Un plauso al Foglio tre articoli di grande interesse
Testata: Il Foglio Data: 05 luglio 2003 Pagina: 2 Autore: Nirenstein-Ottolenghi-Panella Titolo: «Il divorzio tra sinistra e diritti»
Il primo articolo pubblicato su Il Foglio è di Fiamma Nirenstein, dal titolo "Ecco come e perchè ho perso l'innocenza dell'ebrea perbene" Nel 1967 ero una giovane comunista, come la maggior parte dei ragazzi italiani. Stufa del mio comportamento ribelle, la mia famiglia mi mandò in un Kibbutz dell’alta Galilea, Neot Mordechai. […] Quando scoppiò la guerra dei Sei giorni, Moshe Dayan parlò alla radio per darne l’annuncio. Chiesi ai miei camerati di Neot Mordechai che cosa volessero dire le sue parole. Mi risposero: "Shtuiot", sciocchezze. Durante la guerra portavo i bambini nei rifugi, scavavo trincee e mi addestravo in alcune semplici operazioni di autodifesa. Continuavamo a lavorare nell’orto, ma eravamo svelti a identificare i "mig" e i "mirage" che si inseguivano nel cielo sopra le alture del Golan. Quando tornai in Italia, i miei compagni di scuola non mi accolsero bene: alcuni mi guardarono come se non fossi più la stessa di prima, ma un nemico, una persona malvagia che presto sarebbe diventata un’imperialista. Stava per avvenire un grande cambiamento nella mia vita: allora non lo sapevo ancora, perché pensavo semplicemente che Israele avesse giustamente vinto una guerra dopo essere stato assalito e aver subito un numero incredibile di provocazioni e maltrattamenti. Ma presto mi accorsi che avevo perso l’innocenza dell’ebreo buono, di quell’ebreo speciale fatto secondo i loro desideri. Ora, in quanto ebrea, ero messa insieme con gli ebrei dello Stato di Israele, e lentamente, ma inesorabilmente, venivo esclusa da tutta quella nobile schiera di personaggi come Bob Dylan, Woody Allen, Singer, Roth, Shtetl e Freud che santificava il mio giudaismo agli occhi della sinistra. Ho cercato per molto tempo di riconquistare quella santificazione, e la sinistra ha cercato di ridarmela, perché gli ebrei e la sinistra hanno disperatamente bisogno gli uni dell’altra. Ma ora, dopo che l’odierno antisemitismo ha calpestato qualsiasi buona intenzione, le cose si sono fatte chiare. In tutti questi anni, anche persone che, come me, hanno firmato petizioni per il ritiro dell’esercito israeliano dal Libano, sono diventate dei "fascisti inconsapevoli", come mi ha scritto un lettore in una lettera piena di insulti. […] La ragione di questi e di molti altri insulti e critiche mi è stata spiegata da uno scrittore israeliano molto famoso. Un paio di mesi fa, mentre stavamo parlando al telefono, mi ha detto: "Sei davvero diventata una persona di destra". Cosa? Di destra? Io? Una vecchia femminista, attivista dei diritti umani, addirittura comunista in gioventù? Soltanto perché ho raccontato il conflitto arabo-israeliano nel modo più accurato che potevo, e perché talvolta mi sono identificata con i problemi di un paese continuamente attaccato dal terrorismo? E’ un fatto davvero interessante. Perché nel mondo contemporaneo, il mondo dei diritti umani, se una persona viene definita di destra, è il primo passo verso la sua delegittimazione. Se sei un ebreo nato dopo l’olocausto impari subito un messaggio molto chiaro: il male, per gli ebrei, è sempre giunto dalla destra. […] Allo stesso tempo, la sinistra ha concesso la propria benedizione agli ebrei legittimandoli come la vittima "par excellence", un alleato sempre fidato nella lotta per i diritti dei deboli contro i più forti. Come ricompensa per il sostegno offertogli, possibilità di pubblicare libri e girare film, nonché per la reputazione di artisti, intellettuali e giudici morali che gli veniva riconosciuta, gli ebrei, persino durante le persecuzioni antisemite dell’Unione Sovietica, hanno dato alla sinistra il proprio appoggio morale, invitandola a unirsi a loro nel pianto davanti ai monumenti dell’Olocausto.
