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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
11.07.2003 Così la pensa Arik Sharon
nell'intervista sul Corriere

Testata: Corriere della Sera
Data: 11 luglio 2003
Pagina: 1
Autore: Antonio Ferrari
Titolo: «Voglio aiutare Abu Mazen e passare alla storia»
Un'intervista che espone il pensiero del capo del governo israeliano.
GERUSALEMME - «Sì. Io, Ariel Sharon, voglio aiutare il primo ministro Abu Mazen».
Che oggi è sotto il tiro incrociato degli estremisti palestinesi e dei suoi nemici all'interno del Fatah.
«Lo so. Voglio aiutarlo perché è un uomo che crede che l'unica soluzione per giungere alla pace non è la violenza, non è il terrorismo. E' quella del negoziato».
C'è chi dice, però, che Abu Mazen sia debole.
«Per me conta ciò che fa, non se qualcuno dice che è debole o forte».
E' molto deciso e convinto, il premier israeliano. I risultati, per ora modesti ma tangibili, della tregua di tre mesi proclamata da Hamas, dalla Jihad islamica e dalle Brigate Al Aqsa lo hanno quasi ringiovanito. Invece di insistere con proclami bellicosi, come accadeva in passato, continua a ripetere che «questa è un'opportunità storica per costruire davvero la pace». Sembra abbia tolto la divisa e indossato anche nell'anima il rassicurante abito scuro del politico esperto che vuol diventare lungimirante, che vuol «passare alla storia». E' con questo spirito che, ieri pomeriggio, Sharon ci ha ricevuto nel suo ufficio, dopo una rapida colazione a base di Big Mac, per l'intervista esclusiva al Corriere della Sera .
Signor primo ministro, crede davvero a questa tregua o ha dei dubbi?
«Voglio dire subito che la tregua è stata proclamata dai palestinesi, e non da noi. Certo, stiamo osservandone gli sviluppi e notiamo che c'è stata una diminuzione di episodi di violenza. Ma noi sappiamo che cosa hudna (tregua) significhi, per un arabo: un temporaneo cessate il fuoco per rafforzarsi e poi tornare a colpire. Quel che temiamo, infatti, è che la "pausa" possa consentire agli estremisti, che magari si sentono stanchi o più deboli, di ricostruire le loro infrastrutture. Noi ci aspettiamo che l'Autorità palestinese smantelli le organizzazioni terroristiche, arresti i responsabili, li punisca, sequestri le armi, le consegni a un Paese terzo che provvederà a distruggerle. E' quanto hanno chiesto gli Usa, e chiediamo anche noi. Non bastano le promesse e le dichiarazioni. Servono i fatti, le prove. Il tempo delle parole è finito».
Ammettiamo che la tregua non regga, e vi sia un grave attentato terroristico. Che cosa farà, signor Sharon?
«Quel che chiediamo è un impegno al 100%, e senza sconti, a prevenire e a smantellare i gruppi violenti. Chiediamo la fine dell'incitamento all'odio, che cambi l'educazione dei giovani. La reazione, dunque, viaggerà parallelamente all'impegno che verrà dimostrato. Io comprendo le difficoltà di Abu Mazen...»
Appunto. Come valuta la lotta di potere che si sta combattendo all'interno del Fatah, tra gli uomini di Arafat e i riformisti del premier Abu Mazen?
«E' chiaro a tutti che è Arafat a non volere che Abu Mazen abbia successo. Arafat è il primo responsabile delle sofferenze del suo popolo. La sua ideologia è quella del terrore. E allora si deve fare in modo che ad Arafat venga tolto definitivamente il controllo di due campi fondamentali: le finanze e la sicurezza. Per quanto riguarda le finanze, sono stati compiuti passi importanti e coraggiosi, non altrettanto sulla sicurezza. Personalmente credo che Abu Mazen abbia molto bisogno di aiuto esterno, soprattutto europeo. L'Ue deve capire che soltanto negando i fondi ad Arafat, e sostenendo Abu Mazen, si potranno ottenere dei risultati. L'Italia, con la quale abbiamo un eccellente rapporto, lo ha compreso. Il presidente Berlusconi, quando è venuto in Israele, non ha incontrato Arafat. Altri Paesi si comportano diversamente: mandano leader politici, gli inviano messaggeri e messaggi. E' un grave errore. Vorrei dire ai Paesi europei di seguire l'esempio italiano».
Quali Paesi?
«Molti, quasi tutti».
Ma lei, nove mesi fa, mi aveva detto che è disposto ad accettare che Arafat resti come simbolo.
«Glielo ripeto. Simbolo non so di che cosa, ma come tale lo accetto. L'importante è che gli venga tolto il controllo delle finanze e della sicurezza».
Il suo governo è pronto a liberare 350 prigionieri su un totale di sette-ottomila...
«La interrompo: sono seimila».
