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Il Foglio Rassegna Stampa
11.07.2003 Quando la terra diventa luogo di affetti e memorie
ma anche di rinunce

Testata: Il Foglio
Data: 11 luglio 2003
Pagina: 1
Autore: Emanuele Ottolenghi
Titolo: «Il doppio sogno di israeliani e palestinesi da sacrificare per la pace»
Riportiamo l'articolo di Emanuele Ottolenghi pubblicato su Il Foglio venerdì 11 luglio 2003.
Da quando Ariel Sharon è diventato primo ministro gli osservatori meno faziosi
e più acuti si interrogano sulle sue vere intenzioni. L’uomo ha un curriculum da guerriero, non da paciere. E’ famoso per la sua mancanza di disciplina, che lo rese leggendario negli anni Cinquanta nelle operazioni di rappresaglia contro i Fedayn sobillati da Gamal Nasser. Disobbedì agli ordini nella fase d’apertura della campagna di Suez, così come decise di testa sua nelle ultime fasi della guerra del 1973, aprendosi la strada per il Cairo.
Tanto disobbediente quanto leggendario in uniforme, Ariel Sharon ha collezionato anche una serie di dubbi crediti da politico. A lui che era ministro della Difesa si deve l’impresa della guerra in Libano nel 1982, impresa che quasi gli costò la carriera politica. Da generale pluridecorato ed
eroe (un po’ riottoso ma pur sempre eroe) di guerra e astro ascendente della destra, Sharon si dovette dimettere, si trovò improvvisamente ineleggibile ad alte cariche ed estromesso per legge da qualsiasi posizione che concernesse questioni di sicurezza e difesa.

Il momento gollista di Arik
L’eredità Sharon non è solo quella del Libano. Nonostante i primi insediamenti
israeliani nei territori occupati nella guerra del 1967 fossero stati creati sotto tre successivi governi laburisti, l’esplosione del fenomeno cominciò dopo il 1977, sotto i governi del Likud. Sharon fu l’ideatore di molti insediamenti e il loro principale sponsor, un alleato di ferro del movimento
e un fervente fautore dell’impresa quale strumento di difesa degli interessi strategici israeliani. Lo scetticismo di molti deriva da questo curriculum.
L’uomo forse più controverso della storia politica israeliana è per questo risultato indigesto a molti, anche a destra, ed era considerato ineleggibile fino a tre anni fa. La sua leadership del Likud, arrivata nel 1999 dopo la débâcle elettorale che portò il partito ai minimi storici, aveva una funzione provvisoria: doveva ricostruire e ricompattare il partito, rimetterne a posto le finanze in dissesto e ricucire gli strappi prodotti dall’era Netanyahu per
poi passare le consegne a un giovane ed eleggibile erede. Invece, l’improvviso
scoppio dell’Intifada e le inaspettate dimissioni di Ehud Barak nel dicembre del 2000 resero Sharon l’inevitabile candidato del Likud alla carica di primo ministro. Il 40 per cento degli elettori se ne stette direttamente a casa, deluso da Barak ma incapace di votare Sharon.
Da allora tutti si interrogano: Sharon avrà o no il suo momento gollista? Chi crede (o spera) di sì ricorda che quando era ministro della Difesa fu lui a ordinare l’evacuazione a forza dell’ultimo insediamento israeliano nel Sinai per far fede all’accordo di pace con l’Egitto. Sharon non esitò a mandare l’esercito e ordinare ai bulldozer di livellare la cittadina di 5 mila
abitanti. Ma Sharon in questi due anni, pur rilasciando dichiarazioni concilianti e dicendosi disposto a "dolorose concessioni" per la pace, che tutti ben comprendono includono gli insediamenti, non ha rivelato nulla nel dettaglio di quanto sia disposto a fare. A settantacinque anni, potrebbe voler
fare la storia, prima di diventarla, lasciando un’eredità positiva che lo assolva dalle zone d’ombra del passato.
La road map potrebbe essere il momento della verità, anche se a ben guardare
sembra che i palestinesi siano determinati anche questa volta a perdere l’ennesima occasione offerta loro dalla storia in "zona Cesarini".
L’opinione pubblica israeliana sembra credere che Sharon sia non soltanto l’unico in grado di smantellare il progetto da lui creato venticinque anni fa, ma che sia anche determinato a farlo se quel gesto costituisse il prezzo da pagare per una pace vera. Pochi credono che i palestinesi siano genuinamente
pronti a riconoscere Israele e a rinunciare al terrorismo, ma la maggioranza israeliana che ha eletto Sharon a gennaio (senza più le remore di due anni prima) è convinta sia della necessità di portar termine all’occupazione
(termine usato di recente anche da Sharon) sia della sua volontà di farlo. Tale
evento sarebbe rivoluzionario non soltanto per Sharon, ma per l’intera nazione.
Quello che infatti pochi capiscono al di fuori di Israele è il significato dell’espressione "dolorose concessioni". L’opinione pubblica internazionale non soltanto rifiuta di riconoscere ogni legittimità alla rivendicazione
israeliana sui territori ma nega persino il legame sentimentale ed emotivo
provato per quelle terre dagli ebrei. Né comprende il costo umano e socioeconomico di dover trasferire 200 mila israeliani che oggi nei territori vivono. La stampa internazionale parla di coloni, non rendendosi conto che dei più di centocinquanta insediamenti creati in 36 anni molti sono in realtà villaggi, paesi e città. In essi risiedono persone da ormai due generazioni, e
molti dei "coloni" vi sono nati e cresciuti. Per loro quei luoghi rappresentano non soltanto la realizzazione di un sogno e di una ideologia, ma anche, semplicemente e quotidianamente, la loro casa. Casa con gli affetti
domestici e l’attaccamento a un luogo che soltanto chi ci è nato e cresciuto può capire. Il costo umano e socio-economico di trasferire centinaia di migliaia di persone dalle loro case, dicendo loro che a casa per il bene del paese non potranno più tornare, sarà devastante e anche se Israele lo saprà
pagare sarà un prezzo altissimo. Ma c’è un altro elemento che l’opinione pubblica internazionale volutamente ignora.