Oggi il gioco è chiaramente terminato. La sinistra si è dimostrata la vera culla dell’attuale antisemitismo. Quando parlo di antisemitismo, non mi riferisco alle legittime critiche rivolte contro lo Stato di Israele, bensì all’antisemitismo puro e semplice, talvolta accompagnato anche da critiche: criminalizzazione, stereotipi e menzogne specifiche e generiche, che da menzogne sugli ebrei (cospiratori, assetati di sangue, dominatori del mondo) hanno ampliato il loro raggio e sono diventate menzogne su Israele Stato cospiratore e sfrenatamente violento), in modo violentissimo soprattutto a partire dalla seconda Intifada e assumendo una ferocia sempre maggiore dall’inizio dell’operazione Chomat Magen, "Muro difensivo". L’idea fondamentale dell’antisemitismo, oggi come sempre, è che gli ebrei abbiano un animo perverso che li rende diversi e inadatti, in quanto popolo moralmente inferiore, a diventare membri regolari della famiglia umana. Ora questa ideologia dell’Untermensch si è estesa a Israele in quanto Stato ebraico: un’entità straniera, separata, diversa, fondamentalmente malvagia, la cui esistenza nazionale viene lentamente ma inesorabilmente svuotata di significato e privata di giustificazione. Israele, proprio come il classico ebreo cattivo, non ha, secondo l’antisemitismo contemporaneo, diritto di nascita, ma è macchiato da un "peccato originale" commesso contro i palestinesi. La sua storia di eroismo è stata rovesciata e trasformata in una storia di arroganza. […] Sulle prime pagine dei giornali europei abbiamo visto vignette che, ripetendo i classici stereotipi antisemiti, mostrano Sharon mentre divora bambini palestinesi e i soldati israeliani impegnati a minacciare culle di piccoli Gesù. Tutto questo nuovo antisemitismo, che si è materializzato sotto forma di una violenza fisica senza precedenti contro persone e simboli ebraici, nasce nel seno di organizzazioni che si dedicano ufficialmente alla salvaguardia dei diritti umani, e ha il suo centro propulsore nel summit delle Nazioni Unite tenuto a Durban. […] Ma gli ebrei e in generale la comunità internazionale sono stati presi del tutto di sorpresa, e non hanno denunciato la nuova ondata di antisemitismo. Nessuno fa scoppiare uno scandalo se Israele viene giorno dopo giorno accusato, senza alcun motivo, di un eccesso di violenza, di atrocità e di crudeltà come nessun’altra nazione che si trovi in una situazione simile alla sua. […] Questo nuovo antisemitismo ha un volto che, come quello di Medusa, pietrifica chiunque lo osservi. La gente non vuole ammetterlo e neppure nominarlo perché in questo modo si svela sia l’identità dei suoi sostenitori sia il suo vero obiettivo. Persino gli stessi ebrei non vogliono chiamare un antisemita con il suo vero nome, temendo di frantumare vecchie alleanze. Perché la sinistra ha una propria idea molto precisa di cosa debba essere un ebreo, e se questi non segue le sue direttive, scatena autentica rabbia e furore. Come osi essere un ebreo diverso da come ti ho ordinato? Combattere il terrorismo? Eleggere Sharon? Ma sei pazzo? E qui la risposta degli ebrei e degli israeliani è sempre la stessa: siamo ancora molto timidi, molto desiderosi del vostro affetto. Perciò, preferiamo rimanere in una posizione speciale, invece di pretendere di diventare una nazione come tutte le altre, preferiamo stare al vostro fianco; persino quando tirate fuori centinaia e centinaia di affermazioni antisemite, preferiamo restare vicini a voi davanti a un monumento eretto in memoria dell’Olocausto, ascoltandovi deprecare il vecchio antisemitismo, mentre allo stesso tempo accusate Israele, e perciò gli ebrei, di essere dei killer razzisti. Facciamo un esempio che è diventato famoso in tutto il mondo: un noto giornalista