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Il Foglio Rassegna Stampa
16.07.2003 Una statistica illuminante
da una ricerca di K.Shikaki, preso di mira da un commando di attivisti palestinesi

Testata: Il Foglio
Data: 16 luglio 2003
Pagina: 2
Autore: Maurizio Stefanini
Titolo: «Un palestinese viola il tabù del diritto al ritorno (e la paga)»
L'altro giorno,nel riportare l'intervista a K.Shikaki sul Corriere della Sera, lo definivamo "coraggioso". Ecco che, puntualmente, il fanatismo islamico ci dà ragione. Shikaki rischia la vita per le sue idee.
Roma. Spintoni e uova in faccia al palestinese che dice come per i discendenti
dei profughi del 1948, in realtà, tornare nel territorio di Israele non sia proprio la principale delle preoccupazioni.
Sul dottor Kahil Shikaki, vittima della contestazione violenta di duecento scalmanati, vanno chiarite subito due cose. Prima: è lui stesso un palestinese vittima delle vicende che hanno accompagnato la creazione dello Stato ebraico, visto che è nato in un campo profughi di Gaza e che suo fratello Fathi fu ucciso nel 1995 dagli israeliani dopo essere stato un fondatore di Jihad Islami. Insomma, un falco dei falchi. Secondo: Shikaki non ha espresso un’opinione o un voto. Stimato politologo con laurea alla Columbia University, si era limitato a svolgere una ricerca per il suo Palestinian Centre for Policy and Survey Research, provando a chiedere direttamente ai discendenti dei 750 mila profughi del 1948 cosa effettivamente farebbero se avessero la possibilità teorica di tornare alle terre da cui alcuni di loro scapparono da giovani, ma di cui la maggior parte ha soltanto sentito parlare da genitori e nonni.
Si tratta di una massa di persone compresa tra i 3 e i 5 milioni, che neanche gli israeliani più "colombe" sono disposti ad accettare in blocco, pena la distruzione del carattere ebraico dello Stato. Senza contare il sovraffollamento di una terra dove già vivono 5,5 milioni di ebrei e 1,2 milioni di arabi. Ovviamente, i falchi palestinesi ribattono invece che non c’è problema, eccetto quello di buttare a mare quegli ebrei che non possano dimostrare di essere di famiglia già residente in Terra Santa da prima del 1948. Per chi invece vuole trattare, da Oslo in poi uno dei problemi maggiori resta lo stabilire che diritti possano avere i membri della diaspora palestinese. E poi quali indennizzi simbolici o concreti il governo israeliano sia eventualmente disposto a dare loro.

Solo il 10 per cento ne usufruirebbe davvero
Poiché, mentre ci si incaponisce sul rebus, gli attentati degli estremisti
palestinesi e le rappresaglie degli israeliani continuano, Shikaki ha allora provato a verificare se effettivamente per i rifugiati palestinesi il diritto al ritorno resti una condicio sine qua non irrinunciabile. E per questo ha mandato un dettagliato questionario a un campione di 4.500 persone, residenti a Gaza, West Bank, Libano e Giordania. Ed effettivamente il 95 per cento ha risposto di ritenere che Israele debba riconoscere il loro diritto di ritorno nella terra degli avi. Ma se questo diritto fosse poi loro concesso, ne usufruirebbero? Ben il 54 per cento ha risposto che accetterebbero volontieri di essere compensati con indennizzi monetari o con case nella West Bank o a Gaza. Un altro 17 per cento resterebbe in Libano o in Giordania, che ormai considerano i propri paesi, e un 2 per cento emigrerebbe in una terza nazione. Alla fine, solo il 10 per cento dice che tornerebbe nel territorio che oggi fa
parte di Israele. E questa cifra cala ulteriormente quando si chiede se farebbero lo stesso sapendo che le loro case non esistono più, e/o che dovrebbero diventare cittadini israeliani.
Insomma, non c’è niente di straordinario, ma solo il risultato che si otterrebbe facendo le stesse domande a qualsiasi altra diaspora a oltre mezzo secolo di distanza dai fatti. Compresa quella degli italiani di origine istriano-dalmata, che furono espulsi in un contesto drammatico ma che non si sono costituiti in "Martiri di Pola" o "di Capodistria". Ma quando Shikaki
ha provato a esporre i risultati di questa ricerca in una conferenza a Ramallah, domenica scorsa, è stato appunto assalito da un commando di attivisti, che hanno sfasciato i mobili del locale e hanno picchiato i membri del Centro. "Il nostro diritto al ritorno è sacro", hanno gridato. Che era appunto lo stesso che avevano detto gli interpellati nel sondaggio. Solo
che una cosa è un’affermazione di principio, un’altra la sua traduzione concreta.
Senza sponsorizzare ufficialmente la spedizione squadrista, la stessa Olp aveva
criticato il questionario, dicendo che le domande erano state poste in modo capzioso. Ma in realtà i quesiti sono gli stessi considerati dai negoziatori israeliani e palestinesi nel gennaio 2001, quando si iniziò a discutere di quali opzioni concrete si potessero offrire ai rifugiati. Yasser Arafat aveva poi finito per rifiutarle. Ma, finora, senza che nessuno avesse mai provato
a chiedere ai rifugiati cosa effettivamente ne pensassero.
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