Il cuore della terra biblica
La Cisgiordania rappresenta il cuore della biblica terra di Israele. In essa vi è una delle quattro città sante dell’ebraismo, Hebron, da cui l’antichissima comunità ebraica fu espulsa nel 1929 dopo un massacro di vecchi, donne e bambini perpetrato dai palestinesi. Quei luoghi sono i luoghi biblici che ispirarono generazioni di ebrei, oltre che di cristiani, e che costituiscono un forte richiamo emotivo per ogni credente. Fino al ’48, essi costituivano un tutt’uno con quel territorio che diventò poi lo Stato d’Israele
e la separazione che avvenne fu tanto casuale quanto artificiale. Presumere
che i sentimenti che legano palestinesi e israeliani a tutta quella terra siano stati messi a tacere da una linea verde di cessate il fuoco tracciata nel ’49 significa non comprendere il conflitto che li divide. La guerra tra i due popoli infatti non è, come molti la presentano, una lotta tra un movimento
coloniale e degli indigeni vittimizzati dall’oppressione, ma uno scontro tra due movimenti di liberazione nazionale che hanno storicamente rivendicato in maniera esclusiva il medesimo fazzoletto di terra.
Israele oggi riconosce la necessità di ritirarsi da quella che considera il cuore, il centro, il simbolo della sua identità storica, nazionale e religiosa. Abbandonare quei luoghi rappresenta un dolore, un atto lacerante
anche per coloro che comprendono per realismo la necessità del compromesso.
Dal 1937, anno della prima proposta di spartizione, il sionismo ha preferito il realismo ai sentimenti. Ma il legame emotivo non è mai morto. Il movimento nazionale palestinese soffre dello stesso attaccamento emotivo: è comprensibile che i palestinesi sognino di tornare a quei luoghi che essi rivendicano come loro. Per questo la rinuncia che il compromesso territoriale
impone a entrambi non potrà reggere alle sfide del futuro se prima non sarà accompagnata dal riconoscimento reciproco del dolore del distacco dalla terra che entrambi i popoli rivendicano come loro. Gli israeliani ben comprendono la difficoltà di un palestinese di rinunciare a Haifa, Jaffa e Safed, anche se esigono giustamente quella rinuncia in cambio della pace. Chiedere ai palestinesi di rinunciare alla rivendicazione è legittimo, oltre che imperativo se si vuole che vi sia la pace. Aspettarsi che alla rinuncia della rivendicazione si accompagni la rinuncia del sogno che l’ha alimentata significa ignorare le ragioni che hanno tenuto il conflitto in vita per così a lungo. In quanto ai palestinesi, e alla comunità internazionale che li sostiene, insieme alla rivendicazione di uno Stato sulla Cisgiordania, che comporta necessariamente il ritiro israeliano e lo smantellamento degli insediamenti, essi dovranno fare un gesto simile di riconoscimento delle legittime aspirazioni israeliane, accettando il legame emotivo che gli ebrei provano per Hebron, Nablus e Betlemme, dove sono sepolti profeti e patriarchi,
e comprendendo la difficoltà che gli ebrei provano e continueranno a provare
per elaborare il lutto che tale rinuncia comporta. Riconoscere il dolore di
questa concessione non significa rinunciare alla propria rivendicazione, ma significa riconoscere la legittimità dell’altro, apprezzare il costo del compromesso inevitabile, e nel rispetto che emerge da tale riconoscimento, gettare le basi di una convivenza pacifica futura.
Se i palestinesi non riusciranno ancora una volta a far fallire l’ultima tenue speranza di pace silurando la road map, Israele dovrà presto fare la sua parte e affrontare il lutto che la separazione dai luoghi dove nacquero l’ebraismo e il suo sogno plurimillenario comporta. I palestinesi dovranno
allora riconoscere quel dolore e fare una simile rinuncia. Altrimenti, tutto
sarà stato invano.
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