italiano, già direttore del Corriere della Sera, è stato recentemente nominato presidente della Rai. E’ un incarico di grande importanza, perché la Rai è un impero che modella l’opinione pubblica italiana e controlla miliardi di dollari. Il cognome del giornalista, Mieli, è ebreo. […] La stessa notte della sua nomina, la sede della Rai è stata imbrattata di graffiti […di chiara ispirazione antisemita…]. Sorprendentemente, o forse prevedibilmente, una così sfacciata manifestazione di antisemitismo ha suscitato pochissime reazioni sia da parte delle autorità italiane sia da parte della comunità ebraica italiana. […] [Un altro esempio è fornito da] una lettera di un gruppo di professori dell’università di Bologna, indirizzata ai "loro amici ebrei" e pubblicata con un altissimo numero firme a sottoscrizione. Eccone un passaggio: "Abbiamo sempre considerato il popolo ebraico come un popolo intelligente, sensibile, forte, forse, più di tanti altri perché selezionato nella sofferenza e nelle persecuzioni, nelle umiliazioni subite per secoli, nei pogrom e, per ultimo, nei campi di sterminio nazisti. Abbiamo avuto compagni di scuola amici ebrei, colleghi di lavoro da noi stimati, anche allievi israeliani a cui abbiamo trasmesso i nostri insegnamenti portandoli alla laurea, e che oggi esercitano la loro professione in Israele. Siamo spinti a scrivervi perché sentiamo purtroppo che la nostra stima il nostro affetto per voi, per il popolo ebraico, si sta trasformando in dolorosa rabbia… tante altre persone, dentro e fuori la nostra università, che hanno stima per il vostro popolo oggi provano i nostri stessi sentimenti. E’ necessario che vi rendiate conto che oggi state facendo ai palestinesi quello che a voi è stato fatto nei secoli passati… possibile che non vi accorgiate che state fomentando contro voi stessi un odio immenso?". Questa lettera è un perfetto riassunto di tutte le caratteristiche del nuovo antisemitismo. C’è la definizione pre-sionista del popolo ebraico come di un popolo che soffre, anzi che deve soffrire per sua stessa natura; un popolo destinato a sopportare le più terribili persecuzioni senza nemmeno alzare un dito e che, perciò, è degno di compassione e solidarietà. E’ ovvio che uno Stato di Israele solido, democratico, militarmente forte ed economicamente prospero è l’antitesi di questo stereotipo. Il "nuovo ebreo", che cerca di non soffrire e che, soprattutto, può e vuole difendersi, perde immediatamente tutto il suo fascino agli occhi della sinistra. Ma fino a quando la mappa del Medio Oriente non è stata colorata di rosso dalla Guerra fredda e Israele non è stato dichiarato la longa manus dell’imperialismo americano, la situazione era diversa. Il nuovo Stato di Israele, fino alla guerra del 1967, era costruito sulla base di un’ideologia che permetteva o addirittura obbligava la sinistra a essere orgogliosa degli ebrei e gli ebrei a esserlo della sinistra, anche quando gli israeliani stavano combattendo e vincendo aspre guerre. Gli ebrei che erano sopravvissuti alla persecuzione nazifascista, la persecuzione della destra, avevano fondato uno Stato socialista ispirato ai valori della sinistra, il lavoro e il collettivismo, e in questo modo avevano nuovamente santificato la sinistra come il rifugio di tutte le vittime. […] [A Durban], i movimenti dei diritti umani […] hanno scelto Israele come nemico e obiettivo primario. Questa scelta rappresenta un grande successo per la propaganda palestinese, ma anche un grave segnale di debolezza da parte di questi stessi movimenti. L’immagine che risulta è quella di una sinistra ideologicamente e politicamente all’angolo, che ha scelto di adottare come universale una battaglia molto controversa specifica, pesantemente contrassegnata dal terrorismo. Una sinistra che invece di affrontare il sistema di