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La Stampa Rassegna Stampa
13.07.2003 Chi vuole la pace e chi no
fra i capi palestinesi

Testata: La Stampa
Data: 13 luglio 2003
Pagina: 10
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Abu Mazen e Barghouti nella "guerra" di Arafat»
Come sempre, per capire quel che succede, niente di meglio che leggere Fiamma Nirenstein sulla Stampa.
GERUSALEMME
Veleni, intrighi, insulti e anche qualche pallottola che comincia a volare. Sullo sfondo della tregua, la famosa hudna che dovrebbe inaugurare l’era della pace fra israeliani e palestinesi, si svolge una guerra di quelle che disegnano nei secoli i passaggi di potere. Arafat è pur sempre il grande presidente del popolo palestinese, il suo simbolo, ma ha le mani legate e comincia ad accorgersene. Quando gli americani espressero, sostenuti dal Quartetto, la loro determinazione a sostenere la road map e quindi a vedere Abu Mazen alla testa di un nuovo Stato paelstinese riformato, Arafat accettò di condividere il potere solo quando fu schiacciato dalla richiesta degli Usa appoggiati da Europa e Russia, ma pensò di potere come al solito giocare alle tre carte, e usare Abu Mazen come uno schermo che non appannasse sul serio la sua forza. Ma la road map è diventata l’ultima spiaggia per tutto il mondo: Arafat adesso non gioca alle tre carte, ma è divenuto lui stesso una di esse. Le altre due sono Abu Mazen e Marwan Barghouti, il capo dei tanzim in cella da un anno.
Il desiderio di Arafat di liberarsi o almeno di neutralizzare Abu Mazen ha preso molte strade oltre a quella degli insulti («Traditore della causa palestinese», il Raíss ha definito il suo primo ministro parlando con Terje Larsen, e lo ha lasciato insultare a piacimento dai suoi ministri, tanto da portarlo a porgere le dimissioni): le tre più importanti sono quella della divisione dei poteri, così da sottrarre uomini armati ad Abu Mazen; l’uso dei media; il continuo appello al consesso internazionale, specie all’Europa, perché gli restituisca il suo rango. Nei giorni scorsi, in pratica, Arafat ha riesumato al potere armato in Cisgiordania Jibril Rajub, un uomo forte, ex capo della polizia palestinese per i Territori e quindi di fatto contrapposto a Mohammed Dahlan, il ministro degli Interni e capo storico delle forze armate di Gaza. Arafat lo aveva scalzato proprio perché aveva raggiunto un pericoloso concentrato di potere e di prestigio presso gli uomini armati, e ora lo ripristina, anche se Rajub è uomo la cui nota autonomia potrebbe portarlo in futuro anche a cambiare campo.
In secondo luogo Arafat, che ha sempre avuto in enorme stima l’uso della tv e dei mezzi di comunicazione di massa, non allenta la sua presa su tutte le fonti di comunicazione. Anche se non gli è attribuibile direttamente, certo non è di poco rilievo che «Al Ayyam», il giornale dell’Autonomia, pubblichi, in giorni in cui si cerca la conciliazione e non lo scontro frontale, un invito ai profughi del ‘48 di Ashkelon (Majdal) a preparare le carte in loro possesso per esigere il diritto al ritorno: e come è noto, questo è il vero punto di inconciliabilità fra le parti. Infine, Arafat passa ormai ore al telefono con l’estero, sa che sono là, nella discesa verticale del riconoscimento internazionale che non vede più in lui un partner per la pace, la sua debolezza e l’ascesa di Abu Mazen.
Ed è così che Ariel Sharon, in partenza per Londra dove incontrerà Tony Blair per la prima volta da quando è stata pubblicizzata la road map, ha dato un’intervista al «Daily Telegraph» in cui ha denunciato il fatto che «Arafat riceve una quantità di telefonate da ministri degli Esteri e altri notabili soprattutto europei... e ogni atto di questa natura posticipa il progresso del processo di pace... e mina Abu Mazen». Sharon è così deciso a drammatizare la situazione e a indicare al mondo che Arafat può distruggere Abu Mazen, da spiegare che «Arafat controlla la maggior parte delle forze armate e parte dei finanziamenti... e se Arafat dovesse bloccare gli sforzi di Abu Mazen per realizzare la road map, noi riconsidereremmo la sua collocazione geografica e il status». Altrettanto drammatica è stata l’uscita di ieri di Mohammed Dahlan, che ha chiamato al rinnovamento del corpo dirigente del Fatah, sempre lo stesso da dieci anni: è da là che Arafat lancia i suoi attacchi furenti ad Abu Mazen e Dahlan, cui qualcuno ha cercato venerdì di tendere un agguato mentre tornava nottetempo dalla riunione con il capo di Stato maggiore israeliano Boogy Yaalon, ha risposto impugnandone la legittimità.
Ma nel carcere di Ajalon, a Ramle, c’è un prigioniero di massima sicurezza che è non meno pericoloso per Arafat, anche se è uno dei suoi più fedeli ammiratori (del resto anche Abu Mazen ne era sempre stato un’appendice). E’ Marwan Barghouti, il fondatore dei Tanzim, l’organizzazione di base del Fatah, cinquantenne, incorrotto, ottimo conoscitore della società israeliana e secondo la polizia israeliana anche uno dei più micidiali capi teroristi di questa Intifada, tramite le Brigate di Al Aqsa, da lui gestite. Perché Barghouti può diventare un serio concorrente per Arafat e, in prospettiva, anche per Abu Mazen? Perché dal carcere in cui attende il giudizio, accusato di avere mandato a uccidere decine di israeliani, ha gestito una gran parte della decisione di accettare un cessate il fuoco ed è oggi il capo riconosiuto di parte della enorme falange (6000 uomini) di prigionieri che sono il primo pomo della discordia fra Israele e palestinesi.
Barghouti da dentro il carcere li controlla anche se, dopo che gli è stato scoperto un telefonino portatile, è in cella di isolamento. Ma da questo isolamento Barghouti ha fatto un gran lavoro: quel «sì» alla tregua che Abu Mazen non poteva ottenere da Hamas e dalla Jihad Islamica, Barghouti l’ha ottenuto, grazie alla fama e all’ammirazione da parte di tutto il mondo palestinese conquistategli dal suo passato rivoluzionario e dal suo presente di carcerato (è visto come un Nelson Mandela palestinese, e come lui rifiuta la legalità del processo). L’operazione tregua è stata compiuta a Damasco, dove tramite i suoi avvocati Barghouti è riuscito a fare circolare documenti e missive di suo pugno, in cui invitava alla calma con toni ben accetti specie a Khaled Mashal, il capo di Hamas all’estero. Israele sa che Barghouti vuole la pace (almeno per ora) e che è forte: ma uno Stato di diritto difficilmente può mandare fuori del carcere un terrorista. Abu Mazen e Arafat comunque ne chiedono ambedue la liberazione: non potrebbero fare altrimenti.




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