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Avvenire Rassegna Stampa
13.07.2003 Un tiro a segno che non esiste
falsità e tono lacrimevole contro Israele

Testata: Avvenire
Data: 13 luglio 2003
Pagina: 12
Autore: Antonio Gregolin
Titolo: «All'ombra della Road Map ebrei e arabi combattono ancora la guerra degli ulivi»
Su Avvenire, pubblicato sotto ad un articolo di Graziano Motta "Pronta l'espulsione di Arafat", corretto come sempre, abbiamo letto un artcolo di Antonio Gregolin su una presunta guerra degli ulivi. lo riproduciamo integralmente per permettere ai nostri lettori di rendersi conto come si scrive un articolo pieno di falsità e quindi propaganda.
Una sola osservazione. se fosse veroquello che dice l'anziano contadino palestinese, e cioè che gli israeliani fanno il tiro a segno per uccidere i poveri contadini palestinesi, ci chiediamo come mai una notizia del genere non sia da anni sulle prime pagine di tutti i giornale. E in tutti i notiziari televisivi. Invece di quel tiro a segno è la prima volte che ne veniamo a conoscenza. Peccato aver letto una falsità come "ci sparano dalle alture degli insediamenti israeliani mentre noi raccogliamo le olive".
Anche per quanto riguarda lo sradicamento degli ulivi, Gregolin non la racconta giusta. Gli unici casi in cui viene effettuato è quando le piante possono nascondere gruppi di cecchini armati, che sparano contro un vicino posto di blocco. Che è cosa ben diversa.
Ecco l'articolo.

Questione di terra, anzi di ulivi. Come nell'antichità, la guerra delle olive continua oggi nei presunti confini tra Israele e Palestina; laddove gli ulivi restano una delle poche fonti di reddito che permette di sopravvivere alla gente dei villaggi palestinesi. Un fronte vecchio di decenni di cui oggi non si fa menzione, nemmeno nella Road map.
Una guerra di simboli, dai riflessi psicologici come accade spesso in Israele, in cui gli storici avversari sono contadini arabi e coloni ebrei. Gente della terra che combatte una quotidiana battaglia per difendere quel bene millenario incarnato dagli alberi d'ulivo. "Sulla nostra terra crescono da sempre -confida un vecchio contadino arabo di un villaggio non lontano da Jenin- fanno parte della cultura, della nostra vita e anche morte. Non a caso diciamo di augurarci di morire in piedi come un albero o di vivere a lungo tanto quanto un ulivo".
L'economia palestinese o il poco che rimane di essa dopo l'occupazione israeliana iniziata tre anni fa, ha chiuso ogni scambio o esportazione da e per la Palestina. La semplicità della vita nelle campagne, qui è anchora basata sul rapporto uomo-terra e in particolare per gli agricoltori arabi nel sacrale rispetto che essi hanno per i loro uliveti.
Se da un lato il miracolo israeliano di far fiorire il deserto è riuscito, con il mutamento dello stesso profilo geografico del territorio, anche l'agricoltura israeliana di questi anni risente di una forte crisi d'identità. A tal punto che, molti insediamenti stanno facendo i conti con una crisi economica mai vista dal '67 ad oggi. Diversamente, sul versante opposto, il confine geo-politico palestinese di cui si discute sulla carta, è concretamente marcato dalle barriere di piante e boschi voluti dagli israeliani dal 1948. Dall'altro si osserva l'arido terreno coltivato a terrazze palestinese, dove crescono unicamente gli ulivi.
"Questione di tecnologia, ma soprattutto di cultura", dicono gli israeliani. "E' la nostra vita.." rispondono i palestinesi. Le rispettive accuse fanno capo ai recenti fatti di cronata: "Ci sparano dalle alture degli insediamenti israeliani mentre noi raccogliamo le olive -spiega un proprietario palestinee che qui ha diversi ettari d'ulivi- è pericolo dunque, venire a lavorare come abbiamo sempre fatto".
"Gli abbiamo dato tecnologia, conoscenza e sistemi d'irrigazione come mai avevano sognato -risponde Zelava Vider, una colona di 48 anni di cui 25 trascorsi nel moshav Beqaot- con la differenza che noi trasformiamo il deserto, mentre dopo secoli sono ancora là con le stesse colture. Gli stessi alberi...". Secolari alberi che non a caso, in questi anni sono al centro di una strategia militare ed economica da parte israeliana: "Arrivano improvvisamente con i bulldozer scortati dai carri armati. Sradicano gli alberi e li caricano sui camion per trasportarli chissà dove di là del confine; spogliando completamente ampie zone delle nostre campagne", ribattono i contadini palestinesi.
Un "sequestro naturale" dal valore economico, paesaggistico e culturale. I segni dello scempio sono visibili anche lungo le strade principali che tagliano la Palestina: "In quelle buche c'erano i miei ulivi. In due giorni i militari israeliani hanno sradicato più della metà dei miei alberi, per portarli chissà diove! Ci portano via il bene più prezioso che abbiamo, senza che noi possiamo muovere un dito", accusa adirato un anziano contadino. Un dramma silenzioso che si consuma davanti alla forza dei mezzi meccanici, che sradicano in pochi minuti quello che per millenni la natura e l'uomo qui hanno conservato. Così la storia finisce con l'esere "sradicata" con i suoi stessi simboli verdi.
La guerra degli ulivi continua, senza tregua e senza che qualcuno sembri dargli importanza. Qui, tra le campagne della Palestina, le voci importanti dei trattati internazionali arrivano come portate dal vento.
I ritmi sono gli stessi della storia di sempre: "Con l'eccezione che oggi qui, si può morire anche per un albero", Non certo un albero qualsiasi: ma l'Albero della Vita.
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