globalizzazione capitalistico, prende come suo principale obiettivo lo Stato di Israele. In parole povere, la sinistra ha deciso di far pagare a Israele ciò che a suo giudizio dovrebbe pagare l’America. Non è una cosa da veri codardi? […] Denunciare questo nuovo antisemitismo dei diritti umani è un compito psicologicamente difficilissimo per Israele e per gli ebrei della Diaspora. E lo è tanto di più perché quello tra gli ebrei e la sinistra è un divorzio che quest’ultima non desidera affatto. La sinistra vuole continuare a essere considerata il paladino dei buoni ebrei. Pretende di piangere per gli ebrei uccisi nella Shoah, spalla a spalla con gli ebrei. E lo fa perché questo le dà l’autorizzazione morale per parlare delle "atrocità" di Israele. […] Fino a quando non romperemo il silenzio, noi ebrei daremo alla sinistra l’autorizzazione di negare il nostro diritto a una propria nazione, e a difendere il nostro popolo da un antisemitismo senza precedenti.
La parola d’ordine Proprio nello stesso momento in cui maledice Israele, la sinistra dei diritti umani, del pacifismo, della protesta contro la pena di morte, la guerra e le discriminazioni razziali o sessuali, elogia anche i terroristi suicidi e si compiace per caricature di Sharon degne dello Sturmer. Ma nessuno dei suoi esponenti verrà mai in Israele per fare lo scudo umano seduto in un bar o a bordo di un bus. […] Se vogliamo ottenere qualcosa, se decidiamo che è giunto il momento di combattere, dobbiamo sbarazzarci delle imposture e degli inganni "liberali". Dobbiamo saper dire che la libera stampa fallisce la sua missione quando mente, e che sta effettivamente mentendo. Dobbiamo dire che tutti i diritti umani sono violati quando a un popolo è negato il diritto all’autodifesa, e che questo diritto è effettivamente negato. I diritti umani sono calpestati anche quando una nazione viene sottoposta alla diffamazione sistematica e resa automaticamente un obiettivo legittimo per i terroristi. Non dobbiamo più accettare ciò che abbiamo accettato fin dal giorno in cui è nato il nostro Stato, vale a dire che debba essere considerato come uno Stato diverso e a sé stante all’interno della comunità internazionale. Un punto molto importante: tra le varie forme di antisemitismo oggi in voga, una riguarda la confusione tra "israeliano" ed "ebreo". Apparentemente, è sbagliato insinuare che gli ebrei agiscano nell’interesse dello Stato di Israele e non in quello dello Stato in cui vivono. Più un paese confonde i due termini, più è considerato antisemita, equindi ci si immaginerebbe che gli ebrei combattano questo pregiudizio. Ma è un grave errore. Poiché lo Stato di Israele, e insieme a esso gli ebrei, sono stati vittime del peggior genere di pregiudizi, gli ebrei dovrebbero considerare apertamente il loro essere identificati con Israele come un prestigio e un onore. […] Se è vero che Israele è l’obiettivo principale degli attacchi antisemiti, è proprio qui che dobbiamo concentrare la nostra attenzione. Dobbiamo giudicare il carattere morale della persona con la quale stiamo parlando in base a questo test: se menti su Israele, se lo ricopri di pregiudizi, sei un antisemita. Se sei prevenuto nei confronti di Israele, sei contro gli ebrei. Naturalmente questo non significa che sia proibito criticare Israele e le sue politiche. […] Israele e gli ebrei oggi hanno una sola certezza: ora che dispongono di propri mezzi di difesa, una nuova Shoah non è più possibile. Tuttavia, dobbiamo passare dall’idea di una possibile eliminazione fisica degli ebrei a quella di una loro possibile eliminazione morale. L’unico modo per affrontare questa minaccia è combattere senza paura, sul nostro stesso terreno, usando tutte le armi storiche ed etiche che Israele possiede. Nessuna vergogna, nessun timore e nessun senso di colpa. Israele ha la