli Stati Uniti Joe Biden a fianco di Israele all’inizio della guerra scatenata dalla carneficina del 7 ottobre sarà ricordata come uno dei momenti più alti della relazione speciale tra i due paesi. Ma quella posizione si è andata attenuando col passare del tempo, le immagini provenienti da Gaza, le controversie sul “giorno dopo” e le dinamiche della politica interna americana in vista delle elezioni presidenziali, rendendo i rapporti fra Gerusalemme e Washington più tesi e delicati. Sebbene Biden affermi di continuare a sostenere quelli che Israele ha indicato come gli obiettivi della guerra, i limiti che sta ponendo a Israele rendono il conseguimento di quegli obiettivi una missione quasi impossibile. I punti di attrito possono essere riassunti come segue.
Intervento militare a Rafah. La brigata di Hamas a Rafah, con i suoi quattro battaglioni, costituisce un quinto della forza militare dell’organizzazione terrorista. In aggiunta agli altri ruoli, essa è responsabile del tratto di confine che collega la striscia di Gaza al mondo esterno attraverso l’Egitto. E’ attraverso (e sotto) questo confine che vengono contrabbandati armamenti, attrezzature tecniche, agenti operativi e comandanti. Durante i combattimenti, terroristi provenienti da altre zone della striscia hanno trovato rifugio a Rafah. Qualcuno pensa davvero che le capacità militari di Hamas e il suo controllo sulla striscia di Gaza possano essere debellati senza un intervento a Rafah?
Riduzione delle vittime palestinesi. Biden si aspetta che i combattimenti continuino riducendo al contempo drasticamente il numero di vittime civili palestinesi, cita come attendibili i dati molto controversi del ministero della salute di Hamas e non sembra convinto delle prove che dimostrano un rapporto fra morti combattenti e non combattenti estremamente basso rispetto alle altre guerre moderne in ambiente urbano grazie allo sgombero preventivo dei civili dalle zone di guerra e alle rigorose misure adottate dalle Forze di Difesa israeliane, che secondo alcuni sono fin troppo rigorose. Spetta solo a Israele fare ancora di più per risparmiare i non combattenti? Non hanno pensato, a Washington, di premere sull’Egitto perché consenta un rifugio umanitario temporaneo nella parte egiziana di Rafah? In un momento in cui gli Stati Uniti, l’Unione Europea e altri paesi stanno fornendo aiuti per miliardi di dollari all’economia egiziana, anche questa opzione avrebbe potuto essere presa seriamente in considerazione.
Aumento degli aiuti umanitari. La richiesta di Biden di aumentare gli aiuti umanitari e le iniziative correlate (lanci aerei, molo marittimo) dimostrano che la sua amministrazione e gli altri governi occidentali non hanno ancora compreso che il problema non è fornire aiuti alla striscia, ma la loro distribuzione all’interno della striscia. Hamas cerca diprendere il controllo di tutto ciò che entra e di utilizzarlo per rifornire i suoi combattenti (prolungando la loro capacità di combattere) e rafforzare il suo predominio. Il modo per evitare che questo accada è fornire gli aiuti nelle aree dove Hamas non può accedere, cosa che potrebbe essere ottenuta, fra l’altro, creando un rifugio umanitario nella parte egiziana di Rafah.
Ruolo a Gaza di una “Autorità Palestinese migliorata”. Un altro punto di attrito è la posizione israeliana riguardo all’insediamento a Gaza di una “Autorità Palestinese migliorata”. L’amministrazione Biden non afferra la profonda diffidenza che gli israeliani nutrono nei confronti dell’Autorità Palestinese e dei suoi dirigenti, attuali e passati, riguardo alla possibilità di istituire nella cittadella del massimo terrorismo anti-israeliano un governo palestinese che non sia colluso con Hamas e la sua ideologia. Gli Stati Uniti tendono a minimizzare le dimensioni del sostegno pubblico di cui gode Hamas a Gaza e il fatto che Hamas è da quasi vent’anni radicata in tutte le sfere della vita di Gaza. Ne consegue da parte di Washington una valutazione troppo ottimistica circa la possibilità di imprimere un profondo cambiamento mediante schemi di governo sotto auspici arabi o internazionali, scollegati da Hamas. In Israele, per contro, è viva la consapevolezza che, finché a Gaza persisterà un nucleo forte, organizzato e ben armato dell’organizzazione terroristica, essa manterrà il controllo effettivo sulla striscia.
“Integrazione regionale” e “Stato palestinese”. Su tutte queste questioni incombe il disaccordo sulla visione americana che persegue un’integrazione regionale che includa accordi di pace tra Israele e Arabia Saudita e la creazione di uno stato palestinese. La guerra offre all’amministrazione Biden l’opportunità di realizzare un nuovo ordine regionale, e il presidente ne ha gran bisogno prima delle sue elezioni. Ma dal punto di vista di Israele, l’eventuale e auspicata normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita non potrebbe comunque sostituire la necessità di debellare Hamas. Circa lo “stato palestinese”, il fatto stesso di sollevare il tema dopo la carneficina del 7 ottobre costituisce una “vittoria” per Hamas (che non esiterà a vantarsene accrescendo il suo consenso fra i palestinesi), mentre al contempo manifesta una totale incomprensione dei sentimenti dell’opinione pubblica israeliana: chi pensa che dopo i fatti del 7 ottobre Israele sia disposto a correre rischi come, o addirittura maggiori, di quelli del passato vive sulla luna.
La radice delle divergenze. Alla radice, la disputa tra Washington e Gerusalemme riguarda il senso di questa guerra, che ha rigettato Israele nella consapevolezza che sta ancora combattendo per la propria esistenza. L’amministrazione Biden non ha assimilato il fatto che per Israele la sconfitta di Hamas è una questione di sopravvivenza. Non è come le guerre combattute dagli occidentali in Iraq e Afghanistan, a migliaia di chilometri di distanza. L’esercito terrorista di Hamas si trova letteralmente sulla porta di casa degli israeliani. Tutti gli attori della regione tengono d’occhio ciò che sta accadendo. Il loro atteggiamento e la loro condotta nei confronti di Israele saranno fortemente influenzati dagli esiti dei fatti in corso. La deterrenza di Israele, andata in pezzi il 7 ottobre, non sarà ripristinata se Israele non riuscirà a conseguire gli obiettivi che si è prefissato. Israele non può permettersi di fallire perché il suo fallimento lo porrebbe di fronte a una minaccia esistenziale, la tentazione di attaccarlo di nuovo aumenterebbe vertiginosamente e la sua posizione diplomatica risulterebbe gravemente paralizzata. Ecco perché lo spazio di manovra che Israele può permettersi è molto ristretto. Le pressioni occidentali aiutano Hamas: ritardare l’intervento a Rafah e aumentare gli aiuti umanitari dove spadroneggia Hamas significa permetterle di riaffermare il suo predominio. Queste pressioni spingono Israele verso una guerra di logoramento i cui costi, in tutti i sensi, sono più elevati e la cui durata è più difficile da controllare, e allontanano persino le speranze dell’America di promuovere un accordo per il rilascio degli ostaggi. Vale la pena ricordare ciò che disse il presidente Biden, nel discorso tenuto dopo il massacro del 7 ottobre: “Lo scopo dichiarato di Hamas è l’annientamento dello stato di Israele e l’assassinio del popolo ebraico. Israele ha il diritto di rispondere, anzi ha il dovere di rispondere a questi attacchi spietati”.
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