Va bene seimila, ma la Jihad islamica minaccia di rompere la tregua se non li libererete tutti. E lo sceicco Ahmed Yassin dice che la loro pazienza ha un limite.
«Lo so, lo so cosa dice Yassin. Per ora abbiamo liberato 280 prigionieri. Altri ne libereremo. Ma non gli assassini, non coloro che hanno le mani sporche di sangue. Lo sa che in 3 anni abbiamo avuto 815 morti e 5600 feriti?»
Certo che lo so, ma anche i palestinesi ne hanno avuti tanti. Molti di più.
«Non l'ho mai negato. Ma la differenza è che i terroristi palestinesi colpiscono soprattutto i civili. Pensi che, considerando i caduti di Israele, e fatte le debite proporzioni demografiche, è come se nell'Ue ci fossero stati 62.000 morti e 420.000 feriti, negli Usa 45.000 morti e 312.000 feriti, nella sola Italia 9.400 morti e 65.000 feriti. Un recente sondaggio rileva che l'82% della popolazione israeliana è contraria alle scarcerazioni. Eppure, noi procediamo, ma non possiamo liberare gli assassini».
Quanti sono questi ultimi?
«Sono tanti, mi creda. Però procederemo a scarcerare quanti più reclusi possibile, ben sapendo che non è una condizione prevista dalla road map . Lo facciamo per questioni umanitarie, e per dare una mano ad Abu Mazen».
Parliamo degli impegni che Israele ha assunto ad Aqaba, davanti a Bush. Quando comincerete davvero a smantellare gli insediamenti, o meglio gli «avamposti non autorizzati», come lei li definisce?
«Ne abbiamo smantellato uno anche oggi (ieri, ndr ). Gli impegni assunti saranno rispettati al 100%. Vede, prima delle ultime elezioni, ho detto chiaramente che ero deciso a fare "concessioni dolorose" per giungere alla pace. So che molti non sono d'accordo, nel mio partito ho avuto una forte opposizione. Però se oggi mi chiedono che cosa sto facendo, rispondo: "Signori, ve l'avevo detto". Piuttosto vorrei che tutti, a cominciare dai palestinesi, capissero che questa è davvero un'opportunità. Che solo io posso fare "concessioni dolorose". Quando uno viene a parlare o a negoziare con me, sa bene che sì vuol dire sì e no vuol dire no».
Che cosa succederà nel 2005, data prevista dalla road map per la nascita dello Stato palestinese? E' una data sacra, o a suo avviso non è vincolante? E' sempre dell'idea che ci vorranno vent'anni per avere uno Stato palestinese con frontiere definite?
«Non è un problema di venti, dieci o cinque anni, ma di impegni rispettati. Io sono convinto che le due parti debbano rispettare al 100% la road map , che prevede alcune tappe prima del 2005. Ora, soltanto se la prima tappa viene realizzata al 100% si passa alla seconda, e così via. L'ho detto con chiarezza al presidente George W.Bush, che ho già incontrato otto volte».
La guerra in Iraq è finita, ma la situazione sul terreno è molto grave. Non pensa che l'Iraq possa diventare un Paese dall'instabilità cronica? Non pensa che gli Usa abbiano commesso qualche errore? Crede ancora che vi siano armi di distruzione di massa?
«C'erano, questo è sicuro, e poi l'Iraq è abbastanza grande per poterle nascondere. Io ritengo che quanto ha fatto il presidente Bush sia giusto e coraggioso. Gli Usa hanno liberato il Paese da un regime oppressivo e terroristico».
Ora si parla dell’Iran. Crede davvero che sia diventato il primo pericolo per Israele?
«Sì, lo credo».
Parliamo della Siria. Visto che il presidente Bashar el Assad continua a dire che vuole riprendere il negoziato con Israele, che cosa è disposto a offrire in cambio di un accordo di pace? Tutto il Golan, come chiede Damasco?
«Ho sempre detto che siamo pronti a negoziare, senza precondizioni. Certo, la Siria è un Paese pericoloso, perché continua a sostenere gruppi terroristici, come l'Hezbollah».
Ho saputo che sta per partire per la Norvegia. Vuole forse respirare l'aria degli accordi di Oslo di 10 anni fa, che furono sottoscritti dal premier Rabin e da Arafat?
«No, vado in Europa per ottenerne in sostegno, per chiedere un atteggiamento più bilanciato sul Medio Oriente. Perché si segua l'esempio italiano e si aiuti davvero la pace».
Non è che lei vorrebbe finire nei libri di storia come il leader di Israele che ha fatto la pace con i palestinesi?
«Sì, lo vorrei. Ma vorrei aggiungere due parole: che pace vuol dire sicurezza per Israele. Le ricordo che sono un generale, un militare che sa che cosa vuol dire guerra. Io la pace la voglio davvero».
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