possibilità di dimostrare ciò che è veramente: l’avamposto nella lotta al terrorismo e il baluardo della democrazia. Non è una cosa da poco. Ma noi ebrei ci comportiamo come vittime e non cogliamo questa possibilità perché significherebbe metterci in conflitto con i nostri vecchi alleati, rinunciando alla loro legittimazione. Dobbiamo renderci conto che questa legittimazione si trova nelle nostre mani, anche se non l’abbiamo mai fatta valere. La parola d’ordine degli ebrei dovrebbe essere "orgoglio ebraico", nel senso di orgoglio per la nostra storia e per la nostra identità nazionale, ovunque ci troviamo. Orgoglio ebraico significa che dobbiamo reclamare l’esclusiva identità del popolo ebraico e suo diritto di esistere. Dobbiamo comportarci come se questo diritto non ci fosse mai stato riconosciuto perché oggi, ancora una volta, non lo è più. […] Nessuna sinistra e nessuna destra. Non daremo alla sinistra il potere di decidere dove dobbiamo stare. Decideremo le nostre alleanze da soli, in base alla situazione concreta dei nostri potenziali partner. Il secondo articolo è scritto da Emanuele Ottolenghi: "I progressisti che non stanno con Bush tradiscono se stessi" Visto da lontano, l’antiamericanismo della sinistra europea appare come un tradimento a chi, come me, idealmente si identificò in passato con valori e forze politiche (urna compresa) di sinistra. Certo non quella sinistra fatta di gente che continua testardamente ad aggrapparsi al bagaglio ideologico del comunismo. Degni forse di una medaglia alla coerenza, appaiono oggi grotteschi e tragici come soldati giapponesi dimenticati in sperdute isole del Pacifico, che combattono imperterriti ben oltre la fine del conflitto, immemori del tempo e inconsci del fatto che la storia sia andata oltre, lasciandoli orfani dei loro sogni. Difensori di un’ideologia a oltranza, osannavano la libertà, sputandoci sopra quando la libertà sfidava il comunismo. Pesano troppo ancora i silenzi sull’autunno ungherese soffocato nel sangue o la primavera di Praga priva delle simpatie che ottengono oggi coraggiosi studenti iraniani. Pesa l’apologia d’invasione quando l’Urss violentò l’Afghanistan e pesano quei sia pur sparuti manifestanti che esprimono solidarietà a Cuba, ancora oggi, persino oggi, quando troppo si sa della crudeltà di quel regime perché chi ha ancora una coscienza taccia.
"We want freedom: no freedom, no fun" Non di quella sinistra mi cruccio, ma delle forze politiche socialdemocratiche e liberali che si opposero al comunismo dopo aver lottato contro il fascismo. Pur non avendo difficoltà a scegliere l’Occidente negli anni della Guerra fredda, fu difficile a volte digerire le scelte di realpolitik che l’Occidente d’occasione disinvoltamente fece. Occorreva veramente contenere il "comunismo" in Cile sostenendo un colpo di stato contro la democrazia e un regime macchiatosi poi di gravi crimini? Bisognava proprio sostenere regimi dittatoriali o giù di lì, in Centramerica come altrove, chiudendo un occhio e pure due in tema di diritti umani e democrazia? In fondo, non è l’Occidente un luogo della mente, non geografico ma culturale, delimitato non da confini, ma da valori quali la giustizia e la libertà? Perché tradirli, dunque, in nome della realpolitik? Fu difficile digerire quel principio. Sentimento ingenuo? Forse. Ma l’ingenuità derivava dalla speranza, forse da adolescenti idealisti e non usi alle arti crudeli della politica e alla consapevolezza hobbesiana del mondo che ci circonda, che gli ideali di giustizia e libertà andassero invocati ed esportati ovunque. Forse ci illudevamo che i diritti dei palestinesi non potessero essere negati a curdi e tibetani, solo perché gli uni erano oppressi da regimi socialisti progressisti e i secondi dai compagni cinesi. Per questo si criticava l’Occidente un po’ cinico, e la sinistra filosovietica ipocrita. Proprio per questo oggi si sente nostalgia per momenti storici che coincisero con la maturità politica e intellettuale di tanti come me, dove il cinismo e l’ipocrisia lasciarono il passo al trionfo (effimero forse) degli ideali: da quell’assolato giorno di primavera in cui Nelson Mandela uscì di prigione all’esultanza bambina che colse tanti a vedere il muro che crollava a Berlino. Inevitabile evocare quei ricordi quando un giovane iraniano, intervistato di recente dalla Bbc, dice: "We want freedom: no freedom, no fun". Vogliamo la libertà, senza libertà, non c’è divertimento. Superficiale forse. Ma la democrazia liberale nasce più dai tre principi di "life, liberty and the pursuit of happiness" della Dichiarazione d’Indipendenza americana, meno dalla Francia rivoluzionaria che fu prodotta dall’Enciclopedia ma degenerò ben presto nel Terrore. L’idealismo di gioventù politica un po’ ingenua e persino infantile credeva e crede tuttora che i governi nascano ed esistano di diritto fin quando si adoperano a garantire quelle opportunità e quei meccanismi con i quali gli uomini (e le donne) cercano liberamente di raggiungere la felicità come loro stessi se la definiscono. Ecco perché io e tanti altri ci siamo sentiti appartenere a un universo ideale che identificava con la sinistra progressista e liberale europea. Abbiamo fatto le battaglie per Mandela e contro l’intolleranza a sfondo etnico e religioso, lottando per il rispetto degli immigranti. Abbiamo creduto e ancora crediamo nell’emancipazione della donna nel suo diritto a pari dignità e pari opportunità. Andiamo alla giornata dell’orgoglio gay perché crediamo nella libertà, anche sessuale, e nel diritto di ognuno di perseguire la propria felicità come meglio ritiene. Abbiamo fatto le lotte per liberalizzare la marijuana, non perché siamo tutti cannati, ma perché crediamo che sia l’educazione a proteggere i giovani dalle cattive abitudini, e non l’apparato repressivo e punitivo di leggi draconiane che si sono, ai nostri occhi, ormai rivelate inefficaci. Abbiamo sostenuto le battaglie per i diritti umani, l’autodeterminazione dei popoli, la democrazia e i diritti civili ovunque quei diritti fossero calpestati. Questo e altro, credendoci di sinistra. E quindi abbiamo criticato l’Occidente, quando la realpolitik smentiva la retorica di libertà: nel 1991 l’America meritò la censura non per aver fatto guerra all’Iraq, ma per essersi fermata in Kuwait senza rovesciare allora il tiranno. Dal che doveva discendere un plauso alla presente Amministrazione per aver compiuto un atto dovuto sia pur con dodici anni di ritardo. E invece no. L’agenda neoconservatrice che oggi influenza (ma non guida) la politica americana è un’agenda politica DI SINISTRA perché animata da ideali di giustizia e libertà. Nonostante ciò, da tre anni ormai la sinistra liberale europea tradisce quegli ideali in nome di un antiamericanismo a oltranza. Pronti a prender posizione contro l’America in nome di un falso moralismo che rifiuta "la guerra per il petrolio" o eleva l’Onu a mostro sacro, essi si schierano contro quei valori che dicono di sostenere. Come si può altrimenti spiegare lo slogan "né con Bush, né con Saddam"? Forse che avrebbero scritto sui muri di Roma estate 1943 "Né con Roosevelt né col Duce"? Quale bancarotta morale spiega il tradimento di valori quale quello commesso dalla sinistra pacifista, che avrebbe aspettato che Saddam massacrasse un altro dieci per cento del suo popolo prima di sollevare un dito, solo per una ripicca contro l’America? L’opposizione alla guerra è finita con l’essere l’arma di propaganda più forte per un regime secondo nella storia soltanto a Hitler e Stalin. Per odio all’America la sinistra oggi offre apologie sospette ai bombaroli palestinesi, blaterando sconnesse spiegazioni socio-economiche che sarebbero buffe se non giustificassero quanto un recente rapporto di Human Rights Watch ha definito come "crimini contro l’umanità". Inorridisce al pensiero che l’applicazione coerente del principio di regime change attuato in Iraq porti all’abbattimento di tanti altri dittatori. Ma perché non gioire invece e chiedere più interventismo in nome di quei valori che per anni la sinistra ha rinfacciato all’America? Il peggio viene quando uno pensa a principi come i diritti delle donne, degli omosessuali, delle minoranze. In nome del multiculturalismo in Medio Oriente la sinistra tace l’orrore della circoncisione femminile praticato in larga scala nella regione e lo stato subalterno e discriminato della donna in quelle società. Nulla dice del traffico di schiavi che attraversa il Sudan per mano di mercanti arabi in direzione Egitto e Arabia Saudita, due paesi che non brillano per democrazia e diritti umani anche se ne parlano sempre quando si ricordano dei loro fratelli palestinesi. Nessuna manifestazione di piazza ha denunciato il genocidio sudanese, il brutale trattamento dei copti in Egitto, le vessazioni che subiscono tutte le minoranze nei paesi arabi. La sinistra tace le lapidazioni di omosessuali o il loro imprigionamento in Egitto in nome di non si sa bene quale morale. Dei documentati episodi di torture in Palestina, dove le forze speciali di Arafat hanno ucciso concittadini per il solo "crimine" della sodomia non una parola. Quale ironia tragica e beffarda che il gay palestinese scappi in Israele a cercare libertà, ma la nostra sinistra stia con Arafat che li perseguita, non con Israele che dà loro libertà e protezione. E se l’America fa la voce grossa con questi paesi, la sinistra insorge contro "l’imperialismo americano".
Possibile che tutto si sia ribaltato? Dopo l’11 settembre è la destra dell’Amministrazione Bush che persegue una politica idealista, non la sinistra che la predica. L’interventismo americano che spaventa la sinistra nostrana è dichiaratamente guidato da quegli ideali di libertà e democrazia, giustizia e dignità, diritti umani e ricerca della felicità che DOVREBBERO essere patrimonio morale ancor prima che politico della sinistra. E la sinistra dov’è? A parole condanna il realismo kissingeriano e l’imperialismo americano. Ma in pratica si è arroccata sulla difesa, in politica estera, dello status quo come valore assoluto, dell’equilibrio di potere come meccanismo stabilizzante, dell’ordine costituito in ogni Stato come espressione legittima (anche se mostruosamente barbara come nel caso di Saddam) della sovranità popolare. Tradizionalmente si pensava che l’idealismo fosse retaggio della sinistra, la realpolitik della destra. Possibile che tutto si sia ribaltato? Possibile che per essere di sinistra, oggi non ci sia altra scelta se non quella di stare a destra? Carlo Panella firma il terzo articolo: "Perchè l'Europa non comprende che Israele è parte del suo cuore" L’ebraismo continua a essere il paradosso dell’Europa, il paradosso degli europei, beninteso, non degli ebrei. L’ebraismo è il metro dell’incapacità dell’Europa di essere fedele a se stessa, di sviluppare la sua convulsa continuità millenaria. E’ storia antica, che inizia da quel maledetto Tisha b’Ab, il nono giorno del mese di Av, del 1492 quando il primo Stato nazionale europeo costituito, la Spagna di Isabella di Castiglia, espelle gli ebrei dal regno. Oggi l’ebraismo è inscindibile dal sionismo, che è altra cosa, ma che ne è la garanzia di sopravvivenza e l’Europa, al solito, non comprende che Israele, il sionismo, l’ebraismo, sono parte del suo cuore in terra d’Asia. Non lo comprende soprattutto l’Europa di sinistra e non soltanto quella di origine comunista, ma anche quella che non fu mai succube dell’Urss. Nella socialdemocrazia pesa infatti una terribile ipoteca, che è – paradossalmente – di simpatia e di fiancheggiamento del sionismo. Israele è sempre piaciuto alla socialdemocrazia, infatti, perché di sinistra. Da qui il dramma. Filippo Turati era entusiasta del movimento sionista, così come i cuori di tutti i progressisti non comunisti italiani hanno battuto all’unisono dopo il 1948 per il socialista Ben Gurion, per il paese dei kibbutz. Israele piaceva e piace perché "nasce" di sinistra, guidato dai laburisti, benedetto da Mosca e da Stalin. Non perché è Israele! E’ una variante del male profondo della socialdemocrazia: è un massimalismo emotivo. Israele di Ariel Sharon, ovviamente, è lo stesso Israele di David Ben Gurion, ma la socialdemocrazia vecchia e nuova subordina il suo appoggio a un paese, a una nazione, al governo che la guida. Solidale se è socialista, critica, ambigua, o apertamente dissociata, se è nazionalista. Ma la socialdemocrazia europea ha soprattutto un’altra responsabilità: non ha mai obbligato la sinistra comunista a un esame serio sull’antisemitismo travasatole dal filosovietismo (in straordinaria coincidenza, per via filosovietica, tra ex gollisti ed ex comunisti). Il mistero del doppio ribaltone sovietico su Israele del 1947-48 ha molto, forse tutto, a che fare con l’antisemitismo, non con l’antimperialismo. Non è vero che il distacco tra Mosca e Israele avviene a seguito dello schieramento filoccidentale di Ben Gurion, per il semplice fatto che è precedente. Non c’è spiegazione al mistero storico dell’appoggio sovietico a Israele combattente nel 1947-48 (in piena Guerra fredda, al culmine della crisi tedesca) e al suo rapido ritorno alla versione classica del "sionismo agente dell’imperialismo" già nell’autunno del 1948, se non nella tempesta antisemita che Stalin scatena nella sua "finis imperii", già nel gennaio del ’49. Le date sono inequivocabili: gli arresti e le esecuzioni di ebrei filosionisti in Urss risalgono ai primi mesi del ’49. E’ l’inizio di una campagna antisemita che cresce con l’esecuzione del cecoslovacco Rudolf Slanski, segretario del Pc, con l’accusa di filosionismo (aveva fornito aiuto militare indispensabile a Ben Gurion), la condanna a morte nel luglio 1952 di 13 ebrei colpevoli di avere chiesto nel 1944 la costituzione di una Repubblica ebrea in Crimea e infine, il 13 gennaio 1953, la campagna contro il complotto dei medici ebrei, in cui viene arrestato addirittura il capo della scorta di Stalin, N. S. Vlasik, accusato di collaborazione con i "congiurati ebrei". Un’ondata antisemita che la morte di Stalin e lo stesso Nikita Kruscev non faranno terminare, ma soltanto attenuare. Il mancato esame dei geni antisemiti nella sinistra comunista è anche causa del voluto fraintendimento della questione israelo-palestinese in cui da 50 anni continua a fingere che sia problema di nazionalismo, di terra e Territori, di lotta per la Liberazione nazionale. Ma non è così: tutte le leadership palestinesi, dal gran Muftì ad Arafat, sono innanzitutto antigiudaiche, negano lo Stato d’Israele non per nazionalismo, ma perché "la Palestina è un deposito legale (waqf), terra islamica affidata alle generazioni dell’Islam fino al giorno della Resurrezione" (Hamas). Le sinistre, i gollisti, i democristiani fanno finta di non sapere che la componente nazionalista palestinese esiste, ma è minoritaria, che l’egemonia è sempre ideologica e che per questo non c’è possibilità di mediazione. Fanno finta di non sapere che è egemone la volontà di considerare islamicamente gli ebrei dei dhimmi, che devono pagare la tassa di sottomissione, non possono portare la spada e devono andare sui muli, non sui cavalli. In tedesco: untermenschen. Invitiamo i lettori di informazionecorretta.com ad inviare il proprio plauso alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.